venerdì 13 dicembre 2013

Alain de Benoist: 70 anni di pensiero ribelle

«Sono nato lo stesso giorno dell’anno di Solzenicyn, il che fa di me un sagittario (ascendente cancro). Sono nato a Saint-Symphorien, piccolo agglomerato nella periferia di Tour, in una clinica nella quale apprenderò in seguito essere morto Charles Maurras dieci anni dopo». Intrecci, incastri, genealogie: questa è la presentazione di sé fatta da qualcuno che non ha mai cessato di chiedersi da dove viene. Una ricerca inesausta che oggi celebrerà i suoi primi 70 anni, senza accennare a placarsi. La destra è morta, la sinistra e morta e anche Alain de Benoist comincia a invecchiare, invero molto bene, e con lui più di una generazione di lettori, di militanti e di lettori militanti.
 Di questi 70 anni, almeno una cinquantina de Benoist li ha passati a scrivere. E alla fine, paganeggiando qui e niccianeggiando là, sono passati una sessantina di libri, una mole sterminata di articoli, traduzioni in inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, romeno, ungherese, russo, greco, croato, olandese, iraniano. E, soprattutto, italiano. Non senza una punta di veleno, Jean Thiriart parlerà di «incontinenza del calamaio». Il belga – «l’onesto occhialaio di Bruxelles», sibilava a sua volta un indispettito Adriano Romualdi – era un leninista di destra. Ovvio che guardasse in cagnesco i colleghi gramsciani. Sempre di destra, si intende, in entrambi i casi trattandosi comunque di etichetta più subita che voluta, quando non apertamente schifata.
 Gramscismo, sì. Un po’ per far casino e un po’ credendoci davvero, a un certo punto, verso la fine degli anni ’60, un gruppo di nazionalisti francesi troppo giovani per aver perso la guerra d’Algeria decise di rifarsi al comunista sardo per vincere la battaglia culturale. Conquistare la società politica dopo aver colonizzato la società civile, quando ancora quest’ultima era un concetto hegeliano e non scalfariano. Fratello maggiore dell’operazione era Dominique Venner, che la guerra d’Algeria l’aveva persa per davvero e poi, in carcere da militante dell’Oas, aveva scritto un libello folgorante per spiegare ai suoi camerati più giovani di mettersi a studiare.
 Da lì inizierà un percorso accidentato da guastatore dell’industria culturale europea, prima in lavoro di squadra e poi da battitore libero, con graduale abbandono delle ambizioni gramsciane. Poiché autentico, tuttavia, l’itinerario debenoistiano è fatto di stratificazioni. Non c’è alcuna Fiuggi ideologica, nessun predellino filosofico. C’è lavoro, tanto. L’esito non è necessariamente felice, ma in compenso non ha mai l’impronta del falsario. De Benoist ha scritto di tutto ma non è mai stato un tuttologo. Ha voluto essere il Diderot della destra, creando un’Enciclopedia in cui potessero trovare posto Nietzsche, Spengler, Lorenz, Eysenk, Dumezil, Carrel, Sorel. Un lavoro immane di cui il ponderoso Visto da destra resta a testimonianza. Poi il senso dell’Enciclopedia è venuto meno, mettere la cultura in un circolo (en-kyklos) sia pur virtuoso non ha funzionato più. Meglio aprire i circoli e i recinti. Pierre-André Taguieff ha parlato non a torto di dedroitisation. Francesco Germinario è stato più impreciso ma più lirico inventando semplicemente una “destra degli dei”.
 Oggi de Benoist è un signore che ha in casa centinaia di migliaia di libri, che non ha il cellulare e non indossa jeans. L’età lo ha reso meno arrembante e in qualche caso meno brillante ma gli ha donato quella che i francesi chiamano “la tenuta”. La chiarezza del pensiero, degli intenti, dell’etica. Una timidezza di fondo rivendicata con orgoglio, l’adesione a un solo vero partito, quello che Pierre Pascal chiamava “il Partito della stella polare”.
 Nella sua autobiografia intellettuale, Mémoire vive, ha raccontato di essere stato prelevato da una trentina di antifascisti, nel 1993, in Germania, e pestato di santa ragione poco prima di parlare a una conferenza all’università. Portato in caserma dalla polizia, de Benoist rimarrà fino alle cinque del mattino a negare di riconoscere i suoi aggressori, anche di fronte a immagini di individui in effetti somiglianti a quelli poco prima incontrati. «Ne ho in effetti riconosciuti diversi, ma non ho detto nulla, ovviamente. Io non collaboro con la polizia».
 di Adriano Scianca (articolo uscito sul Foglio di martedì 10 dicembre 2013)

martedì 10 dicembre 2013

In piazza scende l’Italia profonda: “Oggi siamo tutti Forconi”


