giovedì 27 marzo 2014

SICILIA:Formazione, un pozzo senza fondo.

Nella formazione, ormai, gli scandali non finiscono mai. Che cosa dire d’altro dopo che Anna Rosa Corsello, dirigente generale della Formazione, ha svelato la sistematica sottrazione di ricchezza di cui, per anni, la Regione è stata vittima? Dopo i corsi fantasma, dopo il giro di false fatturazioni, dopo i rimborsi ottenuti senza fornire alcuna rendicontazione emerge lo scandalo del personale precario. Ci sono infatti settemila contratti che, se stabilizzati, farebbero definitivamente crollare tutto il sistema. Agli ottomila dipendenti regolari, infatti, se ne dovrebbero aggiungere circa altrettanti. Il risultato sarebbe l’esplosione dell’intero meccanismo.

A determinare la nuova crisi è il comportamento degli enti che, senza curarsi dei divieti dell’assessorato, hanno continuato a ingaggiare personale. Con la protezione di influenti politici visto che, come sta emergendo dai controlli, il picco del reclutamento temporaneo veniva raggiunto proprio in prossimità degli appuntamenti elettorali.
Tutto questo è scandaloso. Semplicemente scandaloso. Per anni, infatti, gli enti hanno stipulato contratti a tempo determinato promettendo ai beneficiari che, forse, prima o poi, ci sarebbe stata la stabilizzazione. Nel 2008, vista la proliferazione incontrollabile del fenomeno, l’assessorato impose lo stop in nome della trasparenza. L’ordine fu facilmente aggirato con l’adozione di forme atipiche come co.co.co., co.co.pro e via elencando. Tanto la Regione era distratta e pagava con il pilota automatico. 
Le ispezioni di questi ultimi mesi hanno fatto emergere lo scandalo. Un fenomeno talmente grave che alcuni enti hanno evitato di presentare il rendiconto (anche a costo di perdere parte dei finanziamenti) per non esporsi al rischio di controlli accurati. Perché il problema a questo punto diventa veramente delicato: che cosa fare dei precari ingaggiati in barba al divieto? E poi: come comportarsi con gli enti che, furbescamente, hanno continuato a reclutare personale ben sapendo che stavano commettendo un illecito? La Regione, come prima risposta, ha bloccato i nuovi pagamenti. Poi, eventualmente, dovrà trovare il sistema per farsi restituire i fondi che gli organizzatori dei corsi hanno ottenuto in maniera illegittima. E soprattutto: che fare con i settemila lavoratori flessibili che restano senza lavoro e, in via teorica, costretti anche a restituire le retribuzioni incassate senza diritto?
L’emergere di nuovi comportamenti illeciti impone con ogni urgenza l’obbligo di fermare il sistema della formazione. Bisogna sospendere tutto e bloccare i corsi. La Regione deve prima capire come stanno le cose e solo dopo si potrà pensare, eventualmente, a qualcosa di nuovo. L’urgenza non più rinviabile è quella di frenare questa macchina impazzita. E il personale? Lo abbiamo già detto e non ci stanchiamo di ripeterlo. Tutelare il reddito, nessuno perderà nulla. Poi si cercheranno forme adeguate di reimpiego. Non ci sarà nessuna macelleria sociale ma, per carità, fermiamo questo mostro che, come una divinità sanguinaria, divora uomini e cose. 
di Nino Sunseri (giornaledisicilia.it)

martedì 25 marzo 2014

«Crocetta? Si è rivelato il peggiore».

Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore che dalle pagine de Il Sole 24 Ore ha lanciato un pesante j'accuse nei confronti del presidente della Regione, chiedendo il commissariamento della Sicilia, affonda la lama. Non risparmia parole dure, critiche al governo ma anche ai siciliani.

