venerdì 12 dicembre 2014

Massimo Fini: con Mussolini l’unica vera lotta alla mafia


La collaborazione con quasi cento testate, dovuta alla continua ricerca di spazi liberi, rappresenta perfettamente la personalità di Massimo Fini, giornalista fuori dagli schemi. Attualmente lavora per Il “Fatto Quotidiano”, Il “Gazzettino” e dirige il mensile “La Voce del Ribelle” con la collaborazione di Valerio Lo Monaco. Nonostante da oltre quarant’anni faccia questo mestiere, recentemente non ha risparmiato critiche alla categoria dei giornalisti: “in Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo mestiere, i giornalisti sono più corrotti dei politici, si vendono per poco”. A differenza di molti colleghi, Fini non ha mai barattato la propria onestà intellettuale: “se in un’inchiesta dovessi scoprire che mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana”.
Per questo motivo risultano interessanti le dichiarazioni rilasciate recentemente a Il Giornale, in un’intervista relativa allo spettacolo di Labini “Nerone. Duemila anni di calunnie”, ispirato da un libro dello stesso Fini.
Le frecciate a Matteo Renzi non potevano mancare: la sua politica è “del tutto basata sul virtuale, non c’è nulla di concreto. Renzi recentemente è andato da Barack Obama. Obama quando è venuto in Italia l’unica cosa che ha saputo dire era che il Colosseo è più grande di un campo da baseball. Sono due poveretti che non contano più nulla di fronte a Cina, Russia e altre potenze emergenti mondiali”. Renzi, secondo Fini, continua con “il solito tributo all’alleato presunto importante”, mettendo così a forte rischio l’incolumità dei suoi concittadini, come sostenuto qualche mese fa: “è evidente che se i caccia americani e i droni continueranno a bombardare i guerriglieri dell’Isis, intromettendosi così in una guerra civile senza averne alcun titolo, essendone anzi la causa originaria per la sciagurata aggressione all’Iraq del 2003, l’Isis porterà la guerra in Occidente. Con le armi che, in questo caso, ha a disposizione: il terrorismo. E l’Italia grazie agli infantilismi di Renzi sarà uno dei primi obbiettivi”.
Matteo Renzi, quindi, emblema di una politica di dipendenza nei confronti dell’alleato americano. Matteo Renzi, per questo motivo, lontano anni luce da Andreotti, “l’unico ad aver tentato una politica autonoma: ha fatto una politica di avvicinamento al mondo mediterraneo, anche molto abile e molto coraggiosa. In un altro paese sarebbe stato un grande statista. Nel nostro è stato a metà un grande statista e a metà un delinquente. Perché purtroppo in Italia non può non andare così. Il giornale per il quale scrivo (Il fatto quotidiano, n.d.a.) insiste sul parallelo Andreotti-belzebù, i contatti con la mafia… Il fatto è che questi contatti ce li avevano tutti. Anche l’integerrimo Ugo La Malfa aveva il suo uomo in Sicilia, Aristide Gunnella, che era un mafioso…”
Tutti tranne uno: Benito Mussolini. “L’unico regime che ha davvero combattuto la mafia è stato il fascismo. Un regime forte non può accettare che ci sia all’interno un altro regime forte. Poi, è noto che la mafia assume il potere che assume perché gli americani l’hanno usata come appoggio per lo sbarco in Sicilia”. Resistenza e mafia, binomio ormai riconosciuto insomma.
Il fascismo, però, era una dittatura, si potrebbe obiettare. Massimo Fini non sarebbe d’accordo, o meglio, Massimo Fini vede nella società contemporanea una forma di dittatura, la dittatura del pensiero unico. Basti pensare “al controllo del linguaggio, completamente asservito alla correttezza politica. Non si può più dire “frocio”. Non si può più dire “finocchio”. Sono infinite le cose che non puoi più dire in Occidente. E’ una cosa orwelliana, è un aspetto del totalitarismo più complessivo. Questa società di fatto non tollera idee che siano sovversive. E’ un sistema soft di totalitarismo”.
Come se ne esce? “Uno scrittore può cercare di svegliare le coscienze. Ma il pessimismo non permette di indicare una via d’uscita. Ma non dipende da noi. Questo mondo, come tutti i mondi totalitari imploderà su se stesso”. Per questo, sarà necessario farsi trovare pronti e con le coscienze sveglie.
Renato Montagnolo (ilprimatonazionale.it)

lunedì 3 novembre 2014

A Pino..

Crediamo sia doveroso, a prescindere da tutto e da tutti, rivolgere un pensiero a Pino Rauti, nell'anniversario della sua dipartita. Un personaggio che sicuramente ha contribuito a scrivere, direttamente e indirettamente, un pezzo della nostra storia. Un personaggio senza il quale, comunque, molti di noi non sarebbero qui e non avrebbero questo bagaglio di identità e di sogni. Nel panorama politico attuale, in questo deserto senza fine, sarebbe senza dubbio un gigante.


sabato 12 luglio 2014

Camerata Giampaolo Di Salvo PRESENTE!


Il tempo passa inesorabilmente, ma non potrà mai scalfire il ricordo di chi ci ha lasciati troppo presto. Il ricordo è vivo, arde dentro noi, nel cuore e nella mente.

Camerata Giampaolo Di Salvo PRESENTE!
Camerata Giampaolo Di Salvo PRESENTE!
Camerata Giampaolo Di Salvo PRESENTE!


venerdì 27 giugno 2014

LUIGI RIZZO, L’EROE DEI MAS

Non c’è marinaio  che si rispetti che non conosca Luigi Rizzo,  l’ eroe   dei Mas, a cui  rimane  indissolubilmente  legata la  “Festa della Marina “  che  trae  origine proprio dal ricordo della straordinaria impresa  da lui  compiuta nelle acque  di Premuda   il  10 giugno 1918:

“ L’affondamento della Santo Stefano “, avvenimento da me “drammatizzato” e rappresentato  presso molte delle Associazioni dei Marinai d’Italia  salentine nei primi anni ’90 (Gallipoli, Galatina, Taviano, Nardò, etc). Il Comandante Rizzo e i suoi  uomini, (tra cui il marò  leccese Francesco Bagnato)  riuscirono, con il piccolo mitico   Mas 15 (conservato  al Museo Storico del Risorgimento di Piazza Venezia) ad affondare  la  grande corazzata "Szent Istvan ", vanto e orgoglio  della  Marina imperiale austriaca. Fu una delle più belle e ardimentose imprese che siano state compiute sul mare nel conflitto 1915-18, un’  azione leggendaria a cui s’inchinò perfino un grande e severo  marinaio come  l’ammiraglio David Beatty, comandante in capo della Great Fleet, che espresse le più vive e sentite congratulazione  a Thaon di Revel, ma  ebbe anche una notevole importanza tattica e strategica poiché  stroncò sul nascere una pericolosa incursione della flotta  austriaca   contro lo sbarramento del canale di Otranto e di fatto  ribaltò la   situazione in Mediterraneo, dove fino allora la flotta austriaca aveva avuto una chiara superiorità, lasciando all'Italia  praticamente il totale controllo dell'Adriatico, tant’è che le navi austriache non tentarono più nessuna sortita offensiva fino al giorno della resa.

