venerdì 31 maggio 2013

Fiume, avanguardia della Rivoluzione!


Sono stato più volte ad Ancona – mi era facile trascorrendo diversi mesi sulla costa romagnola – e sempre, percorrendo la storica via Pizzecolli, mi sono recato fino alla scalinata su cui si erge, nell’omonima piazza, la chiesa di San Francesco delle Scale. Con la sua facciata e il portale in stile gotico di pietra bianca dell’Istria, opera dell’architetto Orsini di Sebenico nella metà del XV secolo. Sotto il dominio napoleonico fu adattata a scopi militari, successivamente a Pinacoteca. Nel 1944 fu colpita durante uno dei bombardamenti alleati subendo notevoli danni. Solo nei primi anni ’50 fu nuovamente consacrata alle sue originarie funzioni religiose. Non, però, di storia dell’arte e di monumenti religiosi è il mio intento. Ho sempre avuto a noia visitare i musei soffermarmi estasiato davanti ad opere incorniciate e appese alle pareti volgermi con mal celati gridolini di libidine estetica e, ancora, girovagare per centri storici ammirare soppesare uscire con luoghi comuni accompagnati da punti esclamativi e tono della voce declamatorio e gesti studiati della mano…

Esuli, i fiumani, vi hanno eretto un altare con la dura pietra del Carso – la medesima che si mostra a monito sul marciapiede, zona Laurentina, Roma, dove venne edificato il quartiere per i giuliani gli istriani i dalmati in fuga e che porta il loro nome – e vi hanno esposto un’anfora con l’acqua della loro città e un cofanetto di terra del cimitero e quel tricolore che, ultimo, sventolò sull’Olocausta. Una testimonianza che è eredità di spirito e di sangue, proprio in quella città che li aveva accolti, al loro arrivo in porto, lanciando pietre ed invettive su indicazione del partito comunista. Aveva declamato Gabriele D’Annunzio: ‘Si spiritus pro nobis, qui contra nos?’. Nell’età del nichilismo Nietzsche ci ha educato a pensare alla morte di Dio e allo Spirito ritiratosi. Lo sappiamo bene noi, folli e disperati, costretti a danzare ormai al ritmo ossessivo d’una nota sola. Eppure vogliamo restare fedeli all’onda eterna della poesia che andò ad infrangersi sulle rive del Carnaro. Ecco perché, sì questa è la ragione, fin da giovane inquieto ed irriverente ho avvertito una sorta di dovere a visitare quella chiesa. Non da turista non da credente non da sopravvissuto…

Con lodevole iniziativa Maurizio Murelli ha pubblicato (‘In 500 esemplari nel 150esimo anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio e a 75 anni dalla morte dello stesso’ come si legge in nota), per i tipi dell’Aga Editrice, tre volumi che sono la ristampa di due opere di Mario Carli, Con D’Annunzio a Fiume e Trillirì, e di Tom Antongini Gli allegri filibustieri di D’Annunzio. Con caratteri che rimandano alla stagione delle dispense universitarie quando poco si studiava e ci si bastonava sulle scalinate delle facoltà. Allegramente e con atteggiamenti pirateschi, mi verrebbe da dire, in omaggio alla scelta di riannodare i fili della memoria sull’impresa fiumana iniziatasi alle ore 13,30 dell’undici settembre 1919. In divisa da ufficiale dei lanceri di Novara il Vate, pur febbricitante, lascia Venezia e raggiunge la punta di San Giuliano a Mestre, ove l’attende il suo autista con l’automobile rossa e scoperta.

Ho i tre libri in pila a lato del computer. Del saggio di Mario Carli sono alle ultime pagine. Mario Carli, ufficiale degli arditi nella Grande Guerra, disertore per raggiungere D’Annunzio a Fiume, di cui diverrà fra i più intimi collaboratori. Viene inviato a Milano, per volontà del poeta, a costituire la redazione de La Testadi Ferro, il giornale della causa fiumana e forse strumento ulteriore per predisporre un piano di ampliamento della rivoluzione su tutto il territorio nazionale. Arrestato con degli anarchici sotto l’accusa di progettare atti di sabotaggio mentre si sta consumando la tragedia di Fiume, il Natale di sangue del 1920. Tra Lenin e l‘emergere del fascismo, intransigente (forse sotto la spinta di Sorel) e sempre là dove vi sono avanguardie le più radicali che chiedono di andare oltre. Il romanzo Trillirì è un regalo di Rodolfo per il mio prossimo compleanno. Del terzo so soltanto che narra, in presa diretta e partecipe, la vicenda degli Uscocchi che, riprendendo la tradizione della pirateria in Adriatico al tempo della Serenissima, rifornivano la città colpita dall’embargo.

Poesia rivoluzione azioni esemplari ed eclatanti la Carta del Carnaro le donne sesso nudismo yoga e cocaina la musica Alla festa della rivoluzione, come si intitola il bel libro di Claudia Salaris. Tutto questo, certamente, e di una modernità gioiosa libertaria irriverente le immagini che ci giungono e ci fanno amare quella esperienza. Fiume fu, però, anche laboratorio per una concezione ardita e anticipatrice delle dottrine sul concetto di proprietà sulla dignità del lavoro sulla giustizia sociale che, percorrendo il lungo e a volte tortuoso cammino del fascismo, arriveranno ai 18 Punti di Verona. E anche in ciò sta l’amore che sentiamo per quella città, italianissima sempre alla nostra mente e nel nostro cuore, e la sua sfortunata avventura.