PERCHÉ COMMISSARIARE LA REGIONE?
«Perché qualsiasi altra soluzione sarebbe nefasta. A parte il fatto che questi parlamentari non si dimetterebbero mai, la soluzione elettorale sarebbe inutile: chi arriverà dopo non sarà meglio perché la qualità del ceto politico è mediocre. Crocetta però è il peggiore, ed è il peggiore perché vanta il credito di essere di sinistra. Se i suoi predecessori avessero fatto lo stesso, sarebbero arrivati i marines».

QUAL È L'ERRORE PIÙ GRANDE CHE RIMPROVERA AL PRESIDENTE CROCETTA?
«Quello di non governare, continua a fare proclami ma non governa. Qui c'è da governare, da risolvere l'emergenza. Va bene che lui sia un eroe antimafia, ma intanto tutto precipita. La sua dannazione è stata la pubblicità, invece di governare continua a cercare taccuini e telecamere. Se altri si fossero comportati così, ci sarebbe stato un movimento d'opinione».

E PERCHÉ INVECE, SECONDO LEI, LA SICILIA STA ZITTA?
«Perché i siciliani lo vedono famoso, sembra loro che sia l'Isola dei Famosi. Colpa di una arretratezza culturale e del fatto che oggi Crocetta non ha un antagonista. Per questo ci vuole il commissariamento».

NON C'È IL RISCHIO DI UNA DERIVA ANTIDEMOCRATICA?
«E qual è la novità? A Roma da quando si preoccupano di essere legittimati? Abbiamo assistito a Monti, Letta, Renzi...»

QUALI SONO LE SOLUZIONI?
«Se ne deve andare lui e si deve togliere l’autonomia alla Sicilia, in cui la mafia naviga. Ammetto di avere subìto il fascino dell’autonomia, ma il mio autonomismo è finito quando mi sono accorto che la Sicilia non era l’Irlanda di Bobby Sands. Questo è uno stato di emergenza e la politologia lo prevede».

NON CREDE PERÒ CHE IN QUESTA SITUAZIONE CI SIA UNA RESPONSABILITÀ POLITICA DEL PD?
«Del Pd ma anche di tutti noi che ci chiamiamo siciliani. E non è necessaria la rivoluzione, basterebbe la manutenzione».

E LA RIVOLUZIONE DI CROCETTA?
«C’è una continuità fra Crocetta e Lombardo, una continuità di strutture e personaggi che mantiene. Quando arriverà un risultato di governo, c’addumamu na cannila o santu».

LEI DICE CHE CROCETTA SIA IL PEGGIORE MA I SUOI PREDECESSORI SONO STATI ENTRAMBI CONDANNATI PER MAFIA...
«Ho trovato disgustoso scaricare buttare le colpe su Cuffaro che sta pagando per tutti, non si butta la croce addosso ad un uomo che sta scontando una pena. Lui non sa risolvere i problemi e criminalizza, criminalizza i problemi e il dibattito. Io invece rivendico la mia libertà intellettuale».


di Stefania Giuffrè (giornaledisicilia.it)