Ma chi era Luigi Rizzo? E’ presto detto. Un siciliano di pelle scura, un siculo-berbero come ce ne sono tanti in Sicilia. Era un "tuareg" del mare, perché  era nato sul mare  e tutta la sua infanzia ne fu meravigliata. Storie di mare gli raccontavano il padre e il fratello maggiore, entrambi naviganti nella Marina Mercantile; storie di guerra gli raccontavano il nonno, che combatté nel 1848 con i militi di Patria Risorgente, e lo zio, che aveva seguito Garibaldi dopo lo sbarco dei Mille a Marsala. A soli otto anni, Luigi aveva già fatto le sue scelte: la sua casa sarebbe stata la nave dove si muoveva a suo agio più che su qualsiasi altro terreno. A diciotto anni, conseguito il diploma presso l'Istituto Nautico di Messina,  è già  navigante. A  23 anni è  capitano e  pilota del porto di Messina: opera il salvataggio di un piroscafo che sta navigando nella tempesta. Gli viene assegnata la sua prima medaglia d'oro, al valor civile. Altre, d'oro e d'argento, ne seguiranno al valor militare.

Entrata in guerra l'Italia, il Tenente di Vascello Rizzo si mette subito in evidenza, imponendosi rapidamente all'attenzione generale per sangue freddo, perizia marinaresca, intraprendenza e sprezzo del pericolo. Gli viene assegnato il comando della Sezione MAS di Gradoe inizia una serie di scorribande  nel golfo di Trieste presidiato dagli austriaci. Siamo sul volgere del 1917 e l'Italia versa in una situazione assai difficile e delicata: Caporetto, con il nostro esercito in rotta,  inoltre due corazzate  austriache , la  “Wien”  e la  “Budapest”  che da mesi cannoneggiano sull'Isonzo e sul Piave, sia in appoggio delle truppe imperiali, sia per mettere fuori combattimento le nostre batterie costiere di Cortellazzo. Il morale delle truppe italiane è a terra, la situazione è insostenibile. E' un momento assai delicato per le sorti della nostra guerra. Bisogna far qualcosa prima che sia troppo tardi,  bisogna eliminare l'azione assillante e insostenibile delle due corazzate austriache, che sono entrambe ormeggiate nel porto di Trieste.  In questo momento assai delicato per le sorti della guerra, l'Ammiraglio Thaon di Revel, Capo di Stato Maggiore della Marina, s'affida al "corsaro di Milazzo". Sa che Rizzo è l'unico che può riuscire nell'impresa. E Rizzo non lo delude; penetra nel porto di Trieste e riesce ad affondare la “Wien” , danneggiando , inoltre , seriamente la  “Budapest”. 

A guerra finita, Rizzo ebbe  molti onori,  celebrazioni, titoli. Venne promosso Ammiraglio, nominato Conte di Grado, a lui furono dedicate molte strade, vie, Piazze e  perfino una diga. Ma per noi italiani , che siamo uno strano popolo,  Rizzo ebbe forse il  torto di non essere morto sul campo di  battaglia,  di non essere stato rapito in cielo dagli dei,  ebbe il torto soprattutto  di  rappresentare, certo non per sua colpa,  l'emblema di un regime.  

E ciò , con il mutare dei tempi e  della fortuna ( la caduta del regime)  , il sopraggiungere della vecchiaia e delle malattie , non gli poteva essere perdonato.   Tant'è che nel 1949  è costretto  a subire un  ridicolo  processo di epurazione con l'accusa , risultata del tutto infondata,  di aver tratto profitto dal regime,  e  contestualmente  viene  abolita la festa della Marina ,  perché legata  al  suo nome ormai chiaramente declinante.  Il  vecchio  eroe  finì per essere  dimenticato  e dovette  assistere  al trionfo  dei   parolai  pavidi  ,   di coloro che  salivano  sui carri dei vincitori e sbandieravano  il tricolore   senza mai aver imbracciato un fucile,  né mosso un dito per la  Patria ; dovette assistere    al trionfo  dei  vigliacchi, dei parassiti, degli invidiosi, degli  sciacalli che  da sempre tramano nell’ombra, dei vampiri  che succhiano il sangue dei nobili e dei coraggiosi  lui,  che era un eroe purissimo, e di questo  soffrì moltissimo,  fino al punto da ammalarsi seriamente. Gli fu diagnosticato un tumore ad un polmone.  Decise di andare a Roma, dov'era Raffaele Paolucci, altro eroe della prima guerra mondiale che era diventato medico di fama europea, che, dopo averlo visitato e avergli confermato la diagnosi, gli disse: “La cosa è grave. Bisogna asportare il   polmone prima che sia troppo tardi."

Rizzo gli rispose: " Raffaè,  fai quello che devi fare:  meglio morire una volta per tutte  che questo lento e penoso morire di ogni giorno. Qualcuno mi rimprovera di non essere morto sul campo di battaglia ,  ma è proprio lì  che io  avrei preferito morire , sul mio MAS,  magari subito dopo l'affondamento della Santo Stefano, piuttosto che assistere a ciò che oggi vedo in tutte le piazze italiane…” . “Ma tu non morirai mai” , rispose Paolucci. “  Perché  tu  sei la storia della Marina  Militare e  la storia  non si può cancellare con un tratto di gomma.” Rizzo morì  solo, in silenzio. Non ebbe cedimenti, debolezze,  non emise neppure un  lamento. Morì  così , com'era vissuto, due mesi dopo aver subito l'operazione. Era  l’inizio dell'estate del 1951 ed erano passati  33 anni dalla mitica impresa di Premuda. Il profumo delle zagare si spandeva prepotente nella campagna di Milazzo e  lui, l’eroe dei Mas, aveva da poco compiuto  64 anni.