di Mario M.Merlino

domenica 26 maggio 2013

L’insegnamento di Don Pino Puglisi: la comunità può vincere la mafia



La beatificazione di Don Pino Puglisi, il coraggioso parroco palermitano ucciso dalla mafia nel 1993, oltre ad essere un evento solenne per la Chiesa Cattolica è lavittoria di un certo modo di fare antimafia. Don Pino fu tra i primi a capire che per vincere la mafia non era sufficiente la presenza militare dello Stato sul territorio (per altro raramente realizzata) ma colpirla direttamente nel suo punto più forte: il consenso sociale. La sua azione era rivolta soprattutto ai ragazzi del quartiere Brancaccio di Palermo, una zona controllata capillarmente dalla mafia negli anni ’80 e ’90, affinché non diventassero la manovalanza criminale della famiglia Graviano.
Quando nel settembre del 1990 fu nominato parroco di San Gaetano a Brancaccio, Puglisi intuì che in quel luogo la salvezza delle anime coincideva con una lotta frontale, e alternativa, contro la mafia. Iniziò quindi un percorso di radicamento sul territorio che ebbe nella parrocchia, e successivamente nel centro “Padre Nostro”, un luogo propulsore di attività sociali per l’intero quartiere. Soprattutto i giovani trovarono in Don Puglisi e nelle sue attività un’alternativa alla vita criminale che offriva la mafia. Creò una sinergia tra uomini e donne di Chiesa, suoi collaboratori della parrocchia, e cittadini laici riuniti nell’Associazione Intercondominiale. Un’esperienza allora innovativa di impegno comunitario dal basso che spaventò la mafia. Tante le iniziative sociali, in un quartiere dimenticato dallo Stato, e le azioni di denuncia contro il degrado ed il malaffare. La mafia non poteva tollerare tutto questo e a Don Pino toccò la stessa fine di uomini come Falcone e Borsellino.
Il più importante insegnamento che Puglisi ha lasciato alla Sicilia, e a tutta l’Italia, è semplice quanto rivoluzionario: la comunità può vincere la mafia. Il potere mafioso per trovare consenso tra la gente si presenta quasi sempre come una sorta di benevola associazione di mutuo soccorso. Una “protezione” contro uno Stato considerato nemico, un mezzo per ottenere rispetto, denaro e potere. La mafia è in realtà il trionfo, sul versante criminale, dell’etica dell’individualismo moderno ben rappresentato dal Leviatano di Hobbes, incentrato sullo scambio verticale tra protezione e obbedienza.
La comunità, come ha rilevato il filosofo Roberto Esposito, è invece basata sull’”etica del dono”. Communitas deriva dall’unione della proposizione cum con il sostantivo munus che significa appunto “dono”. La comunità è quindi un’insieme di persone legate da un vincolo di riconoscenza basato sul dono reciproco gratuito e non su logiche utilitaristiche, tipiche della prassi mafiosa. Una concezione influenzata dalle teorie dell’antropologo Marcel Mauss.
L’azione di Don Pino Puglisi era in sostanza basata su questa visione comunitaria ben rappresentata dalle attività del centro “Padre Nostro”. Don Pino Puglisi, umile parroco della periferia palermitana, ha intuito e applicato, vent’anni fa, le attuali teorie sociologiche di Richard Sennet sui processi dinamici di cooperazione e condivisione.
Oggi la Chiesa riconosce il martirio di Don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia “in odium fidei“. Nella visione cristiana dal martirio sgorga sempre una nuova linfa per edificare una società più giusta, proiezione del regno di Dio. E’ certo che la testimonianza di Puglisi ha profondamente cambiato Palermo. La mafia ha erroneamente pensato che un colpo di pistola potesse fermare l’azione di Don Puglisi. Invece, dopo vent’anni, l’esperienza di Brancaccio si è estesa a tutti i quartieri di Palermo. Questo cambiamento, ancora in corso e non libero da ostacoli, potrà realizzarsi definitivamente solo se sapremo portare avanti la lezione di Don Pino sul dono e sulla comunità.
di Mauro La Mantia

venerdì 24 maggio 2013

De Benoist: “La morte volontaria di Venner? La più conforme all’etica dell’onore”


Alain de Benoist, lei conosceva Dominique Venner dal 1962. Al di là della pena o del dispiacere, è stato stupito dal suo gesto? Sebbene egli avesse da tempo rinunciato alla politica, questo gesto è coerente con la sua vita, la sua lotta politica?
“Ora mi disgustano soprattutto certi commenti. «Suicidio d’un ex dell’Oas», scrivono gli uni, altri parlano d’una «figura d’estrema destra», d’un «violento oppositore del matrimonio gay» o di un «islamofobo». Senza contare gli insulti di Frigide Barjot, che ha rivelato la sua vera natura, sputando su un cadavere. Costoro non sanno nulla di Dominique Venner. Mai hanno letto una sua riga (su oltre 50 libri e centinaia d’articoli). Ignorano perfino che, dopo una gioventù agitata – che lui stesso raccontò in Le cœur rebelle (1994), tra le sue opere migliori -, aveva rinunciato a ogni forma d’azione politica da quasi mezzo secolo. Esattamente dal 2 luglio 1967. Infatti ero presente quando comunicò la decisione. Da allora Dominique Venner s’era dedicato alla scrittura, prima con libri sulla caccia e sulle armi (nel settore era un esperto riconosciuto), poi con saggi storici scintillanti per stile e spesso autorevoli. Aveva poi fondato La Nouvelle Revue d’histoire, bimestrale d’alta qualità.

“Il suo suicidio non mi ha sorpreso. Da tempo sapevo che – sull’esempio degli antichi Romani, e anche di Cioran, per citare solo lui – Dominique Venner ammirava la morte volontaria. La giudicava la più conforme all’etica dell’onore. Ricordava Yukio Mishima e non a caso il suo prossimo libro, che il mese prossimo sarà edito da Pierre-Guillaume de Roux, s’intitolerà Un samouraï d’Occident. Fin d’ora se ne può misurare il carattere di testamento. Dunque questa morte esemplare non mi stupisce. Mi sorprendono momento e luogo.

“Dominique Venner non aveva «fobie». Non coltivava alcun estremismo. Era un uomo attento e segreto. Con gli anni, il giovane attivista dell’epoca della guerra d’Algeria s’era mutato in storico meditativo. Sottolineava volentieri quanto la storia sia sempre imprevedibile e aperta. Ci vedeva motivo per non disperare, infatti rifiutava ogni forma di fatalismo. Ma era innanzitutto un uomo di stile. Ciò che apprezzava di più nelle persone era la tenuta. Nel 2009 aveva scritto un bel saggio su Ernst Jünger, spiegando la sua ammirazione per l’autore delle Scogliere di marmocon la sua tenuta. Nel suo universo interiore non c’era posto per i cancan, per la derisione, per le liti di una politica politicante che giustamente disprezzava. Perciò era rispettato. Cercava la tenuta, lo stile, l’equanimità, la magnanimità, la nobiltà di spirito, talora fino all’eccesso. Termini il cui senso sfugge a chi guarda solo i giochi televisivi”

Dominique Venner era pagano. Ma ha scelto una chiesa per porre fine ai suoi giorni. Una contraddizione?

“Penso che lui stesso abbia risposto alla domanda nella lettera che ha lasciato, chiedendo di renderla pubblica: «Scelgo un luogo altamente simbolico, la cattedrale di Notre-Dame di Parigi, che rispetto e ammiro, perché fu costruita dal genio dei nostri avi su luoghi di culto più antichi, ricordando origini immemorabili». Lettore di Seneca e Aristotele, Dominique Venner ammirava specialmente Omero: Iliade e Odissea erano per lui i testi fondanti d’una tradizione europea nella quale riconosceva la sua patria. Solo Christine Boutin può immaginare che si fosse «convertito all’ultimo secondo»!

Politicamente questa morte spettacolare sarà utile, come altri sacrifici celebri, quello di Jan Palach nel 1969 a Praga, o quello più recente dell’ambulante tunisino che in parte provocò la prima «primavera araba»?

“Dominique Venner s’è espresso anche sulle ragioni del suo gesto: «Davanti a pericoli immensi, sento di dover agire finché ne ho la forza. Credo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci opprime. Mentre tanti uomini si rendono schiavi della loro vita, il mio gesta incarna un’ etica della volontà. Mi do la morte per svegliare coscienze addormentate». Non si potrebbe essere più chiari. Ma si avrebbe torto non vedendo in questa morte volontaria ben oltre il contesto angusto dei dibattiti sul «matrimonio per tutti». Da anni, Dominique Venner non sopportava più di vedere l’Europa fuori dalla storia, vuota d’energia, dimentica di sé. Diceva spesso che l’Europa è «in letargo». Ha voluto svegliarla, come Jan Palach, in effetti o, in un altro periodo, Alain Escoffier. Così ha provato la sua tenuta fino in fondo, restando fedele alla sua immagine del comportamento di un uomo libero. Ha scritto anche: «Offro ciò che resta della mia vita in un’intento di protesta e fondazione». Questa parola, fondazione, è il legato di un uomo che ha scelto di morire in piedi”.