venerdì 14 marzo 2014

Il “cuore antico” della tragedia ucraina

È certamente vero che la storia non si ripete mai né come tragedia né come farsa. È altrettanto vero, per riprendere Eraclito, che non è possibile bagnarsi due volte nell’acqua del fiume degli eventi trascorsi a meno di non volersi impegnare in una futile e sviante esercitazione analogica con la quale tentare d’interpretare il presente alla luce dell’esperienza di ciò che fu. Questa regola conosce tuttavia delle eccezioni. Anche la storia conosce delle “costanti”, delle “ripetizioni” e queste sono causate dalla memoria di un popolo e dalla posizione geopolitica di una Nazione che a volte condannano appunto Popoli e Nazioni a un tragico “eterno ritorno” al passato.
Le odierne vicende dell’Ucraina costituiscono un convincente case study di questa eretica legge storica che contraddice i dogmi dello storicismo assoluto. Con il trionfo della “seconda rivoluzione di Kiev” – nella quale sarebbe prudente astenersi per ora dal distinguere con facile manicheismo tra “buoni” e “cattivi” – l’Ucraina abbandona la sfera d’influenza della Federazione Russa e entra a pieno titolo in quella occidentale, domani nell’Ue, dopodomani molto probabilmente nella Nato.
A determinare questo spostamento di campo è stato certo un violento ritorno di fiamma del nazionalismo ucraino, un’antica, mai sopita e sicuramente giustificata russofobia e l’irresistibile attrazione verso il modello di vita politico, culturale, economico delle liberal-democrazie europee e statunitense.
Questi sentimenti, che riguardano però solo le regioni occidentali del Paese e non quelle orientali tuttora fortemente orientate verso Mosca in virtù di fortissimi e legittimi legami storici, economici, linguistici, non riescono a spiegare del tutto quanto accaduto. La “gloriosa notte” del 22-23 febbraio, che ha visto la deposizione e l’ignominiosa fuga del “satrapo” Viktor Yanukovič e il ritorno al potere della discussa “Giovanna d’Arco ucraina” Julija Tymošenko, è stata provocata infatti anche da forti pressioni provenienti dai gabinetti di Washington, Berlino, Varsavia.
La Polonia di Donald Tusk è stata il più strenuo difensore dell’opposizione ucraina e lo Stato che insieme alla Svezia e alle tre Repubbliche baltiche ha spinto di più per un accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Ue. Nel backstage della diplomazia internazionale meno appariscente ma certo più incisiva è stata l’azione di Stati Uniti e Germania.
Emilio GinL’amministrazione Obama si è fortemente spesa per favorire il pieno inserimento dell’Ucraina nel nuovo sistema egemonico politico- militare- economico statunitense che, inaugurando un clima di competizione con Mosca ormai definibile come «nuova Guerra fredda», mira a estendersi dall’Africa settentrionale, all’Egitto, al Medio Oriente, al Caucaso, all’Afghanistan, all’ex-Asia centrale sovietica, in aperta contrapposizione alla vocazione di Grande Potenza euroasiatica rivendicata dalla Russia di Putin. Da parte sua la Germania, in occasione della crisi ucraina, ha assunto in maniera unilaterale la leadership della politica estera dell’Unione europea, costituendo un’asse con Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia, condannando aspramente il presidente eletto Yanukoviĉ per aver rifiutato di stringere relazioni con l’Unione europea e per aver represso la protesta di quei settori della società ucraina che si opponevano a quella decisione.
Sostenendo con vigore la “rivoluzione ucraina”, la Germania della Merkel ha collocato l’ultima tessera del progetto di una grande area di penetrazione economica e politica estesa dall’Oder al Baltico al Danubio, dalla foce del Don al Mar Nero. Di questo nuovo «Grande gioco», l’Ucraina è forse la pedina più considerevole non solo per la ricchezza delle sue risorse minerarie (carbone, minerali di ferro, petrolio, gas naturale) e agricole (soprattutto cereali) e per il possesso di circa 40 mila chilometri di gasdotti che la collegano all’area del Mar Caspio (Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan) ma anche per la cruciale rilevanza della sua posizione geopolitica da cui dipende strettamente la sicurezza nazionale russa.
L’Ucraina è fondamentale per la difesa della Russia. Mosca si trova a soli circa 480 chilometri dal territorio ucraino e i due Paesi condividono un lunghissimo confine, pianeggiante, facilmente percorribile e quindi fatalmente esposto ai rischi di un’aggressione. Se una Potenza ostile, poi, dovesse impadronirsi del corridoio russo tra Ucraina e Kazakistan, al cui centro si colloca la città di Volgograd (che fino al 1961 si chiamò Stalingrado) la Russia sarebbe tagliata fuori dal Caucaso e la sua frontiera meridionale non sarebbe più difendibile. Inoltre, l’Ucraina è padrona di due porti sul Mar Nero, Odessa e Sebastopoli, che sono ancora più importanti per Mosca di quello di Novorossiysk: principale ancoraggio russo su quella distesa acquatica. Privare il regime di Putin dell’utilizzazione commerciale e militare di queste basi militari e commerciali equivarrebbe a minare gravemente l’influenza della Russia nel Mar Nero e tagliarla fuori dall’accesso al Mediterraneo.