di Augusto Benemeglio 

martedì 3 giugno 2014

La capitale dei ribelli ora è terra di Assad

Un grumo grigiastro di cemento schiacciato. Poi un altro e un altro ancora. Fino in fondo alla via. Fino al cuore dell'apocalisse. Tra una schiacciata di cemento e l'altra ritagli di mura ricamati da razzi e schegge di mortaio, fossili di palazzi trasformati in angoscianti colabrodo.
Un raccapricciante panorama di distruzione dove nessuno punterebbe sulla sopravvivenza di un essere umano. Eppure qui si è combattuto per tre anni. Qui un esercito di quasi duemila ribelli circondati dai familiari e da tanti ostaggi umani ritrovatisi prigionieri della battaglia ha resistito fino ai primi di maggio. Poi le trattative, gli accordi con il governo per la fine dei combattimenti, l'evacuazione concordata dei combattenti più irriducibili e l'internamento di altri in un centro di rieducazione dove alcuni ex miliziani jihadisti sono pronti a scendere a patti con il regime.
Così ai primi di maggio si è conclusa la battaglia di Homs. Tre anni fa quello scontro accesosi nel cuore di uno dei più importanti centri commerciali della Siria sembrava il primo passo verso l'inevitabile caduta del regime di Bashar Assad. Invece è successo tutto l'opposto. A tre anni di distanza Homs, la culla dei ribelli ha messo alla porta i propri figli, ha fatto spazio ai giganteschi manifesti di Bashar Assad che tappezzano l'entrata della città vecchia e dominano queste rovine. Sono i manifesti elettorali freschi di stampa, quelli da cui il presidente lancia i suoi sawa, ovvero gli «insieme» motto di questa campagna elettorale. Sawa buoni per ogni slogan, ma che qui a Homs diventano inevitabilmente «insieme per ricostruire», «insieme per combattere i nemici». Diventano, insomma, l'inno alla vittoria di un presidente destinato a restare al proprio posto e governare per altri sette anni. In attesa del voto di domani, anche in quest'inferno qualcosa rincomincia a risvegliarsi. Per scoprirlo basta infilarsi tra gli ammassi di ruderi, seguire il richiamo di un canto e di una preghiera. All'improvviso dopo tanta, infinita distruzione, un arco, una croce, l'entrata annerita di una chiesa. Il fuoco ha divorato la palazzina della portineria, ha mandato in cenere la biblioteca, dissolto il tetto. Dentro, tra le mura di pietra, tutto sembra intatto. Fasci di luce attraversano i crateri di una volta ferita dalle bombe, illuminano le donne e gli uomini cristiani inginocchiati nella navata. Sull'altare il barbone corvino di padre Zahri Khazal intona il Padre Nostro. I fedeli alzano le mani al cielo, se le passano sul volto, ringraziano il Signore. Sono appena ritornati e d'intatto hanno trovato solo la Chiesa della Santa Cintura della Madonna, la più conosciuta fra quelle siriaco-ortodosse dell'antica cittadella.
«Guarda cos'è rimasto della mia casa, guarda cosa mi hanno lasciato quagli assassini» urla fuori dalla chiesa Nadia Khattas. È tornata tre giorni fa e ha, per la prima volta in tre anni, rimesso piede in quel suo appartamento trasformato in dormitorio ribelle. Di quel che aveva lasciato sono rimasti un letto sfondato e un materasso pulcioso. Sui muri sforacchiati dai proiettili e dilaniati dalle granate ha appeso l'immaginetta di Gesù Cristo. Tutt'attorno i pacchi di coperte, gli scatoloni di pentole rientrati con lei. Chi difficilmente tornerà è suo figlio Marwan. Lui durante l'esodo di tre anni fa non seguì la madre, ma prese la via della Turchia. Una strada battuta, già allora dalle bande dei ribelli. Da allora mamma Nadia non l'ha né visto né sentito. L'unico suo ricordo è quella foto appesa accanto a quella del Signore. Una foto che la fa piangere e addolorare.
Fuori dall'appartamento di Nadia, nel piazzale della chiesa la messa e finita e anche padre Zehri Khazal non vede l'ora di raccontare. «Fino allo scorso anno ho continuato a entrare e uscire da questa cittadella. E quando mi hanno chiesto di non farmi più vedere ho continuato a lavorare per chiudere gli accordi di riconciliazione tra governo e ribelli. Siamo stati noi religiosi cristiani a mantenere vivo il dialogo nonostante la guerra. Ma non è bastato. Questa chiesa non è stata bruciata durante i combattimenti, ma è andata in fiamme mentre siglavamo l'intesa. L'ordine, ne sono convinto, è arrivato dall'estero. La maggior parte dei combattenti di Homs non erano jihadisti stranieri. Erano gente di qua, gente con cui si poteva discutere. Quando abbiamo raggiunto l'intesa finale qualcuno ha voluto farci capire che gli accordi tra siriani qui valgono zero.
di Gian Micalessin (ilgiornale.it) 

venerdì 23 maggio 2014

A 22 anni dalla strage di Capaci.

23 Maggio 1992 - 23 Maggio 2014

"Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro; questo debito dobbiamo pagarlo giosamente continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere;"

A Giovanni Falcone,Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Per non dimenticare


giovedì 22 maggio 2014

22 Maggio 1988. In ricordo di Giorgio Almirante, un grande Italiano.


Trovarsi a scrivere parole che non cadano nel banale e soprattutto che non siano ripetitive, parlando di Giorgio Almirante, è impresa ardua.

Almirante è stato un grandissimo della politica Italiana. Tutti ne parlavano, e ne parlano bene, anche chi lo ha odiato e soprattutto invidiato.

Giorgio Almirante è stato uno dei politici più amati, forse il più amato, ancora oggi, a 26 anni dalla sua scomparsa. L’unico che riuscirebbe a riunire quel vasto mondo frastagliato di voti e partiti che costituiscono l’eredità politica e culturale del Movimento Sociale Italiano. Nonostante la storia e gli uomini cercano sempre di cancellare tutto, Giorgio Almirante rimarrà sempre il celebre oratore che negli anni 60 e 70 riempiva le piazze di mezza Italia. Ordine sociale, pulizia morale, amor patrio, onestà, rettitudine politica, sono bandiere al vento del “credo” politico del Segretario, eredità tramandata a tutti i giovani militanti di ieri e di oggi, e che qualcuno ha volontariamente ammainato per perseguire interessi personali.

Un uomo sempre sulle barricate, sempre in trincea a difesa della propria Patria e del proprio Ideale, contro quel comunismo dilagante che prendeva ordini da Mosca e che voleva annettere il nostro paese all’Impero Sovietico. Una grande persona che incarnava tutte le qualità che i moderati di allora, e soprattutto di oggi, vorrebbero. Un leader umile, onesto, colto, educato, battagliero, vicino al popolo e ai più deboli.

In tempo di sciacalli, comici, servi dei poteri forti e di nazioni che ci hanno sempre guardato con invidia, Almirante rappresentava  la “chimera” di un uomo di altri tempi, di un politico che con grande acutezza aveva lo sguardo proiettato verso grandi orizzonti politici e sociali.

Il 22 Maggio 1988, giorno della sua scomparsa, il giornalista Indro Montanelli lo salutò così “Se n’è andato l’univo Italiano al quale si poteva stringere la mano senza paura di sporcarsi”.

Quel 22 maggio di 26 anni fa accanto al Segretario, al condottiero di tante battaglie, si stringeva un’Italia col senso del dovere, col senso della Patria, col senso dell’onore, col senso dell’onestà, col senso del rispetto. Tutti i valori incarnati da Giorgio Almirante  e che ha trasmesso a tutti noi giovani, valori che si fondano sulle sofferenze di chi ha pagato, anche con la vita, il prezzo delle sue idee. Tocca a noi l’onore, e l’onere, di un’eredità pesante, nata in un’epoca difficile e triste. Dobbiamo necessariamente ridar vigore a quell’Italia, che oggi non c’è più.

di Gabriele Italiano

mercoledì 21 maggio 2014

«Mio padre? Uomo crudele e genitore assente». Parola di Alina Castro, figlia di dittatore


Fidel Castro è una «persona con un livello di crudeltà abbastanza elevato»: così Alina Fernandez Revuelta, figlia naturale dell’ex presidente cubano, torna a descrivere descrive quello che per lei è stato «un padre assente» che se non è mai «arrivata a odiare» non nemmeno «mai chiamato papà».

 In un’intervista alla Efe da Miami – dove vive dal 1993, quando è fuggita da Cuba con un passaporto falso mescolata in mezzo a una comitiva di turisti spgnoli – Fernandez dice che «non ha avuto tempo di voler bene a su padre, perché ho saputo che ero sua figlia quando avevo 10 anni, e questo è coinciso con uno dei lunghi periodi in cui spariva: era un visitante tenero, notturno, ma non mi sono mai abituata a chiamarlo papà».

