venerdì 25 aprile 2014

La storia di Giuseppina Ghersi,vittima innocente delle barbarie partigiane.

L’infanzia è il periodo migliore della nostra vita. Siamo spensierati, felici, circondati da tutti i nostri affetti. Viviamo la vita da cuccioli che, ancora al caldo del focolare domestico, scalpitano per uscire fuori e assaporare la vita. Voglio raccontare questa storia – vera, ma taciuta e contestata – di un’infanzia rubata, e voglio farlo senza scadere in disgustose diatribe o accuse politiche. Cercherò anzi di evitarle, per quanto posso. Ci tengo solo a dire che questa storia che spezza il cuore è conservata nei cuori dei parenti di chi l’ha vissuta sulla propria pelle, ed è un po’ meno conservata nei libri di storia, dove si lascia abbondantemente spazio ad altri fatti.


Siamo nel 1945, Giuseppina Ghersi era una studentessa di 13 anni dell'istituto magistrale “Maria Giuseppa Rossello” del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli. La piccola Giuseppina, durante un compito in classe, svolge un tema sulla figura di Benito Mussolini, e il suo elaborato piace talmente tanto che la maestra lo invia al Capo del governo, il quale, attraverso la sua Segreteria Particolare, invia i complimenti all’autrice del tema. Quel compito in classe, scritto con la diligenza e lo zelo di una qualunque bambina di 13 anni vispa, allegra e incline allo studio – costerà a Giuseppina la vita.


Il 25 aprile, alle 17:00, i partigiani garibaldini, appena entrati a Savona, bussano alla porta dei Ghersi chiedendo del «materiale di medicazione» che la famiglia non esita a fornire volentieri. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, vengono fermati da due partigiani armati e condotti al campo di concentramento di Legino, nella zona dell’odierno complesso delle scuole medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello, perché in quel momento è ospite di alcuni amici di famiglia. I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza alcuna accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani, i quali rispondono che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. I genitori, persuasi dalle rassicurazioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola. 

L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al campo di concentramento dove comincia la tragedia. È il pomeriggio del 27 aprile 1945: madre e figlia vengono stuprate sotto gli occhi del padre che, bloccato da cinque uomini, viene percosso col calcio di un fucile alla testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi. Non contenti, i partigiani rasano a zero Giuseppina, le imbrattano il viso con la vernice rossa e dopo due giorni di altre torture e angherie, il 30 aprile 1945, pongono finalmente fine al suo triste calvario, con un colpo di pistola alla nuca, gettando il cadavere davanti alle mura del cimitero di Zinola.


Ma  un’altra violenza, quella dell’oblio, continua a ferire Giuseppina e la sua famiglia. Per decenni non si è parlato di questa tragedia, e la risposta ai tentativi di far luce sulla vicenda è stata che la bambina fosse una collaborazionista del morente regime fascista. C’è poco o nulla da aggiungere a questa straziante storia, anche perché il cuore è cupo di dolore e rabbia. Un fiore giovane reciso con odio cieco, rozzo, bestiale. Una storia affondata nel dimenticatoio, troppo riconducibile a certi argomenti che rappresentano un tabù e di cui non se ne può e non se ne deve parlare. Il vizio della memoria – e anche il rischio che la memoria corre - è quello di diventare stantia, ripetitiva, farraginosa, come un rituale stanco e svuotato di significato. Con la vicenda di Giuseppina questo pericolo non si corre, perché non ne parla nessuno. È un grido sordo che cade nel vuoto perché non c’è nessuno a fare da eco a questa storia, è una storia scomoda, è una storia che non va raccontata, una storia che insudicia di sangue innocente chi ci ha portato la Liberazione. È una storia che reclama ancora giustizia. Ed è difficile parlarne con lucidità e obiettività, perché è una storia che fa davvero male.

di Francesco Onorato (ilfuturista.it)