A cura di Nicholas Gauthier (traduzione di Maurizio Cabona,barbadillo.it)

24 Maggio,il Piave mormorò..


giovedì 23 maggio 2013

Nell'anniversario della morte di Giovanni Falcone


"Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini."

In memoria del giudice Giovanni Falcone,della moglie Francesca e degli uomini della scorta,caduti in un vile attentato di mafia.

UN ESEMPIO DA SEGUIRE,UN IDEALE PER CUI LOTTARE.
Palermo,23 Maggio 1992



mercoledì 22 maggio 2013

Almirante fu maestro di democrazia e pacificazione, le sue idee sono vive e attuali

1979, congresso di Napoli del Msi-Dn. Giorgio Almirante, leader della destra italiana, lanciò una grande offensiva di democrazia e di partecipazione, quella della nuova Repubblica. La battaglia presidenzialista per l’elezione popolare a suffragio universale del Capo dello Stato fu per la destra italiana una scelta convinta e prioritaria. Fu oggetto d’intense campagne politiche e proprio nel congresso di Napoli trovò la sua sintesi con una proposta organica di riforma dello Stato.
Il tema si era affacciato anche ai tempi della Costituente e Calamandrei e altri avrebbero probabilmente voluto una scelta più coraggiosa quando si scrissero le nuove regole della Repubblica italiana. Ma il nodo non è stato sciolto ancora oggi. Parto da questa riflessione per attualizzare l’eredità di Giorgio Almirante nel giorno in cui ricordiamo i 25 anni dalla sua scomparsa.
A quanti lo hanno troppo sbrigativamente giudicato un nostalgico proponiamo una diversa lettura. Giorgio Almirante fu maestro di democrazia e di pacificazione. Incontrando nei giorni scorsi i fratelli Mattei, mi è tornata alla mente quella drammatica giornata dell’aprile 1973, quando da giovane militante del Fronte della gioventù andai ai funerali di Stefano e Virgilio bruciati da Potere operai nel rogo di Primavalle.
Sulla scalinata della Chiesa di Piazza Salerno, Giorgio Almirante disse: “chiediamo giustizia, non vendetta”. Almirante invitò costantemente alla pacificazione tra gli italiani. E lo fece durante gli anni di piombo, in un tempo ancora non sufficientemente lontano dagli odi e dai rancori della guerra civile. Lo voglio ricordare oggi che di pacificazione si torna a parlare in altri contesti, di grande polemica e di scontro politico, ma certamente diversi dai tempi cruenti degli anni di piombo durante i quali parlare della pacificazione era un atto di grande coraggio.
Ma Giorgio Almirante fu innovatore anche sul fronte delle istituzioni. Altro che nemico della democrazia! Con il presidenzialismo voleva un coinvolgimento più ampio dei cittadini nelle scelte fondamentali della vita dello Stato e della democrazia governante.
Oggi quella svolta non si è ancora realizzata. Ma il fronte presidenzialista si allarga e si estende. Anche quelli più ostili a questo principio ne diventano di fatto fautori quando suppliscono con le consultazioni via internet a quel bisogno di democrazia diretta di cui la destra si è fatta sempre interprete in questo lungo dopoguerra. E quel congresso di Napoli del ’79 elevò quella della nuova Repubblica presidenzialista a scelta prioritaria e identitaria della destra italiana. Ancora qualcuno all’epoca diceva che dietro quella proposta ci fosse un’istanza autoritaria. Non era così allora e tantomeno lo è oggi.
Almirante, quindi, è stato non solo un leader coraggioso, un infaticabile esponente politico che peregrinò incessantemente per tutta l’Italia, dando sostanza fisica alla rappresentanza delle idee. Fu anche un fautore di scelte di avanguardia e di rafforzamento della democrazia repubblicana. Ponendo questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito politico. Ed è per questo che ho voluto citarlo e ricordarlo nella relazione che accompagna la proposta di legge di modifica costituzionale che ho presentato in apertura di questa diciassettesima legislatura al Senato, affinché la Costituzione venga modificata e preveda finalmente l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della Repubblica.
Rendiamo omaggio a 25 anni dalla scomparsa a colui che ci ha insegnato la pacificazione e la democrazia. A quanti non se ne fossero resi ancora conto in ambienti politici diversi dal nostro, chiediamo di fare un’onesta riflessione e di unire al nostro omaggio anche il loro. Per qualcuno forse sarà un atto tardivo. Ma per le scelte di buonsenso non è mai troppo tardi. Noi che lo abbiamo conosciuto e che da lui molto abbiamo imparato, lo ricordiamo con commozione, consapevoli che cercò sempre di portare gli ideali e i valori della destra in ambiti più vasti. Fu fautore della costituente della destra nazionale, della costituente di destra, cercando in epoche ben più difficili di quelle che viviamo oggi di non farsi mai isolare in un ghetto identitario. Cercò di condividere i valori della destra. Ed è quello che ciascuno di noi dovrà continuare a fare nell’Italia del nuovo millennio.
di Maurizio Gasparri (secoloditalia.it)

25 anni fa,moriva Giorgio Almirante.

Rispolveriamo un video da noi realizzato nel 2011.
Un periodo politico che sembra lontano anni luce,progetti dissolti,progetti mutati.

Ciò che non cambierà mai,oggi come allora,è l'idea di quella destra che ci ha forgiato,nonostante la giovane età della maggior parte di noi,ma soprattutto il ricordo di un grande italiano che ha saputo tramandare di generazione in generazione quello spirito,quei valori,quella voglia di lottare che ci contraddistinguono.

ALTA QUELLA BANDIERA,SEGRETARIO!
Giorgio Almirante, 27.06.1914 – 22 .05.1988


lunedì 20 maggio 2013

Tolkien: arriva l’inedito scritto “La caduta di Re Artù”



“La caduta di Re Artù”: così si intitola un manoscritto inedito di JRR Tolkien (1892-1973), ritrovato dopo ottanta anni, che sarà pubblicato per la prima volta a livello mondiale tra un paio di settimane nei Paesi di lingua inglese.
La nuova pubblicazione si deve al figlio dello scrittore britannico, Christopher Tolkien, che ha autorizzato la casa editrice HarperCollins a dare alle stampe circa mille versi inediti sulla fine di re Artù che fanno parte di un lavoro incompiuto dell’autore di “Il Signore degli Anelli”.
L’opera si intitola “The Fall of Arthur” (La caduta di Artù)e uscirà il 21 maggio negli Stati Uniti, il 23 in Gran Bretagna e Irlanda, il 24 in Canada e il 1 giugno in Australia. “La caduta di Artù” fu iniziata da Tolkien intorno agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso ed è basata sulle leggende contenute nel ciclo bretone di re Artù, che lo scrittore amava rileggere periodicamente. Il poema inedito risulta ispirato da un quadro del pittore inglese John Mulcaster Carrick, in cui si vede il mitologico re a terra a fianco di un cavaliere che cerca di riazarlo per un braccio.
“The Fall of Arthur” era custodito in una sezione chiusa al pubblico della Bodleian Library di Oxford, la prestigiosa biblioteca dell’Università inglese dove Tolkien fu professore di letteratura e lingua anglosassone. L’esistenza del lavoro incompiuto di Tolkien era nota solo grazie ad un paio di accenni in un carteggio tra lo scrittore e il suo biografo Humphrey Carpenter.
Il figlio dell’autore di “Lo Hobbit” si era sempre opposto alla pubblicazione del poema ma nello scorso autunno lo ha offerto lui stesso alla  HarperCollins ritenendo che possa essere un bell’omaggio in occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa del padre che ricorrere il 2 settembre 2013. Christopher Tolkien ha curato tre saggi sul mondo letterario di Artù destinati ad apparire nel volume di imminente pubblicazione.
di Vittorio Pozzo (barbadillo.it)

giovedì 16 maggio 2013

21 e 22 Maggio Elezioni Universitarie. Al Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU) sostieni Azione Universitaria!