 Figlia di Natalia Revuelta Clews e l’allora leader rivoluzionario – che la riconobbe legalmente dopo la sua nascita, nel 1956 – Fernandez racconta che «avevo sempre pensato che mio padre fosse Orlando Fernandez (suo patrigno, ndr) che se n’era andato dal Paese, diventando un “gusano” (verme, termine spregiativo usato per gli esiliati dal regime, ndr) il che mi dava molta tristezza e vergogna, perché io lo ricordavo con molto affetto». «Fidel Castro non era un padre. 

Ogni tanto compariva a casa, ma era un visitante capriccioso: poteva avere attacchi di paternità ma anche lunghe assenze. Era un signore onnipresente alla televisione, nei discorsi, ma come padre era assente», racconta ancora la donna, di 58 anni. Interrogata sul modo in cui suo padre passerà alla storia, Fernandez risponde che «per i cubani l’eredità di Castro è un Paese in rovine e l’esilio, una esperienza molto dura», ma aggiunge che sua madre probabilmente direbbe esattamente il contrario, perché «per lei Cuba era il paradiso terrestre mentre per me era un inferno». Nel 1998 scrisse un libro di memorie intitolato “Alina, la figlia ribelle di Fidel Castro”.

di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

Dominique Venner: Le coeur rebelle!

Un anno fa, con un gesto che sconvolse la Francia e l’Europa e fece il giro del mondo, Dominique Venner si tolse la vita sull’altare di Notre Dame.Gesto voleva essere un estremo atto di denuncia e incitamento alla ribellione nei confronti della decadenza culturale francese ed europea, c’è chi ne ricorda la figura di uomo, storico, soggetto politico che ha votato – e infine sacrificato – la propria esistenza a un’idea spirituale di patria e appartenenza.
Rebelle jusqu'au bout..

Se l’Europa ghigliottina il pensiero

Il dominio del pensiero unico uccide le differenze. E gli europei non lo sopportano più


Gli europei non sopportano più questa specie d'Europa per una ragione evidente e una latente. La ragione evidente è l'oppressione finanziaria, il maleuro che produce crisi.

La ragione latente è il dominio del pensiero unico che uccide le differenze.
Mi spiego con due esempi. A Parigi Hollande il socialista per sopravvivere ha scelto un primo ministro liberal e mercatista in economia. A Londra Cameron il conservatore per farsi accettare ha aperto ai matrimoni gay e ai temi bioetici e femministi. C'è una relazione tra i due casi? Sì, c'è e si chiama Pensiero Unico.
C'è un Canone europeo che costringe i governi europei a conformarsi a un Parametro, siano essi di destra o di sinistra. Quel Canone obbliga la destra a capitolare davanti al nuovo catechismo dei diritti bioetici e impone alla sinistra di inginocchiarsi all'inesorabile dominio mercatista. I primi se vogliono sopravvivere devono rinunciare ai principi conservatori, i secondi se vogliono restare ancora a tavola devono rinunciare ai principi sociali. E ogni fede deve piegarsi al tecnolaicismo.
In questo modo finiscono le culture civili, le visioni politiche, le differenze etico-culturali e trionfa il Pilota Automatico di cui parlava Draghi a proposito dei governi europei. Anche per reazione a quel deficit crescono i movimenti populisti contro quest'Europa. Renzi rimbalza come una pallina da Parigi e Londra, via Bruxelles e Berlino, va da Hollande e da Cameron e si presenta come ambidestro. 'A livella europea colpisce teste e cuori, oltreché portafogli.
di Marcello Veneziani (ilgiornale.it)

venerdì 9 maggio 2014

Il trafficante di pensieri- Breve storia di Peppino Impastato

Breve e intensa storia di un siciliano, uno particolare, uno trentenne, giovane e intraprendente, capace di trafficare idee e pensieri, sogni e speranze, per una terra nuova, per un'isola viva. Poche parole per ricordare a 35 anni di distanza dalla sua scomparsa Giuseppe (Peppino) Impastato, morto per mano mafiosa il 9 maggio del 1978 a Cinisi.
Peppino, o Giuseppe (per chi il sud lo conosce poco), nasce a Cinisi il 5 gennaio 1948 e non è un tipo popolare, al massimo di lui si potrebbe dire che sa prendere la vita con ironia, che sa coinvolgere e che sa circondarsi di amici, ma di certo non è un tipo popolare, anzi, Peppino è il classico tipo “testa dura” che “ti li tira di sutta i pedi” (te le tira da sotto le scarpe) e che riesce semplicemente con queste sue caratteristiche, con questo essere se stesso, a mettere in crisi, se non quasi a distruggere, l’andamento tradizionale di una famiglia, la sua famiglia, e di un paese, il suo paese, entrambi appartenenti al grande meccanismo mafia che a Peppino sin da giovane non va poi così a genio, anzi: inizia immediatamente a rompere i legami col padre, che lo caccia di casa, e avvia un’attività politico-culturale strettamente legata ad idee antimafia che lo vede protagonista nella lotta contro l’espropriazione delle terre ai contadini di Cinisi per la costruzione di una terza pista dell’aeroporto di Palermo, utilissima al controllo del traffico di droga da parte dei boss mafiosi della zona di Cinisi, ma totalmente inutile nella zona di Punta Raisi, data la presenza di forti venti meridionali di scirocco. Subito dopo fonda il gruppo “Musica e Cultura”, a dopo ancora, a cavallo dell’onda delle radio libere degli anni settanta, fonda la sua “Radio Aut”, libera ed autofinanziata, ironico megafono di denuncia di delitti e affari delle cosche della zona ed in particolare del boss Gaetano Badalamenti, il Tano Seduto nella trasmissione Onda Pazza condotta dallo stesso Peppino. Nel 1978, poco più che trentenne, decide di candidarsi con Democrazia Proletaria alle elezioni comunali di Cinisi, dimostrazione di una voglia di responsabilità vera e diretta. Dopo qualche giorno dalla scelta, ad ormai  una settimana di distanza dalle votazioni, Peppino viene assassinato: esce dalla sede di Radio Aut in serata, come di consueto, saluta tutti, ha fame, deve andare a cenare e deve fare presto, l’appuntamento con i compagni è per le 21. Prende la litoranea e si avvia verso Cinisi, lungo la strada viene bloccato da due o tre persone, condotto di forza nei pressi del casale Venuti, massacrato e torturato e successivamente posto tra i binari con una carica di tritolo sotto le spalle.
Ucciso due volte Peppino è ormai quasi irriconoscibile. Il giorno dopo, stesso giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, i pochi giornali che riportano la notizia del caso Impastato, parlano di un ragazzetto, brigatista, che durante un tentativo di sabotaggio per mezzo di tritolo della linea ferroviaria era cascato male finendo per rimanere egli stesso ucciso. Nessuno parla di assassini o anche solamente di assassinio, quello che è accaduto è un incidente che ha addirittura scongiurato un attacco brigatista. Tutto tace, ma gli amici, quegli stessi amici di cui a Peppino avevamo riconosciuto capacità di circondarsi, non riescono ad esserne convinti, non riescono a ritrovare nelle descrizioni dei giornali la figura del loro Peppino e tre giorni dopo, convintamente, scrivono per la prima volta il nome MAFIA nel caso Impastato, tappezzando Cinisi di manifesti e comprovando le accuse con i resti ritrovati nel casolare di contrada Venuti, luogo della prima uccisione di Peppino. L’attività di ricerca e documentazione inizia ad essere intensa, si ricerca ogni minimo particolare capace di ricondurre ad un assassinio per mano mafiosa e arrivano anche le dichiarazioni della madre Felicia, bastevoli per confermare quanto già dedotto dalle ricerche: il 5 marzo 2001 la Corte d’assise di Palermo riconosce Vito Palazzolo colpevole dell’omicidio Impastato, condannandolo a 30 anni di reclusione, l’11 aprile 2002 la Terza Sezione della Corte d’Assise del Tribunale di Palermo pronuncia la sentenza di condanna all’ergastolo di Gaetano Badalamenti, come mandante dell’omicidio.
La storia di Peppino termina dunque così, con due condanne: una a chi fisicamente fu incaricato di compiere l’omicidio e l’altra a chi l’omicidio lo commissionò. Nessuna condanna alle decine di poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti, che in poche ore, quasi sincroni tra loro, riuscirono a condannarlo Peppino, presentandolo al mondo come un piccolo terrorista e occultando il più possibile le mille verità che la storia Impastato cercava palesemente di mostrare.
Un vita strana quella di Peppino, una vita che avrebbe potuto raccontarci chissà quante altre storie, quante altre vicende, quante altre avventure da poter citare e raccontare. O forse no, forse Peppino, vivendo, sarebbe rimasto un ragazzo di Cinisi, e basta. Sarebbe rimasto lì, tra i palazzetti e le case abusive di Terrasini, sarebbe rimasto nella memoria di chi lo ha conosciuto e sarebbe rimasto sconosciuto ai molti. Sarebbe stato lo stesso Peppino Impastato ma nessuno, nessuno, ce lo avrebbe raccontato, nessuno avrebbe ritrovato eccitante la semplice storia di un ragazzo trafficante di pensieri.