Tutto questo spiega perché, nel corso della Grande Guerra, con il trattato di pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), gli Imperi Centrali pretesero e ottennero il controllo dell’intero territorio ucraino che intanto si era organizzato in Stato autonomo nel marzo del 1917. Rovesciato da un colpo di Stato diretto da Berlino, il governo nazionale ucraino fu sostituito nell’aprile 1918 da uno Stato fantoccio al servizio del Reich guglielmino di cui divenne alleato. Come hanno dimostrato i lavori di Wolfram Dornik con quell’acquisto Austria-Ungheria e Germania non mirarono soltanto a impossessarsi del «granaio dell’Impero zarista», delle importanti industrie pesanti ucraine e di uno sbocco sul Mar Nero ma anche a soprattutto «a tenere un coltello perennemente puntato al cuore della Russia».
Recuperata la sua indipendenza di fatto nel novembre 1918, il fragile Stato ucraino, privo di consenso interno e di legittimazione internazionale, attraversato da fortissimi conflitti intestini di carattere etnico e politico, attanagliato da una grave crisi economica causata dalla disintegrazione dei suoi rapporti con l’apparato produttivo e commerciale russo, si dimostrò incapace di resistere alla guerra di riconquista sovietica. Il 18 marzo 1921 il trattato di Riga, sottoscritto da Varsavia e da Mosca sancì la spartizione dell’Ucraina. La Polonia incorporò la Galizia orientale e la Volinia occidentale già province dell’Impero asburgico e di quello zarista, altre minori regioni furono annesse dalla Cecoslovacchia e dalla Romania mentre il restante territorio ucraino divenne nel 1922 parte dell’Urss. Da questo momento in poi il popolo ucraino condivise la storia dell’Impero comunista e ne subì gli orrori, divenendo vittima della terribile carestia provocata dal regime sovietico tra 1932 e 1933, studiata nell’ottica della diplomazia italiana da Andrea Graziosi. Carestia che provocò milioni di vittime e che passò alla storia con il nome di Holodomor («sterminio per fame»).
Nel 1941, il Terzo Reich conquistò l’Ucraina, impadronendosi delle sue risorse agricole, facendone la base strategica dell’offensiva su Stalingrado e cercando di utilizzarne il territorio per interrompere le linee di approvvigionamento tra la Russia e i giacimenti petroliferi del Caucaso. Come ho dimostrato, insieme a Emilio Gin, nel nostro recente volume (Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945), dal 1942, quando, grazie ai buoni uffici di Italia e Giappone, iniziarono i contatti informali e segreti tra Mosca e Berlino per arrivare a una pace separata, Hitler pose come condizione preliminare all’apertura delle trattative la cessione dell’Ucraina da parte dell’Urss e in alternativa la sua trasformazione in un protettorato congiunto russo-tedesco.
Durante il secondo conflitto mondiale il popolo ucraino non rimase testimone passivo degli avvenimenti che lo coinvolsero drammaticamente. L’Esercito insurrezionale ucraino (Oun-Upa), espressione del movimento nazionalista, antisemita, xenofobo, organizzato da Stepan Bandera, condusse una duplice accanita guerriglia contro la Wehrmacht e l’Armata Rossa, macchiandosi allo stesso tempo di crimini contro l’umanità di cui furono vittime ebrei e polacchi. Nella tarda primavera del 1944, l’Oun-Upa si schierò infine a fianco dell’esercito nazista per contrastare l’avanzata delle forze sovietiche. Molto dell’ideologia del movimento di Bandera rivive, oggi, nei gruppi ucraini d’ispirazione nazional-socialista, come l’Unione Pan-Ucraina Svoboda, che hanno costituito il braccio armato delle manifestazioni di piazza Maidan alle quali si deve la defenestrazione di Yanukovich.
Privata della sua egemonia sull’Ucraina, la Federazione Russa alza la voce, digrigna i denti, mostra i muscoli e passa dalle parole ai fatti. Mosca ha posto in stato d’allerta il suo dispositivo militare sulla frontiera ucraina e ha inviato reparti scelti e colonne di blindati per rafforzare il contingente stanziato nella base di Sebastopoli. Il grande porto sul Mar Nero è divenuto il centro propulsivo della resistenza contro il nuovo corso di Kiev che sta agitando la minaccia di una secessione della Crimea se non addirittura il ricongiungimento di quella regione con la «Grande Madre Russia». Forse, ci auguriamo, non vedremo mai un conflitto russo-ucraino per il controllo della Crimea simile alla «guerra lampo» russo-georgiana del 2008 per il predominio sull’Ossezia del Sud e l’Abcasia. Più consistente è invece l’ipotesi che la “primavera ucraina” del 2014 si trasformi in una guerra civile, esattamente come è accaduto alle “primavere arabe” del 2010-2011.
Si tratterebbe di un conflitto intestino, sicuramente aggravato da antichi odi etnici, che potrebbe portare a un coinvolgimento diretto o indiretto di altri Stati restati invischiati in quello che sta per divenire un nuovo “conflitto balcanico” destinato a cambiare il volto della Russia e dell’Europa. La crisi ucraina ancora in pieno svolgimento contiene comunque, già da ora, un importante insegnamento troppo spesso ignorato. Se il buon andamento delle relazioni internazionali passa anche per il rispetto dell’onore e della dignità nazionale dei singoli Stati (come ha ricordato lo studioso russo-statunitense Andrei Tsygankov in un volume del 2012 dedicato proprio ai secolari rapporti tra Russia e Occidente), occorre dire che Washington e Berlino hanno dimostrato in questi ultimi mesi di non aver appreso questa lezione della storia.