21 e 22 Maggio Elezioni Universitarie. Collegio Sud Italia

Al Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari (CNSU) 

Abbatti sprechi e privilegi, difendi i tuoi diritti !!

SOSTIENI | AZIONE UNIVERSITARIA |  
VOTA | GAETANO SCIORTINO |



COSA E' IL CNSU ?

Il Consiglio Nazionale Studenti Universitari (CNSU) è un organo consultivo, del Ministero dell'Università e della Ricerca, È composto da 28 studenti eletti su base nazionale ogni tre anni.
Il Consiglio può formulare pareri e proposte al Ministro dell'Università e della Ricerca che riguardano il mondo universitario nel suo complesso (attuazione delle riforme, diritto allo studio, finanziamenti, notizie di rilevanza nazionale che riguardano gli atenei nazionali).


SERIETA' ED AFFIDABILITA' DA SEMPRE A SERVIZIO DEGLI STUDENTI !

Attivo nella rappresentanza studentesca sin dal periodo scolastico è stato Rappresentante d'Istituto ed alla Consulta Provinciale degli Studenti per il Liceo Scientifico Cannizzaro.

Leader del Coordinamento Studentesco I RIMANDATI, protagonista delle proteste contro l'allora Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni.

Nel 2007 diventa Presidente della Consulta Provinciale degli Studenti di Palermo e nello stesso, a Roma, durante l'Assemblea dei Presidenti delle Consulte d’Italia viene eletto Moderatore Nazionale.

Nel Settembre 2008 si iscrive presso la Facoltà di Giurisprudenza. Con Azione Universitaria comincia a portare avanti battaglia in difesa degli studenti e si accredita come punto di riferimento per diverse Associazioni di Facoltà.

Nel 2010 viene eletto Rappresentante degli Studenti al Consiglio di Facoltà e nello stesso anno fonda l’Associazione Studentesca Foro di Giurisprudenza, di cui attualmente è Presidente.

Negli anni si è fatto portavoce di diverse battaglie contro gli sprechi ed i privilegi dentro l’Ateneo, per il rinnovamento del sistema universitario e per la difesa dei diritti degli studenti. Ha contribuito alla nascita del “Gruppo delle Matricole di Giurisprudenza”. Promotore di attività volte alla crescita e la formazione culturale quali seminari e convegni.

Impegnato nel sociale, sensibile alle tematiche del volontariato ha collaborato con l’Associazione di Promozione Sociale Modavi. Nel 2009 ha partecipato ad una spedizione di volontariato in un Campo allestito da diverse associazioni di volontariato per la ricostruzione dell’Aquila. Tra i suoi hobbies l’organizzazione di feste universitarie nei locali della città. 


PROGRAMMA ELETTORALE:

Tetto massimo Tasse universitarie

Quasi ogni anno al momento dell’iscrizione all’università troviamo la somma da pagare come tasse universitarie aumentata. Non si può garantire il diritto allo studio se ogni famiglia oltre ai libri di testo, il materiale didattico, e spese varie deve pagare una somma sproporzionata di tasse. In passato sono stati fatti diversi tentavi per evitare questo aumento anno per anno ma mai si è giunti ad una vera soluzione. Ci batteremo affinché il Ministro si faccia promotore di una legge che 

• istituisca un tetto massimo alle somma da pagare come tasse universitarie, perché questo non può essere lasciato alla discrezione dei Rettori e degli organi di governo dell’ateneo,
• istituisca una proporzionalità tra tasse e servizi, perché non è più accettabile pagare esose somme per servizi scadenti
• aumenti la differenza di reddito fra le fasce perché è giusto che chi ha molto di più paghi di più

Opportunità di laurearsi prima

In un mercato del lavoro globalizzato la competizione oltre tra le merci vi è anche tra cervelli. Per questo motivo il sistema universitario nazionale deve essere competitivo rispetto a quelli degli altri paesi europei e non solo, per far sì che i giovani italiani non vengano penalizzati rispetto ai connazionali oltralpe.
E’ chiaro quindi che oltre alla richiesta di un alto livello di preparazione, la giovane età è fondamentale per chi cerca lavoro nel mercato globale. Se già si sta tentando di fare qualcosa per ridurre il numero di fuoricorso, ancora non si è fatto nulla per permettere agli studenti eccellenti di laurearsi il prima possibile. Non si capisce infatti il motivo per il quale uno studente può impiegare più anni rispetto a quelli previsti dal proprio corso di studi ma meno no, o meglio la procedura prevista, quando possibile, è talmente lunga e complicata da scoraggiare chiunque. E’ quindi necessaria preliminarmente l’abolizione della maturazione della frequenza per poter sostenere un esame e successivamente quindi la modifica della procedure per la laurea in casi simili rendendolo più snella.

Basta con le differenze tra nord e sud!

In tutte le classifiche degli atenei italiani si nota come le prime posizioni siano tutte occupate da Università che si trovano nel nord Italia (Politecnico di Milano, Politecnico di Torino), mentre le ultime posizioni sono tutte occupate da atenei che si trovano al Sud (Palermo 52 su 58). Considerato che anche noi studenti degli atenei del mezzogiorno paghiamo le tasse, quasi sempre molto esose, come i nostri colleghi del nord, pretendiamo che anche le nostre università siano di poli di eccellenza culturali e venga garantito un servizio di qualità. Le mense ed in pensionati in particolare devono essere potenziati aumentando il numero, negli ultimi anni infatti anziché aumentare proporzionalmente al numero di iscritto spesso sono state chiuse per mancanza di fondi.
Se veramente si vuole rilanciare il mezzogiorno crediamo che l’investimento di risorse negli studenti sia assolutamente prioritario, perché solo creando persone capaci e preparate in grado di rilanciare l’economia delle nostre regioni si può finalmente dopo 150 anni eliminare le differenze tra nord e sud della nostra amata patria.