di Carmelo Traina (fanpage.it)

lunedì 5 maggio 2014

Bobby Sands,martire d'Irlanda.

Il 5 maggio 1981, Bobby Sands morì nella prigione di Maze, a pochi chilometri da Belfast. Aveva 27 anni, un terzo dei quali passati in prigione, e morì a causa dello sciopero della fame che aveva iniziato per protestare contro l’abolizione dello status di “categoria speciale”. Lo Special Category Status (SCS) veniva garantito a partire dal 1972 a tutte le persone che venivano arrestate per cause legate al movimento separatista dell’Irlanda del Nord. La sua abolizione era vista dal movimento come una misura per “criminalizzarlo” e allontanare la questione dell’Irlanda del Nord dal piano politico per renderla solo un problema di ordine pubblico. Danny Morrison, segretario del Bobby Sands Trust e responsabile della comunicazione per il Sinn Féin (lo storico partito indipendentista nordirlandese) dal 1979 al 1990 ha scritto un ricordo di Bobby Sands sul Guardian e ha spiegato perché la memoria della sua vicenda è ancora molto viva oggi, dopo che al ragazzo sono state dedicate strade, film e canzoni.
Bobby Sands stava scontando una condanna a 14 anni per possesso di arma da fuoco. A Maze, chiamata anche “H-blocks” perché viste dall’alto le costruzioni della prigione erano a forma di H, erano detenuti diversi altri appartenenti al movimento separatista, solitamente imprigionati per possesso di armi e attività paramilitari (inclusi attentati e omicidi). A partire dalla metà degli anni Settanta le proteste dei detenuti erano continue, e includevano il rifiuto di indossare l’uniforme della prigione e di chiamare le guardie “signore”, oppure la cosiddetta “protesta sporca”, che consisteva nel ridurre gli ambienti del carcere in condizioni igieniche terribile imbrattando i muri e rifiutando di lavarsi. Da parte sua, l’amministrazione carceraria rispondeva con l’isolamento e i pestaggi. Il primo ministro britannico Margaret Thatcher negava ogni dialogo dicendo che i carcerati non rappresentavano nessuno e non avevano dunque alcun diritto ad essere ascoltati.
Bobby Sands iniziò lo sciopero della fame il primo marzo 1981, chiedendo che ai detenuti per il separatismo nordirlandese venisse riconosciuto lo status di prigionieri politici o di guerra e non quello di criminali comuni. Sands decise che altri detenuti avrebbero potuto seguirlo, ma preferibilmente a distanza di qualche settimana, in modo da guadagnare più attenzione da parte dei mezzi di comunicazione. Sands fu il primo a morire, dopo 66 giorni. Venticinque giorni prima, mentre portava avanti lo sciopero, fu eletto alla Camera dei Comuni britannica nella circoscrizione di Fermanagh and South Tyrone: il fatto diede notorietà internazionale alla protesta della prigione di Maze, a cui parteciparono altri ventidue detenuti. Nove di questi lo portarono avanti fino alla morte. Lo sciopero venne sospeso solo il 3 ottobre.
Margaret Thatcher parlò della protesta come dell’”ultima carta dell’IRA”, ma la previsione si rivelò essere clamorosamente sbagliata. Il supporto al movimento repubblicano aumentò notevolmente e il partito politico legato all’IRA, il Sinn Féin, crebbe fino a diventare il maggior partito dell’Irlanda del Nord.
da ilpost.it

venerdì 25 aprile 2014

La storia di Giuseppina Ghersi,vittima innocente delle barbarie partigiane.

L’infanzia è il periodo migliore della nostra vita. Siamo spensierati, felici, circondati da tutti i nostri affetti. Viviamo la vita da cuccioli che, ancora al caldo del focolare domestico, scalpitano per uscire fuori e assaporare la vita. Voglio raccontare questa storia – vera, ma taciuta e contestata – di un’infanzia rubata, e voglio farlo senza scadere in disgustose diatribe o accuse politiche. Cercherò anzi di evitarle, per quanto posso. Ci tengo solo a dire che questa storia che spezza il cuore è conservata nei cuori dei parenti di chi l’ha vissuta sulla propria pelle, ed è un po’ meno conservata nei libri di storia, dove si lascia abbondantemente spazio ad altri fatti.


Siamo nel 1945, Giuseppina Ghersi era una studentessa di 13 anni dell'istituto magistrale “Maria Giuseppa Rossello” del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli. La piccola Giuseppina, durante un compito in classe, svolge un tema sulla figura di Benito Mussolini, e il suo elaborato piace talmente tanto che la maestra lo invia al Capo del governo, il quale, attraverso la sua Segreteria Particolare, invia i complimenti all’autrice del tema. Quel compito in classe, scritto con la diligenza e lo zelo di una qualunque bambina di 13 anni vispa, allegra e incline allo studio – costerà a Giuseppina la vita.


Il 25 aprile, alle 17:00, i partigiani garibaldini, appena entrati a Savona, bussano alla porta dei Ghersi chiedendo del «materiale di medicazione» che la famiglia non esita a fornire volentieri. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, vengono fermati da due partigiani armati e condotti al campo di concentramento di Legino, nella zona dell’odierno complesso delle scuole medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello, perché in quel momento è ospite di alcuni amici di famiglia. I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza alcuna accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani, i quali rispondono che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. I genitori, persuasi dalle rassicurazioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola. 

L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al campo di concentramento dove comincia la tragedia. È il pomeriggio del 27 aprile 1945: madre e figlia vengono stuprate sotto gli occhi del padre che, bloccato da cinque uomini, viene percosso col calcio di un fucile alla testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi. Non contenti, i partigiani rasano a zero Giuseppina, le imbrattano il viso con la vernice rossa e dopo due giorni di altre torture e angherie, il 30 aprile 1945, pongono finalmente fine al suo triste calvario, con un colpo di pistola alla nuca, gettando il cadavere davanti alle mura del cimitero di Zinola.