I Forconi hanno invaso le piazze d’Italia. Torino, Genova, Treviso, Palermo, Catania, Napoli, Ferrara, Benevento, Roma, Milano, Bari, Arezzo ma anche piccoli centri e snodi autostradali: da Sud (dov’è nata nel 2012) al Nord la protesta generalizzata contro il governo, le tasse e il carovita è letteralmente esplosa. Tricolori, cartelli in mano e megafono: così l’Italia profonda è scesa in piazza in un inedito schema che è “uscito dagli schemi” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.
Pochi i (temuti e vietati) blocchi stradali, molti rallentamenti nelle città e, da parte dei manifestanti, idee chiare su quali siano le istituzioni su cui riversare la protesta: le sedi di Equitalia su tutte. Nonostante l’allarmismo, però, le manifestazioni si sono svolte in maniera pacifica. Solo a Torino si sono registrati scontri tra polizia e manifestanti davanti il palazzo della Regione mentre a Genova sono stati occupati i binari della stazione. In generale, però, la situazione è rimasta sotto controllo proprio come gli organizzatori avevano promesso. Una protesta – questa del nove dicembre – annunciata più sui siti indipendenti e i sui social che sui grandi media che hanno minimizzato in questi giorni la portata di un evento che si è alimentato con il passaparola. Il risultato è stato sorprendente in termini di partecipazione e interessante in ragione dell’eterogeneità delle categorie e delle peculiarità sociali scese in piazza.
“Forconi” oggi sono stati praticamente tutti: dai piccoli imprenditori ai disoccupati, dai commercianti agli studenti, dagli allevatori agli autotrasportatori. Il collante che ha tenuto insieme questa protesta interclassista è – come si legge in tanti striscioni – la richiesta di una minore oppressione fiscale, di una difesa del made in Italy a tutti i livelli, ma soprattutto la volontà di recuperare la sovranità politica ed economica dell’Italia. La scelta del tricolore come unico simbolo ammesso nei cortei sta a dimostrare proprio la rabbia popolare contro il «far west della globalizzazione» e «contro l’Europa costruita a Bruxelles».
Insomma, al grido di «riprendiamoci l’Italia» e «non suicidarti, ribellati» quello che è andato in scena oggi si può chiamare un movimento impersonale e sinceramente nazionalpopolare. Un movimento non sindacalizzato, non politicizzato e senza “sponsor” cercati nelle proteste liberal. Forse per questo rispetto ai comitati spontanei da parte di una certa stampa e dei politici affezionati alle larghe intese è stato alimentato in questi giorni l’allarme legato a infiltrazioni politiche: perché disabituati ad accettare che possa emergere un malcontento trasversale e slegato alle normali camere di compensazione sociale come i sindacati.
Da questo punto di vista esemplificativo lo sfogo di Mariano Ferro, leader dei Forconi siciliani: «Siamo in uno stato di polizia, non è possibile scioperare come possono fare invece i sindacati». Ferro ha detto ciò replicando al ministro Maurizio Lupi: «Dice che la nostra protesta non è legittima, ma lui, dopo la sentenza della Consulta sul porcellum, si è chiesto se è legittimato?». Proprio il governo, allora, sembra essere il prossimo obiettivo del movimento: l’appuntamento della protesta ad oltranza è fissato per mercoledì quando si voterà la fiducia a Letta: «Se sarà votata la fiducia al governo – promette Danilo Calvani, altro rappresentante dei Forconi – ed i politici non andranno via, tutti convergeranno su Roma per un’invasione pacifica».
di Antonio Rapisarda (barbadillo.it)

sabato 7 dicembre 2013

Basta, è ora dell'alternativa al sistema


La sentenza della Corte costituzionale non è discutibile. È solo tardiva, perché ci hanno fatto votare così già tre volte

No, la sentenza della Corte costituzionale non è discutibile, come dice Renzi. È solo tardiva, perché ci hanno fatto votare così già tre volte. Mi annoia dirlo, ma da anni scrivevo che i Custodi della Costituzione, il Presidente della Repubblica e la Corte, non avrebbero dovuto avallare quella legge elettorale che toglie ai cittadini il diritto sancito dalla Costituzione di scegliersi i propri rappresentanti, per non dire del resto. La Corte ha atteso troppo e nel momento di peggior marasma delegittima governo, Parlamento e capo dello Stato. 

Mettetevi nei panni del cittadino: trova abusive le principali istituzioni della Repubblica, vede un conflitto senza precedenti tra potere giudiziario e gli altri due poteri, assiste da mesi inerme allo spettacolo di un Parlamento incapace di trovare la sintesi per una riforma elettorale. E intanto inaspriscono tasse e controlli, riceve continue minacce dall'agenzia delle entrate, Equitalia, più i guai della crisi. Se non passa alla lotta armata o alla fuga è solo per non inguaiarsi di più. 