Parere obbligatorio vincolante

Nel nostro paese i disastri che stiamo vivendo sono perlopiù dovuti alle generazioni precedenti che non hanno saputo costruire un futuro ai loro figli. Crediamo quindi che sia necessario adesso più che mai che queste lascino sempre più spesso spazi decisionali ai giovani, ma se con le parole ne sono tutti convinti con i fatti spesso i giovani non vengono consultati nemmeno per le decisioni che li riguardano direttamente. E’ il caso della rappresentanza studentesca. Non si capisce perché quando Ministri, Rettori o Presidi fanno riforme o assumono semplici decisioni che riguardano gli studenti, questi il più delle volte non vengono coinvolti nelle procedure decisionali e quando avviene, si fa con scarsa attenzione. Riteniamo sia il caso innanzitutto di aumentare il numero di rappresentanti negli organi di governo degli atenei, delle nuove “Strutture di raccordo” e anche nei singoli Dipartimenti, per far si che la voce degli studenti possa essere più incisiva. Nel caso del CNSU riteniamo che sia necessario l’introduzione del parere obbligatorio vincolante per le decisioni del Ministro che incidono direttamente nella vita degli studenti, solo così finalmente si eviteranno riforme e decisioni che penalizzano notevolmente gli studenti. 

Diritto allo studio

Il diritto allo studio è ad oggi lettera morta. L’università infatti, specialmente in un periodo di crisi come quello attuale, diventa sempre di più un lusso ed una spesa gravosa per la maggior parte delle famiglie italiane. Le borse di studio che dovrebbero permettere ai ragazzi meritevoli ma senza risorse economiche, di continuare gli studi sono sempre di meno e sempre più scarse, se a ciò si aggiunge che negli atenei del sud Italia i posti letto sono nei pensionati universitari sono di gran lunga insufficienti alla richiesta, si capisce come oggi molti ragazzi sono costretti a lavorare per pagarsi gli studi o addirittura abbandonare l’università. E’ necessario quindi aumentare le risorse per l’università, in primis il numero di borse di studio.

Parentopoli (sent. Tar)

Capita ormai troppo spesso di leggere sui giornali o su qualche libro l’albero genealogico di una famiglia che si trova a lavorare tutta presso la stessa università. Sono recenti anche diversi servizi televisivi dove i vari parenti che venivano intervistati dichiaravano che non vi era nulla di male nell’avere un parente che insegna nello stesso ateneo, facoltà, o addirittura dipartimento, dichiarando inoltre di aver vinto regolare concorso. E’ vero infatti che hanno tutti vinto regolare concorso ma la maggior parte di questi concorsi sono stati costruiti ad hoc per il candidato “figlio di” al quale partecipano due o tre candidati. Inoltre dopo l’entrata in vigore della legge Gelmini, che vieta la presenza di professori-parenti nella stessa facoltà, molti di loro hanno dovuto studiare intere notti per incastrare nelle varie facoltà ed università tutti i parenti.
Questa malcostume tutto italiano, danneggia gli studenti almeno due volte, la prima perché scegliendo per il ruolo di docente o ricercatore il “parente di” e non il ragazzo più meritevole si avrà una classe docente mediocre e non di qualità, la seconda perché così gli studenti meritevoli che hanno veramente la passione per l’insegnamento e la ricerca se non sono raccomandati da qualcuno rimangono fuori.
Chiediamo quindi un severo controllo del Ministero sul rispetto della normativa attuale e dove necessarie nuove misure per contrastare questo fenomeno.

Legalità

La battaglia per la legalità va combattuta su tanti fronti, anche all’università perciò si può fare molto, perché è da questo luogo che usciranno molti cittadini ed in questo tempio della cultura perciò vanno formati ai valori di legalità e solidarietà. Non solo, ma crediamo anche che l’università come luogo naturale di confronto, dibattito e ricerca possa essere più che adatto a studiare sempre nuovi strumenti per la lotta alla criminalità. Per questo motivo riteniamo utile l’organizzazione e la promozione di eventi ed iniziative che, oltre a sensibilizzare tutti gli studenti, siano veri luoghi di lotta alla criminalità. Inoltre a simbolo di tutto ciò riteniamo doveroso intitolare in tutti gli atenei d’Italia un’aula a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due eroi del nostro tempo che devono essere da modello per tutti i giovani nella loro vita di ogni giorno.
Volevo scrivere qualcosa anche su i seguenti punti ma mi sembra che dopo diventi troppo lungo

QUALITA’, MERITOCRAZIA, PARTECIPAZIONE

mercoledì 15 maggio 2013

Firenze, in cinquanta con caschi e catene aggrediscono un banchetto di Casaggì

Solidarietà ai fratelli di Casaggì Firenze vigliaccamente aggrediti da militanti della sinistra antagonista armati di caschi e catene.
Come a Brescia,un'infame aggressione stile anni 70.Siete vigliacchi e infami come i vostri padri!



di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

Nuove violenze alle università scatenate dall’ultrasinistra dei collettivi. La mattina del 15 maggio gli studenti Casaggì, l’attivissimo centro sociale fiorentino di destra, era al Polo Universitario di Novoli per svolgere la propria regolare campagna di propaganda in vista delle elezioni universitarie del prossimo 21 e 22 maggio.

 I militanti di Casaggì, sette, avevano allestito un banchetto, nel quale era presente il materiale elettorale e le indicazioni di voto. Attorno a mezzogiorno, circa una cinquantina di militanti dei centri sociali antagonisti si sono radunati davanti al banchetto, distribuendo volantini, gridando slogan e minacciando di passare alle vie di fatto se gli esponenti di Casaggì non avessero immediatamente lasciato l’Università che, a loro dire, non dovrebbe permettere ad un movimento di destra di esprimere liberamente le proprie idee e candidarsi agli organi di rappresentanza studentesca. 

Pur inferiori di numero, gli studenti di Casaggì hanno scelto di rimanere al banchetto, perché convinti del diritto di esprimere le loro preferenze. Verso le 12,30 – mentre gli studenti di destra iniziavano a smontare il banchetto per recarsi a pranzo nella mensa antistante – il gruppo dell’estrema sinistra ha deciso di passare alle vie di fatto tirando fuori caschi, catene, tirapugni e brandendo le cinture per colpire, esattamente come facevano i collettivi democratici negli anni di piombo. Ne è nato uno scontro fisico durato qualche minuto e avvenuto sotto gli occhi di centinaia di studenti che stavano recandosi a pranzo. Nello scontro un militante di Casaggì ha riportato una ferita al volto. 

Il centro sociale ha immediatamente diramato un comunicato in cui scrive che «ciò che è accaduto è inaccettabile da ogni punto di vista, perché chi ha aggredito era armato ed è uscito da aule universitarie che sono concesse dal rettore e dai vertici dell’Università a personaggi che non le hanno restituite agli studenti, ma che le utilizzano per promuovere odio sociale e politico». «Abbiamo il diritto – proseguono gli studenti di destra – di fare propaganda e di vivere l’Università, da studenti e da candidati alle elezioni, come tutti gli altri. Non è accettabile che all’Università entrino persone esterne, magari armate, per creare il caos e cercare di cacciare chi fa politica in altri schieramenti». Infine, conclude Casaggì, «non sono accettabili le dichiarazioni di alcuni organi di stampa, che senza aver verificato la notizia, hanno parlato di rissa e di scontri, come se si fossero dati appuntamento due gruppi contrapposti e non si fosse trattato di una vile aggressione premeditata e vergognosa». Casaggì conclude il comunicato annunciando che «non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia e continuerà, adesso e nei prossimi mesi, a svolgere nelle facoltà la propria attività politica e cerchiamo di farlo con la dignità e il coraggio di sempre. Dignità e coraggio: qualcosa che manca ai paladini dell’antifascismo».