Ma  un’altra violenza, quella dell’oblio, continua a ferire Giuseppina e la sua famiglia. Per decenni non si è parlato di questa tragedia, e la risposta ai tentativi di far luce sulla vicenda è stata che la bambina fosse una collaborazionista del morente regime fascista. C’è poco o nulla da aggiungere a questa straziante storia, anche perché il cuore è cupo di dolore e rabbia. Un fiore giovane reciso con odio cieco, rozzo, bestiale. Una storia affondata nel dimenticatoio, troppo riconducibile a certi argomenti che rappresentano un tabù e di cui non se ne può e non se ne deve parlare. Il vizio della memoria – e anche il rischio che la memoria corre - è quello di diventare stantia, ripetitiva, farraginosa, come un rituale stanco e svuotato di significato. Con la vicenda di Giuseppina questo pericolo non si corre, perché non ne parla nessuno. È un grido sordo che cade nel vuoto perché non c’è nessuno a fare da eco a questa storia, è una storia scomoda, è una storia che non va raccontata, una storia che insudicia di sangue innocente chi ci ha portato la Liberazione. È una storia che reclama ancora giustizia. Ed è difficile parlarne con lucidità e obiettività, perché è una storia che fa davvero male.

di Francesco Onorato (ilfuturista.it)

mercoledì 23 aprile 2014

Una tragedia dal titolo 'cedesi attività'

Gli storici del fenomeno urbano, come lo scomparso Lewis Mumford, ci hanno insegnato che “le città sono un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli umani”. Egli si riferiva allo sviluppo lineare nel tempo, attraverso cui i cuori pulsanti delle città, si incastrano tra boutique, negozietti, botteghe e artigiani. Questo “ordine naturale” spiega il fascino di città storiche ghermite di vita e cordialità, un po’ come la Boutique des Anges, paradiso parigino dell’oggettistica di soggetto angelico in rue Yvonne-le Tac, o Chat-Bada, regno mondiale dei gattofili in rue des Ecoles. A Londra, i celebri tabaccai Dunhill di Davies St. o il calzolaio Lobb di St. James St., ma anche quello sgabuzzino dietro Oxford St. dove trovi ancora una pezza del tartan, fuori catalogo perché gli antichi telai si sono usurati e nessuno è più in grado di ricostruirli.

 Bologna, una delle città più antiche d’Italia ha visto chiudere qualcosa come 556 negozi nel centro storico, fenomeno causato dal mondialismo, che nei centri commerciali trova la sua massima espressione. I borghi si svuotano di vita, le piazze rinsecchiscono, i piccoli imprenditori emigrano altrove, le botteghe, le utensilerie, i piccoli negozi di abbigliamento spariscono nella “mano invisibile” smithiana o peggio, nell’usura teorizzata da Pound. Mentre i colossi si ingigantiscono, creando l’illusione dei posti di lavoro, si rifanno in realtà sulle ossa delle città storiche che, come enormi balene morte, affondano negli abissi. L’economia che prima alimentava il tessuto urbano intriso di storie, quartieri, rapporti umani, finisce nelle tasche nascoste dei grossi finanziatori internazionali dalle francesi Decathlon o Carrefour fino alla Coop del Ministro Poletti, quello che ha applicato la “riforma del precariato”, nel senso che ora si è precari per legge, non per sciagura.

 Se il quadro non vi è ancora chiaro o familiare, basta farsi un giro nella Via Giacomo Medici e contare i fantasmi del commercio: anche il franchising si è arreso. Piazza Roma, Piazza San Papino, il Ciantro, sono solo gli ultimi segnali di questa metastasi etica. Bar, rosticcerie, centri per la telefonia, persino le edicole storiche sono costrette a spostarsi in questo marasma ottuso, bieco, incivile.

 E mentre Palazzo delle Aquile diviene la sede dei falchi e degli avvoltoi (?!) che si contendono le poltrone delle prossime amministrative, la città muore lentamente tra gli spettri e i baroni, come nella tragedia del Macbeth. Quando finirete di leggere questo pezzo sarà già troppo tardi, persino per gli ultimi baluardi – vedi Bonina e Cambria – per pensare a una strategia per evitare l’iceberg. Il requiem risuona intrepido tra le vie del paese sulle note di un pentagramma unidirezionale che recita: “cessione attività”. E l’ultimo giovane che se ne va, senza voltarsi indietro, senza capire il perché.


di Francesco Bacone (pseudonimo letterario) 
da InformAzione Milazzo del 12.04

giovedì 17 aprile 2014

La Grande Disfatta.Storia di un premio che non ci appartiene.


Sono passati  quasi quattro anni da quella estenuante campagna elettorale che ha visto protagonisti diversi “soggetti politici” darsi battaglia senza esclusione di colpi e che ha visto vincitore Carmelo Pino,il sindaco “sfiduciato” del passato tornato alla carica e alla ribalta grazie al decisivo apporto dei soliti noti “cultori” della politica nostrana Esattamente 1455 giorni, giorno più giorno meno, da quel fatidico mese di giugno che nel bene(poco) e nel male(tanto) ha segnato e segnerà la vita della nostra città. Millequattrocento giorni che hanno fatto sprofondare “la penisola del sole” in un opaco grigiore che lentamente fa spegnere la sua naturale bellezza.
La Grande Bellezza, per citare il film di Sorrentino, della nostra città salita alla ribalta della cronaca regionale e nazionale non per le sue qualità artistiche paesaggistiche e culturali, ma per aver ricevuto l’Oscar del Fallimento. Il fallimento del ritorno al passato che ha dato linfa a tutte quelle “mummie” che il popolo sovrano aveva definitivamente archiviato anni fa.

L’Oscar del fallimento politico, programmatico e amministrativo. L’Oscar del peggior attore protagonista, l’Oscar della folle regia, l’Oscar della vendetta politica e della menzogna. Il prestigio di premi unici, consegnati dall’Accademy dell’Ignoranza che annovera tra i suoi giudici sigle prestigiose del calibro del Partito Democratico, la sinistra milazzese e la compagine finiana(che cerca oggi di riciclarsi). 

Millequattrocento giorni di piacente programmazione, tra Carmelo Pino e la sinistra, che hanno consegnato alla città il premio della disfatta e della rassegnazione. Anni di compiacente convivenza, che qualcuno oggi, intende rinnegare prendendone le distanze, dopo essere stato membro attivo dell’Accademy dell’orrore. Un anno o poco più separano la nostra città dalle elezioni amministrative che, per una serie di eventi e circostanze, saranno importanti e d’impatto più dell’Oscar di Sorrentino. 

Un anno o poco più per ridare alla nostra città la dignità perduta. Per riscoprire l’orgoglio di essere milazzesi e di poter decidere le sorti del nostro paese, di ritornare ad essere la Penisola del Sole e di vincere l’oscar di meravigliosa città quale siamo,per tornale alla ribalta per la nostra “Grande Bellezza” e non per i villani giochetti di palazzo.
                                                               
di Gabriele Italiano (da InformAzione Milazzo)

mercoledì 16 aprile 2014

“Dissesto,il gigante dai piedi d’argilla” Intervista all'Avvocato Marcello Scurria.


