martedì 3 giugno 2014

La capitale dei ribelli ora è terra di Assad

Un grumo grigiastro di cemento schiacciato. Poi un altro e un altro ancora. Fino in fondo alla via. Fino al cuore dell'apocalisse. Tra una schiacciata di cemento e l'altra ritagli di mura ricamati da razzi e schegge di mortaio, fossili di palazzi trasformati in angoscianti colabrodo.
Un raccapricciante panorama di distruzione dove nessuno punterebbe sulla sopravvivenza di un essere umano. Eppure qui si è combattuto per tre anni. Qui un esercito di quasi duemila ribelli circondati dai familiari e da tanti ostaggi umani ritrovatisi prigionieri della battaglia ha resistito fino ai primi di maggio. Poi le trattative, gli accordi con il governo per la fine dei combattimenti, l'evacuazione concordata dei combattenti più irriducibili e l'internamento di altri in un centro di rieducazione dove alcuni ex miliziani jihadisti sono pronti a scendere a patti con il regime.
Così ai primi di maggio si è conclusa la battaglia di Homs. Tre anni fa quello scontro accesosi nel cuore di uno dei più importanti centri commerciali della Siria sembrava il primo passo verso l'inevitabile caduta del regime di Bashar Assad. Invece è successo tutto l'opposto. A tre anni di distanza Homs, la culla dei ribelli ha messo alla porta i propri figli, ha fatto spazio ai giganteschi manifesti di Bashar Assad che tappezzano l'entrata della città vecchia e dominano queste rovine. Sono i manifesti elettorali freschi di stampa, quelli da cui il presidente lancia i suoi sawa, ovvero gli «insieme» motto di questa campagna elettorale. Sawa buoni per ogni slogan, ma che qui a Homs diventano inevitabilmente «insieme per ricostruire», «insieme per combattere i nemici». Diventano, insomma, l'inno alla vittoria di un presidente destinato a restare al proprio posto e governare per altri sette anni. In attesa del voto di domani, anche in quest'inferno qualcosa rincomincia a risvegliarsi. Per scoprirlo basta infilarsi tra gli ammassi di ruderi, seguire il richiamo di un canto e di una preghiera. All'improvviso dopo tanta, infinita distruzione, un arco, una croce, l'entrata annerita di una chiesa. Il fuoco ha divorato la palazzina della portineria, ha mandato in cenere la biblioteca, dissolto il tetto. Dentro, tra le mura di pietra, tutto sembra intatto. Fasci di luce attraversano i crateri di una volta ferita dalle bombe, illuminano le donne e gli uomini cristiani inginocchiati nella navata. Sull'altare il barbone corvino di padre Zahri Khazal intona il Padre Nostro. I fedeli alzano le mani al cielo, se le passano sul volto, ringraziano il Signore. Sono appena ritornati e d'intatto hanno trovato solo la Chiesa della Santa Cintura della Madonna, la più conosciuta fra quelle siriaco-ortodosse dell'antica cittadella.
«Guarda cos'è rimasto della mia casa, guarda cosa mi hanno lasciato quagli assassini» urla fuori dalla chiesa Nadia Khattas. È tornata tre giorni fa e ha, per la prima volta in tre anni, rimesso piede in quel suo appartamento trasformato in dormitorio ribelle. Di quel che aveva lasciato sono rimasti un letto sfondato e un materasso pulcioso. Sui muri sforacchiati dai proiettili e dilaniati dalle granate ha appeso l'immaginetta di Gesù Cristo. Tutt'attorno i pacchi di coperte, gli scatoloni di pentole rientrati con lei. Chi difficilmente tornerà è suo figlio Marwan. Lui durante l'esodo di tre anni fa non seguì la madre, ma prese la via della Turchia. Una strada battuta, già allora dalle bande dei ribelli. Da allora mamma Nadia non l'ha né visto né sentito. L'unico suo ricordo è quella foto appesa accanto a quella del Signore. Una foto che la fa piangere e addolorare.
Fuori dall'appartamento di Nadia, nel piazzale della chiesa la messa e finita e anche padre Zehri Khazal non vede l'ora di raccontare. «Fino allo scorso anno ho continuato a entrare e uscire da questa cittadella. E quando mi hanno chiesto di non farmi più vedere ho continuato a lavorare per chiudere gli accordi di riconciliazione tra governo e ribelli. Siamo stati noi religiosi cristiani a mantenere vivo il dialogo nonostante la guerra. Ma non è bastato. Questa chiesa non è stata bruciata durante i combattimenti, ma è andata in fiamme mentre siglavamo l'intesa. L'ordine, ne sono convinto, è arrivato dall'estero. La maggior parte dei combattenti di Homs non erano jihadisti stranieri. Erano gente di qua, gente con cui si poteva discutere. Quando abbiamo raggiunto l'intesa finale qualcuno ha voluto farci capire che gli accordi tra siriani qui valgono zero.
di Gian Micalessin (ilgiornale.it)