A questo punto il clima è maturo per rilanciare uno slogan che risale alla mia adolescenza: alternativa al sistema. Sì, è necessaria. Perché altrimenti la conclusione inevitabile è la dittatura. Il colpo di Stato dei militari non s'usa più, la democrazia si replica per mancanza di dittatore (Longanesi), ma all'orizzonte c'è la troika e la fine della sovranità. Meglio l'alternativa al sistema: Repubblica presidenziale, svolta decisionista, rivoluzione e poi riforme radicali...

di Marcello Veneziani

lunedì 2 dicembre 2013

No Muos. Centinaia in piazza con il fronte sovranista: “Siamo la Rete dei siciliani”


Sabato 30 novembre il popolo siciliano libero ha manifestato a Palermo contro l'ennesimo sopruso messo in atto dalla politica estera americana,denominato Muos,coadiuvata dal governo nazionale e regionale.Un corteo libero e apartitico che ha visto sfilare tra le vie del centro tanti giovani e non ,accomunati da un'unica "bandiera": il bene della nostra Sicilia.Un corteo unitario e sentito che ha richiamato diverse realtà da tutto il territorio.Da questa giornata fredda e piovosa esce vittoriosa la Sicilia migliore,a discapito dei soliti noti antagonisti dei centri sociali che hanno tentato di strumentalizzare una battaglia che vede impegnato tutto il popolo siciliano.Nonostante i momenti di tensione,tra antagonisti rossi che volevano "a modo loro"impedire lo svolgimento della manifestazione ,e la polizia,il corteo si è svolto senza alcun problema.

(di Barbadillo.it)
In centinaia hanno sfidato il maltempo e l’allarme della protezione civile per dire il proprio “no” al Muos previsto a Niscemi. A Palermo è andata in scena ieri la “Rete No Muos”, il coordinamento sovranista che è nato per unire tutti i cittadini che si oppongono all’installazione militare statunitense non solo in ragione della tutela della salute ma anche in difesa della sovranità nazionale. Soddisfatto dello svolgimento del corteo indetto nel capoluogo siciliano il portavoce Stefano Di Domenico: «In centinaia abbiamo manifestato a Palermo sotto la pioggia. Un corteo pacifico e senza bandiere di partito come promesso. La nostra lotta continua, dunque».
“Liberi e sovrani”, si leggeva così nel grande striscione che ha aperto la manifestazione che ha visto la partecipazione non solo di siciliani ma anche di manifestanti provenienti da diverse regioni del Sud. Un corteo – apartitico nel quale sono state bandite tutte le bandiere di soggetti politici – che si pone oggettivamente come una novità nel panorama delle contestazioni popolari italiane. Proprio questo, l’invito a ragionare in termini trasversali rispetto al contrasto all’installazione militare Usa, è stato il motivo per cui è nata la “Rete”: «Da tempo la realtà No Muos – spiegano dal comitato – era stata monopolizzata come battaglia di una parte, oltretutto minoritaria: una scelta illogica, questa della sinistra radicale, rispetto alla quale abbiamo voluto proporre un modo diverso di affrontare un problema che riguarda tutti i siciliani».
muos2La scelta di manifestare sotto l’Assemblea Regionale siciliana, allora, si spiega proprio in quanto il “primo” a essere messo sotto accusa è proprio il presidente Crocetta: «Sul Muos ha avuto un atteggiamento ondivago e strumentale. Sulla questione ha delle responsabilità enormi». Ma per la Rete No Muos non finisce qui: «Palermo è solo una tappa di un percorso che individualmente portiamo avanti da anni – racconta Di Domenico -. Adesso la “Rete” organizzerà in tutte le città siciliane incontri, monitoraggi, in previsione di altri eventi: perché la sovranità del nostro popolo è messa a rischio non solo dal Muos».
La giornata di ieri, però, è stata rovinata in parte dalla contromanifestazione (non autorizzata) animata dal “Movimento No Muos” che racchiude le sigle della sinistra antagonista. Alcune decine di esponenti dei centri sociali infatti si sono opposti fisicamente alla svolgimento della manifestazione. Le forze dell’Ordine sono intervenute e il bilancio è pesante: un arresto e tre feriti. Nelle parole di Di Domenico resta l’amaro: «Ora è il momento di isolare dal Movimento No Muos i centri sociali palermitani, responsabili degli incidenti e evidentemente al servizio degli americani».
Si spacca dunque, il fronte dei No Muos. Ma la condanna dal mondo dei social si indirizza tutta contro l’azione violenta degli aderenti al Movimento No Muos. Si legge tra i commenti: «Gli americani ora ringraziano». C’è chi poi si sofferma a riflettere: «Che dire? L’epilogo di questa manifestazione, alla fine, fa il gioco dei militari americani. L’unico modo per indebolire le ragioni di chi, legittimamente, protesta contro l’installazione in Sicilia delle antenne del mega-radar americano è quello di dividere l’intero fronte popolare».