Qual è lo scandalo di Brescia: i ministri che manifestano o gli intoccabili che aggrediscono?


Come al solito bisogna immaginare la scena a parti inverse. La giustizia borghese processa pretestuosamente uno dei tanti beniamini della sinistra, amato dai salotti radical chic e dall’ottanta per cento dei giornalisti italiani che, se non sono stati a Lotta continua perché erano troppo giovani, ci hanno avuto uno zio, una mamma o un papà o, almeno, avrebbero voluto esserci. Immaginiamo un caso “Popi Saracino”.

Nessuno se lo ricorda vero? Era un capetto del ’68 milanese, bell’uomo, professore di liceo di quelli che si fanno qualche tiro con le alunne, come la diciottenne Simonetta Ronconi. Nel glorioso maggio dell’anno Ottanta del secolo scorso, il fascinoso capo di una delle fazioni più pimpanti del Movimento studentesco fu accusato di aver violentato una sua assolutamente splendida studentessa. 

Al processo c’erano giovanette dell’ultrasinistra che anziché contestarlo sbavavano per lui, mentre alcune vecchie racchione femministe invece lo mostravano all’indice come stupratore e sostenevano che proprio perché era un “compagno” andava giudicato anche più severamente e fucilato due volte. Un po’ come diceva la destra forcaiola negli anni Settanta, che chiedeva la pena di morte per i terroristi ma DUE volte se erano di destra. Il che ha sempre sollevato un dibattito tecnico legittimo su come si faccia ad uccidere uno DUE volte… Ma Popi era uno giusto, coi contatti giusti e gli amici giusti.

Alla fine tutta la stampa si schierò con lui e così i vecchi e nuovi compagni: parlamentari, giornalisti, attori, galleristi d’arte, magistrati eccetera. Tutti quelli che avevano fatto il ’68 dalla parte giusta. E così venne finalmente assolto per non aver commesso il fatto. La sentenza disse che, anche se la Simonetta all’inizio aveva fatto resistenza, se a un certo punto aveva smesso e aveva ceduto non si trattava di violenza. Quindi, il ’68 era salvo. 

Immaginiamoci – così, solo per ridere – che a una manifestazione per la sua innocenza, o per l’innocenza di Sofri, o di Tortora (i familiari non si impennino) o di chiunque altro che legittimamente o meno possa essere considerato un innocente perseguitato dalla magistratura per altri fini, si fossero presentati dei fascistoni o fascistelli e avessero aggredito, spaccandogli la faccia o rompendogli la testa, professionisti, padri e madri di famiglia, pensionati o innocui simpatizzanti che si recavano alla manifestazione di solidarietà. Immaginiamoci i titoli della stampa nazionale (ed estera!!). 

Immaginiamoci il messaggio del sindaco, del vescovo, dei presidenti di Camera e Senato e della Repubblica, dei sindacati, del prefetto e del questore. Immaginiamoci l’alacrità con cui avrebbero risposto la magistratura e la polizia, le perquisizioni, gli arresti, le condanne preventive e successive, i sequestri di documenti compromettenti e di armi improprie (coltelli da cucina e mattarelli della mamma) e le conferenze stampa. Pensiamoci. O meglio, ricordiamoci quante volte è avvenuto, rendiamoci conto di quante altre volte avverrà. E vomitiamo. Si, vomitiamo. Liberiamoci dalla naturale bile che qualunque persona per bene produrrebbe in quantità. E ripetiamocelo: senza riforma della giustizia, senza una giustizia che non faccia sempre figli e figliastri, qualunque discorso sulla libertà e sulla democrazia è una chiacchiera vana.

 Bastano due magistrati faziosi e due giornalisti bugiardi per sovvertire qualunque Stato democratico. E in Italia è già accaduto troppe volte.

di Marcello De Angelis (secoloditalia.it)

martedì 14 maggio 2013

Riflessioni.Sono gli italiani le vittime del razzismo!


Un "ferma immagine" del clandestino ghanese che all'alba dell'11 maggio ha aggredito cinque nostri connazionali,uccidendone tre,a colpi di piccone.








Tre morti e due feriti,il macabro bottino di un clandestino ghanese che doveva essere espulso mesi fa.

Dopo Alessandro Carolè, 40 anni e Daniele Carella, di 21, salgono così a tre le morti,Ermanno Masini 64 anni,l'ultima in ordine di tempo, dovute al gesto folle di un immigrato, che sabato mattina si è scatenato con furia su cinque passanti, colpendoli prima con una spranga e poi con un piccone.

Tre vite spezzate,dall'ennesima aggressione di un extracomunitario ai danni di un nostro connazionale.Qualche notizia qua e la,ma nessuno si indigna,nessuno presenta interrogazioni parlamentari,anzi,si cerca di minimizzare,"Un folle" "un poveraccio" "se ha ucciso paga".Immaginate cosa sarebbe successo se le parti fossero invertite?se il folle,poveraccio ecc ecc,fosse stato un italiano?

Saremmo stati additati dall'intera europa come xenofobi,criminali.Messi alla gogna da quella sinistra sempre più anti-italiana,che trova massimi esponenti in personaggi come Pisapia,sindaco di Milano,e Niki Vendola,e tanti altri che fanno parte anche delle istituzioni,appartenenti a quella fazione politica,figlia dell'odio e della menzogna.

Siamo stanchi di dover aver paura di uscire di casa,siamo stanchi di dover temere per i nostri figli,per le nostre mogli,per le nostre madri.Nessuno merita di morire,a 21 anni,a picconante da un soggetto che l'Italia la doveva vedere solo dalla cartina geografica. Siamo stanchi di essere testimoni di forme di razzismo verso chi è ITALIANO!

Non ci sono scusanti,non ci sono giustificazioni,la politica deve intervenire,deve fortemente intervenire a tutela di chi,è nato,ed ha sangue italiano!

lunedì 13 maggio 2013

Per l’Italia. Di chi sei figlio tu?


Non so se vi ricordate quella scena di Good Morning Babilonia. E’ il film dei fratelli Taviani. Hollywood, 1913.  E’ il tempo del muto. Griffith sta girando il suo capolavoro:Intolerance. Con lui lavorano due artigiani toscani, bravi a costruire, mani e cervelli in fuga da un’Italia in crisi economica. Non è facile stare lì. La reputazione degli italiani in quegli anni è bassa, molto bassa. Sono poveracci, sono stracci, sono lontani. Il capo scenografo è un’americano, infastidito da questi due pezzenti che il regista ha voluto nel film, con il risultato di rubare lavoro alle maestranze californiane. Non importa che i due siano dei veri maestri nel trattare la pietra. L’insulto è quotidiano.  Gli italiani lì oltreoceano sono tutti Dago, Guinea, Guido, Mario, Gino, sono puzzoloenti e sovversivi, sfaticati e neri. “Gli italiani pancia al sole, e mani sulla pancia”. E’ dopo un altro sputo, un altro segno di disprezzo, che l’artigiano afferra il braccio del fratello e grida, urla, la sua rabbia, il suo orgoglio.  “Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze… Di chi sei figlio tu ?Noi siamo i figli, dei figli, dei figli di Michelangelo e Leonardo; di chi sei figlio tu?”. Di chi sei figlio tu?