Il ritorno del consiglio comunale oltre ad aver annullato gli effetti della dichiarazione di dissesto ha premiato la perseveranza di alcuni consiglieri che, incuranti dei falsi proclami provenienti dal palazzo, hanno portato avanti il loro ricorso passando due volte per il Tribunale Amministrativo Regionale, due volte per il Consiglio di Giustizia Amministrativa. Figura significativa in questo lungo iter processuale è stata quella dell’avvocato amministrativo Marcello Scurria, che abbiamo intervistato in qualità di esperto in materia e che  ha assistito legalmente i consiglieri nei ricorsi presentati  per  far valere le ragioni degli stessi  opposte a quelle del Sindaco sulla dichiarazione  di  fallimento dell’ente.

Avvocato, quali sono i rimedi che la legge prevede da adottare per evitare  lo stato di dissesto?

Prima del D.L. 174/12, poi convertito con la L. 213/12, non era prevista alcun alternativa alla dichiarazione di dissesto finanziario degli Enti locali. Con la c.d. legge salva-comuni, invece, il Legislatore, dopo anni di silenzio, verosimilmente recependo le fortissime sollecitazioni provenienti dagli enti territoriali, ha finalmente compreso che il dissesto non risolveva i problemi finanziari (è lungo l’elenco dei Comuni dissestatinche nonostante le cure continuavano a restare in una situazione di criticità). Si è compreso, in estrema sintesi che gli Enti locali non riuscivano a riequilibrare i bilanci facendo fronte, esclusivamente, con le entrate proprie. Da qui l’idea di del prestito decennale che fa respirare le asfittiche casse comunali. Un ulteriore segnale positivo, poi, è rappresentato dalla legge che consente agli Enti locali di far fronte ai propri debiti mediante un mutuo trentennale con la Cassa depositi e prestiti. In conclusione, seppure sotto forma di “prestiti, lo Stato ha finalmente aperto i rubinetti per consentire agli enti locali di uscire, seppure gradualmente, da conclamate situazioni di crisi finanziaria.

Il dissesto è stato  annullato, l’amministrazione comunale ad oggi non ha revocato i provvedimenti adottati  durante la fase del dissesto(aumento tariffe,Imu,tasse locali e altro)è legittimo ciò?

Tutti i provvedimenti amministrativi, in linea di principio, possono essere annullati in autotutela. Credo, per quanto riguarda questi provvedimenti il Consiglio Comunale, in via preliminare, dovrà verificare se sussistono le condizioni per aderire nuovamente al piano decennale di riequilibrio (la deliberazione è stata già approvata nel dicembre del 2012 ma liter, com’è noto, è stato interrotto dalla dichiarazione di dissesto ad opera del Commissario prefettizio.

Un ente dichiarato dissestato quale conseguenze causerà alla comunità?

Le conseguenze sono disciplinate dalla legge. Tra le tante, quella che Comune che va in dissesto non può contrarre mutui. L'ente locale non può impegnare per ciascun intervento somme complessivamente superiori a quelle definitivamente previste nell'ultimo bilancio approvato, comunque nei limiti delle entrate accertate. I relativi pagamenti in conto competenza non possono mensilmente superare un dodicesimo delle rispettive somme impegnabili, con esclusione delle spese non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi. Le aliquote e le tariffe di base vengono innalzate nella misura massima consentita.

Tutti i comuni d’Italia si sono avvalsi della legge emanata da Monti (salva comuni) l’amministrazione comunale ha preferito dichiarare il dissesto (annullato oggi) quali danni ha prodotto medio tempore alla comunità?

E'’ stato perso del tempo prezioso!
La legge antidissesto è la soluzione dei problemi degli Enti locali in difficoltà. Finalmente lo Stato ha compreso che era inutile far dichiarare il dissesto agli enti locali. Da circa 10 anni lo Stato impediva di poter far fronte ai debiti mediante un mutuo ventennale a totale carico dello Stato. I Comuni e le Province dovevano trovare i soldi vendendo tutto ed aumentando le tasse al massimo. Un tunnel dal quale difficilmente si usciva! 

Alla luce del Dlg 35/13 il comune quale opportunità ha perso?

Il Comune di Milazzo, per quanto mi è dato sapere, ha già usufruito dei benefici del DL 35/13. Resta da verificare, tenuto conto della sospensione della deliberazione di dissesto, se può ulteriormente integrare la domanda anche per i debiti precedentemente esclusi a causa della dichiarazione di dissesto. A mio parere è possibile e ciò giustificherebbe la riapprovazione del piano decennale di riequilibrio (salva-comuni). Quello che prima doveva essere restituito in dieci anni con il D.L. 35/13 potrà essere restituito in 30 anni. La soluzione dei problemi.

a cura della redazione di InformAzione Milazzo


Il rogo di Primavalle, tragedia da non dimenticare

Il 16 aprile è una data che dovrebbe essere ricordata, ma in troppi hanno dimenticato. Il 16 aprile 1973, alle 3 di notte, un commando di “Potere operaio” – una delle tante formazioni della sinistra extraparlamentare di quegli anni – composto da Manlio Grillo, Marino Clavo e Achille Lollo entra di soppiatto in una palazzina di via Bibbiena a Roma, quartiere Primavalle. Dopo aver scavalcato il cancelletto d’ingresso, i tre si dirigono verso la soglia di un appartamento. Uno di loro versa circa dieci litri di benzina, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i tre accendono una miccia e scappano. Una vampata, un’esplosione, e quando i famigliari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione.
La famiglia all’interno dell’alloggio che brucia è composta da papà Mario Mattei, che si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fuggita attraverso la porta di casa portando con sè il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni, e altri quattro figli: Lucia, di 15 anni, si getta da un balconcino ed è afferrata al volo dal padre; Silvia, 19 anni, si butta dalla veranda della cucina e se la cava con due costole e tre vertebre rotte. Ma gli altri due non ce la fanno: Virgilio Mattei, di 22 anni, e Stefano, di soli 10 anni, restano intrappolati tra le fiamme e muoiono carbonizzati. Un quartiere attonito, svegliato dalle fiamme e sceso in strada, assiste dal vivo alla morte dei due fratelli. Persino un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante.
Perché è successo? Mario Mattei è segretario della sezione del Msi di Primavalle. Un “fascista”. E negli anni in cui “Uccidere un fascista non è reato” va punito, anche a costo di stroncare giovani vite in modo crudele.
Quello che succede dopo è anche peggio, se possibile. La macchina perversa del “Soccorso Rosso” si attiva prontamente, sia per proteggere gli assassini, arrestati quasi subito, sia per elaborare tesi innocentiste a dir poco vergognose. Viene pubblicato un libro: “Primavalle, incendio a porte chiuse”, con lo scopo di dimostrare la teoria per l’appunto dell’”incendio a porte chiuse”, ossia che i Mattei si siano bruciati la casa da soli. O sono diffuse tesi ugualmente strampalate sul “regolamento di conti interno tra militanti del Msi”.
Nessuno, negli ambienti della sinistra ma non solo, crede alla colpevolezza dei militanti di Potere Operaio. O si fa finta di non credere. Tant’è che Achille Lollo riceve lettere di stima e solidarietà da leader politici, come Riccardo Lombardi del Psi, e intellettuali come Franca Rame, che il 28 aprile 1973 scrive al “caro Achille” (Lollo) augurando, tra parole intrise di comprensione e affetto, “una brutta fine al giudice Sica”, ossia il giudice che l’ha inquisito. Persino Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e Franca Rame, disegna vignette satiriche di assai dubbio gusto sul rogo di Primavalle.
Poi arriva la giustizia: nel primo grado i tre aguzzini sono assolti per insufficienza di prove, nel secondo condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Preterintenzionale!
Achille Lollo, rilasciato in attesa del processo di appello, fugge in Brasile, dove ancora attualmente è militante attivo del Pt, il partito dei lavoratori di Lula. Manlio Grillo scappa in Nicaragua con la complicità di Oreste Scalzone. Marino Clavo fa perdere le sue tracce.
Ogni 16 aprile, ma non solo, sarebbe bene ricordare che tre assassini non hanno mai pagato per avere ucciso in modo efferato un ragazzo di 22 anni e un bambino di 10. E che gli stessi tre, in nome dell’odio politico e di un’ideologia discutibile, sono stati difesi strenuamente da politici e intellettuali. Uno degli intellettuali di “Soccorso Rosso”, Dario Fo, anch’egli in prima linea nel difendere gli assassini del rogo di Primavalle, anni dopo ha vinto un premio Nobel.