da destra.it

lunedì 10 marzo 2014

Europa nazione, un mito infranto


Ma che bella quest'Europa che balbetta impacciata sul la crisi ucraina e che non riesce a prendere posizione neppure sull'assurda vicend a dei nostri due marò in India! Inconsistente e ininfluente sullo scacchiere internazional e, ma coll'indice sempre alzato a redarguire noi reprobi: ecco come appare l' Unione europea. Ed ecco perchè nell'approssimarsi di una delle tornate elettor ali più incerte e combattute, un sentimento identitario e nazionalista spinge i vessil li dei partiti e dei movimenti di destra. Che sono saldamente in campo ovu nque. 

E ovunque recitano un ruolo da protagonisti. Ovunque, tranne ch e in Italia. Alla guerra contro un'eurocrazia presuntuosa e pure un pò ottusa il nostro barcollante Stivale partecipa infatti solo con l'inizia tiva territoriale leghista e con l'intuito istrionico di Beppe Grillo. Ma non con una f ormazione politica di destra nazionale chiaramente schierata. Perchè? Semplicement e perchè la destra non c'è più. Si è liquefatta. Dissolta. Il che, elaborato il lutto, ci consente di dire una ver ità. Dire cioè che la destra italiana si è bevuta per tanto tempo una fantastica bugia: l'idea di Europa nazione. Un cocktail improvvisato dal dosaggio incerto. Nessuno ha mai avuto il coraggio di ammetterlo. Almeno sino ad oggi. Il tabù ha resistito. Così come sempre resistono i tabù o i dogmi: evitando domande. Un Tabù costruito e teorizzato nell'Europa di ieri, q uella col muro di Berlino, col mondo diviso in due blocchi, con internet, smartphone e rivoluzione dei social network ancor lì da venire. Una balla a cui in tanti abbiamo creduto. Per anni il vessillo dell'Europa nazione, ha sedotto f ior di gioventù. 