Sono queste mani che ti vengono in mente mentre stai leggendo il saggio di Arturo Diaconale Per l’Italia (Rubettino). Ti vengono in mente perché la domanda principale è ancora quella: di chi siamo figli noi? Di chi sei figlio tu?. Non è solo una questione di identità. E’ l’oroglio. E’ sfuggire alla tentazione che ogni volta ci portiamo dietro di disprezzarci, di vergogliarci di quello che siamo, di ripudiarci per una sorta di masochismo nazionale o per la supponenza della classe dirigente, degli intuellettuali, di molti nostri scrittori, di diversi politici, dei tanti opinionisti che chiacchierano sui giornali e nelle tv di guardare con disprezzo a tutto ciò che puzza d’Italia. Non è che non abbiamo difetti. Ne abbiamo tanti. Lo sa Diaconale. Lo dice. Ma ricorda anche che una nazione non può sempre giocare contro se stessa. Non può non avere un passato e un futuro condiviso. Non può tuffarsi sempre dentro una guerra civile parolaia da Montecchi e Capuleti, da rossi e neri, da guelfi e ghibellini, una guerra civile che preferisce la caduta del tutto per odio verso l’altra parte.
Parlare di nazionalismo è ancora un tabù, perché noi siamo bravi ad aver paura delle parole. Eppure se non ci riconosciamo e non crediamo in qualcosa che si chiama Italia non possiamo neppure permetterci di andare in Europa. Pensate a come di solito ci presentiamo: da vittime o da accattoni, da partigiani e da faziosi, da gente che usa lo scenario europeo come un ring per gli affari di casa. E’ un atteggiamento che i francesi, gli spagnoli, i tedeschi non capisco. Se questi qui sono i primi a sputare sulla loro terra, come facciamo a fidarci di loro? Poi, certo, l’Europa ci mette del suo, visto che sempre di più ama presentarsi con la maschera dell’aguzzino, con il vestito grigio del burocrate, con i cavilli e le tasse, sacrificando in nome dell’apparato il sogno delle nazioni che superano i propri confini e le proprie miserie per costruire qualcosa di più grande, per costruire l’impossibile, l’ideale.

L’Italia è un Paese strano. E’ come certe squadre di calcio che non riescono a valorizzarsi come gruppo, non si passano la palla, non riconoscono un modulo di gioco. La speranza e l’orgoglio è arrivato sempre dai singoli, dai pochi, da certi individui che resistono a tutto e sognano e immaginano un futuro e mettono le mani nel fango per cercare in quel fango la materia prima utile a costruire un domani. Ogni volta sono stati loro a trovare il colpo d’ala per uscire da una crisi, da uno stallo. Sono gli stessi che resistono giorno dopo giorno, contro quel mostro grasso e vorace che è lo Stato italiano. Non sono pochi. Sono molto più di quanto si pensa. Solo che spesso non si conoscono, non fanno rete, non hanno un punto di riferimento e troppe volte lavorano da soli per un senso di disincanto, di sfiducia, di stanchezza.

Nel suo libro però Diaconale ricorda che quando si ritrovano, si incontrano, riescono a cambiare il destino. Lo fanno magari per disperazione, perché si rendono conto con lucidità che il tempo è scaduto o perché davvero è ora o mai più. E’ in quei momenti eccezionali che scatta l’orgoglio, che si mettono da parte pregiudizi e antichi rancori, antipatie e sguardi diversi. E’ in quei momenti senza rete, dove ci si gioca il tutto per tutto, che qualcosa scatta, come se per un attimo anche chi crede nello Stato e nella classe, nella Chiesa e nell’anarchia prende dal liberalismo la sua parte più bella, quella che forse è in molti di noi: la voglia di rischiare, la voglia di andare a cercare l’impossibile, senza scorciatoie, ma con il sudore, con il talento, con il coraggio, con l’intrapredenza. Quasi sembra di riconoscersi in una nazione.

E’ successo negli anni ’50 in un paese sfregiato dalle macerie e dal sangue. Pietra su pietra, a rimettere in piedi tutto, ritracciando rotte, scavando nell’Appennino un’autostrada da Milano a Napoli, come simbolo di un’unità perduta. E’ successo ancora prima, quando un “gioventù ribelle” è andata a morire a vent’anni per un’idea vaga d’Italia. Quel Risorgimento costruito con il sangue, con le parole, con l’ossessione di voler a tutti i costi mettere sul piatto politico delle cancellerie europee un tema che nessuno voleva affrontare. Ma è un Risorgimento fatto anche di intrighi, di inciuci, di razionalità di sesso, utilizzando ogni mezzo, anche le arti amatorie di una cortigiana dal sangue blu. Il Risorgimento fu impresa di pochi e non fu fatto dai moralisti (neppure Mazzini lo era), ma da una minoranza di sognatori, avventurieri, spie, e tessitori. Senza vergogna, senza Savonarola con il dito alzato.

Di chi siamo figli? E quanto siamo disposti a riconoscerci nell’Italia e per l’Italia. Questo è il quesito del saggio di Diaconale. La risposta è in Good Morning Babilonia.”Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze… Di chi sei figlio tu ?Noi siamo i figli, dei figli, dei figli di Michelangelo e Leonardo; di chi sei figlio tu?”.

di Vittorio Macioce (blog.ilgiornale.it)

venerdì 10 maggio 2013

• CINEFORUM •


GIOVEDì 16 MAGGIO


HUNGER,il racconto inedito delle ultime settimane di vita di Bobby Sands. 
un film di Steve McQueen

h21:00 cena + proiezione 


giovedì 9 maggio 2013

A Peppino Impastato..


Una notte tra l'8 e il 9 maggio un giovane pieno di coraggio è ucciso da conoscenti o forse anche da parenti.
Una morte tragica in un paesino pieno d'indifferenza ma con tanta prepotenza.
Giuseppe Impastato sei stato ammzzato perchè volevi fermare quei mafiosi che nel tuo paese non erano pochi.
Ma tu nutrivi la speranza di uno stato pulito.
E tihanno ucciso, però non tutto è finito....

T.Rossella1993 Scuola Media Cinisi 1993


mercoledì 8 maggio 2013

Ciao Peppe..

Nel disastro di Genova ci ha lasciato un caro amico,un ragazzo umile,generoso,disponibile e sempre sorridente.Tante e tante volte ha animato le nostre serate mettendo i dischi,tante e tante volte ha manifestato il suo personale apprezzamento per il lavoro da noi svolto.

Ti vogliamo ricordare così caro Peppe,sorridente mentre metti l'ennesimo disco.


Addio Giuppy,Addio grande DJ.