di Riccardo Ghezzi (qelsi.it)

martedì 15 aprile 2014

"SMASCHERATI" il CGA conferma: sentenza inappellabile, dissesto annullato

Carnevale è passato da un mese, i coriandoli ed i festoni sono scomparsi e anche le maschere non si vedono più. Come ogni anno però una maschera era rimasta per le strade della nostra città anche dopo il periodo di festa.
Non era una maschera colorata e nemmeno una maschera fanciullesca pronta a far divertire qualcuno. Era una maschera pesante, cupa e con un ghigno famelico, un volto che lascia trapelare odio e rancore. Questa presenza che ormai da 4 anni aleggiava pesantemente sulla nostra Milazzo è finalmente caduta, smascherando chi astutamente cercava di portarla a discapito di tutti gli ignari cittadini.

Come un fulmine a ciel sereno, il Consiglio di Giustizia Amministrativa di Palermo ha emanato un’ordinanza per confermare la precedente sentenza per la quale il dissesto era inequivocabilmente annullato insieme a tutti i devastanti effetti da esso portati. Una notizia che ha provocato in città reazioni contrastanti.  Se da una parte troviamo un consiglio comunale pronto finalmente a riappropriarsi del proprio posto in aula, dall’altra diversi esponenti dell’amministrazione hanno inspiegabilmente cercato di rivoltare a proprio favore la lampante disposizione del CGA cercando con un ultimo disperato colpo di coda di rimanere avvinghiati alle poltrone che tanto hanno bramato.

Crollano definitivamente le menzogne e le bugie che avevano sostenuto l’insostenibile castello di carte. Viene cancellata la scellerata scelta di mandare Milazzo verso un fallimento capace di mettere in ginocchio le attività commerciali, gravate di sovrattasse impensabili. Corrono a nascondersi gli ultimi fedelissimi sostenitori del dissesto. Torna nell'ombra quella sparuta e faziosa minoranza composta da telecronisti sportivi di dubbia professionalità e professori “diversamente” preparati che avevano avuto il coraggio di difendere l'operato folle di una giunta che deliberatamente ha costretto la città sull'orlo del baratro.

Torna a rivedere la luce del sole questa nostra città ormai da troppo tempo oscurata da questi avvoltoi mascherati da agnellini, finalmente smascherati senza possibilità di appello. Finisce per Milazzo un triste e cupo carnevale, fatto di pagliacci e maschere tristi; finisce nel migliore dei modi per la città che finalmente può strappare via dalle facce degli avvoltoi queste maschere maledette. Questo triste carrozzone  è finalmente smantellato e i saltimbanchi che ne facevano parte dovranno tornare da dove sono venuti e non mostrare più i loro volti in città, adesso che quelle maschere che tanto gli erano care sono state strappate via.


Inizia finalmente per Milazzo il periodo della rinascita, il momento di rialzare la testa per poter guardare con fierezza quella luce che per tanto tempo era stata oscurata da chi voleva la nostra città morta ed asservita alle proprie personali ambizioni.

di Giorgio Italiano
(tratto da InformAzione Milazzo del 12.04.14)

lunedì 14 aprile 2014

E se Ulisse tornasse…


È la storia di quel tale che per qualche strano motivo torna nella Milazzo che in vita sua, aveva visto solo una volta. Immaginate Ulisse, tornare a Milazzo, passare dalla grotta di Polifemo, il suo mostro preferito, vedere che è chiusa e pericolante, come tutte le strutture attorno, notare come il sicuro pietrisco dello sterrato ha lasciato il posto alle buche e all’asfalto. 

Ulisse e i suoi si stupirebbero, anche se ora sono invecchiati, anche se la sapienza ha lasciato spazio alla saggezza, alla pacatezza e alla serenità. Eppure l’eroe di Itaca a rivedere la sua Milazzo farebbe fatica a trovare pesci nel mare – qualora trovasse acqua poco inquinata – a riconoscere un tempio alla divinità di Atena, tra le guglie metalliche della Raffineria. Si fermerebbe a parlare con gli anziani e scoprirebbe che questa città è amministrata da un collegio di probiviri che poco hanno a cuore le sorti di Mylae.

Uffici bloccati, zero entrate zero uscite, uno stallo politico e burocratico che tiene a scacco la vita della città del Capo. Tra le palme piegate al suolo dai punteruoli rossi, come l’orgoglio dei cittadini, e le attività commerciali praticamente in dissolvenza nell’elogio funebre di una Troia in fiamme, il fedele marito di Penelope riconoscerebbe solo tristezza e povertà. Morta è persino la demos-crazia. 

Eppure quella Milazzo dai dirupi calcarei del capo, tra le insenature pacifiche dei laghetti di Venere, le splendide vedute della Baronia e del Castello restaurato dalla passata amministrazione, ha ancora qualcosa che potrebbe ispirare Omero. Una lirica soffiata nel vento, provenire dalle isole di quel Dio Eolo, raccontata da millenni di storia che hanno fatto di Milazzo la patria della cultura messinese. Ulisse padre del libero arbitrio potrebbe chiedersi se, questa Grande Bellezza, possa trovar pace tra le mura di un vuoto che aleggia nei silenzi del borgo, nei sussurri della Piana, nella rabbia dei precari.

 Nella sua Grecia, culla del mètron e della misura oltre che della ragione, i tiranni, gli oligarchi, i profittatori e gli usurai, i politici corrotti e i medici osannati avrebbero certamente trovato punizione al loro ego. Eppure in questa terra, un tempo dominata da quei figli dimenticati che erano i giganti a un occhio solo, c’è disperazione. E i giganti sono divenuti uomini piccoli, lontani dal popolo e vicini al potere tanto da dissolverli come cenere di pire ardenti. “Ma di chi è la colpa?” Sembra chiedersi Ulisse tra le grigie barbe e le rughe parlanti. “Chi può farvi scordare il terrore dei Ciclopi??” Poi dal Palazzo dell’Aquila si leva un sospiro, tra le carte e il fumo, le sentenze e gli avvisi di garanzia… “di nessuno è la colpa, Ulisse. Tornatene a casa tua se conservi metà della tua passata sapienza. Questo è il nostro tempo!”

di Santi Cautela 
InformAzione Milazzo del 12.04.14)