Ed ha pure procurato una solida base programmatico-ideale a dei cinici mestieranti della politica in cerca di un qualsiasi appiglio culturale per captare consenso. Almeno, per l'appunto, sino alla recente durissima cri si. Che coincide (guarda un pò gli scherzi del destino) con l'evaporare della destr a dalla scena politica italiana. Schiacciata dalla superficialità, dalla supponenza e dal l'incapacità del suo gruppo dirigente, la destra ha infatti collassato propr io mentre una delle sue bandiere ideali, l'Europa Nazione, mostrava chiarament e tutti i suoi limiti. Mentre naufragava la grande fuffa della " Comunità di destini ". Quando l'Europa è stata Nazione? Quali sono i tratti unificanti dei popoli del vecchio continente? Ci hanno pure provato a trovare una risposta. Addir ittura in pompa magna. Con la "Convenzione per l'Europa" che per quasi un pai o di anni si insediò a Bruxelles sotto la guida di Giscard d'Estaing. Alla fine però convennero che neppure i campanili, che pur ci sono da Lisbona agli Urali, avrebbero potuto dare un tratto unificant e. L'unica possibilità di unificare queste terre, per millenni, si era avuta gr azie alla persuasione della spada. Cioè con la conquista. Ma, per carità, guai a d irlo! Culture diverse, stili di vita diversi, mentalità diverse. Proprio nell'era dell'esaltazione delle diversità a noi toccava essere u guali per trattato. 

Il fallimento (silenzioso) della Convenzione avrebbe dovuto far riflettere. Ma siccome già il vento della retorica gonfiava le vele all' Euro (imposto con una tassa e senza chiederci il parere) si preferì tacere. Tu tti tacquero. E tacque in special modo la destra italiana. Per calcolo. Per non dispiacere quell'allegra combriccola cui s'era prostrata in attesa di legittimazi one. E perchè non poteva mettere in discussione uno dei suoi dogmi fondanti. Ma, se l'abito invisibile agli stupidi -spiega Andersen- è una truffa, prima o poi l'innocenza di un bambino la svelerà. Così questa crisi c he sta spolpando famiglie e nazioni intere ha svelato ai più che, se n on di una truffa, questa logora retorica europeista è figlia almeno di una gi gantesca utopia. Che una vera destra nazionale e popolare avrebbe dovuto denun ciare. Se non fosse stata compressa nei suoi dogmi e sedotta dagli eurocra ti nostrani. 

Perchè per le elitè responsabili delle sciagurate scel te di politica economica, per i detentori delle grandi ricchezze, per i politici al t raino dei veri forti poteri, l'Europa è sempre e comunque una Dea. L'Europa che no n si discute e che si ama. L'Europa che è il futuro e che senza di Lei il di luvio. L'Europa che si può forse correggere, ma mai e poi mai mettere in dubbio . E allora vai con l'offensiva del " c omune destino ", vai con " l'irreversibilità della moneta ", vai con quell'imperativo che suona come una minaccia: " non meno , ma più Europa !". Paraponziponzipò. Il circo mediatico è schierato a tutto campo. Suona la grancassa . La compagnia di giro si esibisce nei talk show sempre nella medesima recita a soggetto. E chi è che dice no? Chi si incarica di interpretare il dissenso? Solo il Grillo nazionale, che ha la forza e la follia di urlare il dubbio e di proproporre il referendum consultivo sulla moneta-cappio. 

E anche il giovane Salvini che prova con questa sfida a riqualificare la Lega. Quanto a coloro che a destra cercano di rimettere insie me i cocci di una identita che appare irrimediabilmente perduta si può soltanto notare quanto sia flebile la loro vocina. Il loro distinguo misurato e impacciato, la loro argomentazione contorta. Per paura di essere silenziati. Perciò fanno precedere l'accenno di critica da una devastante premessa: " N oi siamo europeisti c onvinti! ". Che li consegnerà dritti dritti all'irrilevanza elettorale e politica.

da ilvelino.it