Il futuro a destra? Una accademia della buona politica altro che Fli o una nuova An


L’assemblea di Fli sancisce lo scioglimento del partito finiano. E il resto degli ex An spera nella ricomposizione (e di sbloccare così il “tesoro” della fondazione An). Ma siamo sicuri che serva questo? Perché non creare – con i tanti fondi a disposizione – una vera accademia di (buona) politica e di cultura?
L’ultima stagione di Gianfranco Fini è stata all’insegna di un basso profilo che in qualche modo ne facilita un’uscita di scena silenziosa: senza il cattivo gusto, cioè, di provocare ulteriori traumi per sé e per una comunità disorientata e in stato di shock. Ha capito, l’ex leader di An e adesso ex Fli, che la sua fronda non esiste né a livello culturale (un embrione che si è ritenuto un essere umano già fatto) né tantomeno a livello elettorale. La scelta di candidarsi con un soggetto neocentrista come quello legato a Mario Monti è stata punita dall’indifferenza generale, mentre tutte le sue “battaglie” dell’ultima stagione sono rientrate nei rispettivi ranghi di appartenenza. E questo proprio per mancanza di elaborazione propria, per incapacità di dotare la “destra nuova” – che qualche ragione aveva e anche qualche soluzione poneva – di strumenti reali, politici ed economici: gli unici che permettono la creazione di un’identità politica riconoscibile, spendibile e non velleitaria.
Con la riunione di Fli si terrà, come lui stesso ha dichiarato, l’ultimo atto della sua stagione politica: si farà da parte proprio per favorire una transizione morbida dei suoi verso non si sa quale “cosa” con gli ex An in diaspora. Ed è un addio, quello di Fini, avaro di rimpianti, mentre di rimorsi ce ne sono tanti. Certo, da un lato lui stesso è stanco della ritualità del partito così come è stanco dei suoi stessi compagni di viaggio, ritenuti – ma è storia vecchia, ripetuta con tutti i colonnelli dal Msi a Fli – un ostacolo per una rivoluzione sempre promessa ma mai attuata con il coraggio richiesto a un navigatore. Dall’altro lato, però, Fini ha compiuto il miracolo di collezionare responsabilità politiche gravi rispetto a tutte le avventure che ha intrapreso. Da Fiuggi ‘95 a Mirabello 2009, il segretario è riuscito nell’impresa di disattendere le aspirazioni di tutti gli strati della destra italiana, “coadiuvato” ovviamente da una classe dirigente non all’altezza del ruolo. L’ex presidente della Camera dunque – prendendo in prestito un motivetto caro ai tanti detrattori – è “finito”.
E gli altri? Se si ha la capacità di non fermarsi all’eccitazione per la scomparsa dell’“eresia” finiana (con i vari festeggiamenti sui social network) si scopre subito che quasi nessuno può gioire. E anche qui, le urne aiutano a stabilire il tasso di responsabilità. La destra nel Pdl – nonostante i suoi rappresentanti si sbraccino come il secchione dei Simpson nel tentativo vano di farsi chiamare in cattedra – è una riserva indiana senza alcun ruolo nel nuovo governo. Fratelli d’Italia, da parte sua, sta tentando una difficile (ma incoraggiante) operazione di formazione di una nuova classe dirigente dovendo fare però, allo stesso tempo, opposizione e ricomposizione. Francesco Storace – a maggior ragione dopo la scomparsa di Teodoro Buontempo – ha chiamato tutti a raccolta buttando lì il nome di Gianni Alemanno (un ricordo sbiadito dell’intuizione significativa della destra sociale) come figura su cui riaggregare.
Ricomporre, insomma, è il verbo sulla bocca di tutti. Per dire che cosa però? Per fare cosa? Alla base, infatti, non sembra esservi un’unità programmatica se non un richiamo un po’ dozzinale ai “valori”. Né è credibile riproporre “passi indietro” nel tentativo di prendere la rincorsa: si verrebbe meno alla massima di Giorgio Almirante nella sua parte che recita «non restaurare». Ma tant’è, sull’argomento sono iniziati gli incontri, i meeting. Il punto è che queste riunioni sono animate – tranne qualche caso – dagli stessi corresponsabili dello sfacelo. E ammesso e non concesso che sia giusto concedere loro un’ulteriore possibilità, non può non risaltare agli occhi l’età anagrafica degli animatori: una media che si avvicina decisamente ai sessanta più che ai trenta-quaranta. Mancano, in questo dibattito, i giovani, i nuovi interpreti. Manca la società.
Una generazione, questo il punto, viene ancora una volta esclusa dal dibattito sul “futuro”: un vero e proprio paradosso. Si dice allora, molto più prosaicamente, che la necessità di riaggregare gli “ex” passi soprattutto dall’eventualità di risolvere l’annosa questione della “ricca” fondazione Alleanza nazionale che ne gestisce il patrimonio immobiliare. Ci sarebbe, dunque, anche una motivazione economica, di convenienza: perché, è chiaro, per fare politica è necessario dotarsi anche di un appoggio economico.
Ma in questo preciso momento storico non è possibile né sufficiente un “calcolo” del genere per ripartire. Nel momento in cui dietro quel “tesoro” custodito dalla fondazione ci sono anni e anni di marginalizzazione politica, di buona volontà, di buona fede di tanti onesti italiani che si sono tassati per sostenere un movimento che non era solo un partito. E a maggior ragione sarebbe inaccettabile ora una “spartizione” del bottino – un tot a te, un tot a me – come se si trattasse di una separazione consensuale. No, quel tesoro non appartiene alle correnti, ma a tutto un popolo.
E allora più che un nuovo partito – perché, come abbiamo visto, non ci sono adesso le condizioni – perché con questi fondi non mettere su una scuola, un’accademia di politica e cultura? Sì, un laboratorio aperto, plurale, inclusivo. Un vero e proprio hub – o una serie in tutta Italia – con tanto di testi a disposizione, con dei laboratori per fare cinema, radio, televisione? Un luogo aperto, innovativo, autogestito. Sarebbe una risposta di vita, una “Cosa” che farebbe parlare, che creerebbe di nuovo attenzione verso un mondo che rischia di tornare nel cono d’ombra ma stavolta per esclusiva responsabilità personale. Sarebbe questo un investimento reale per porre lì le basi vere di un soggetto politico che “ritorna al reale”. Sarebbe, finalmente, un’azione fondativa, una cosa di destra. O come diavolo la si voglia chiamare. Una cosa, finalmente, per cui farsi ricordare. Non maledire.
di Antonio Rapisarda (barbadillo.it)

lunedì 6 maggio 2013

Il ricordo.Agnese e il legame di Paolo Borsellino con la fiaccola tricolore



Era l’estate di due anni fa ed a Palermo fervevano i preparativi per la tradizionale fiaccolata del 19 luglio in ricordo di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, caduti nella strage di Via D’Amelio. Preparativi ancora una volta contrassegnati da polemiche striscianti tra una parte della famiglia Borsellino (in particolare i fratelli) e la comunità militante palermitana, proveniente dal Msi e da An, organizzatrice della manifestazione. Come se fosse necessaria una “patente” per ricordare Borsellino.
Sapevo che la signora Agnese ed i suoi figli non erano contrari alla nostra manifestazione. Negli anni avevano partecipato manifestando pubblicamente apprezzamento per la fiaccolata che, con il passare del tempo, è diventata la più grande manifestazione antimafia a Palermo capace di aggregare trasversalmente tanti siciliani nel ricordo di Borsellino. Decisi comunque di contattare Manfredi Borsellino, al quale mi lega un rapporto di grande affetto, e lui stesso mi invitò a parlare con sua madre per informarla delle problematiche legate alle iniziative del 19 luglio.
 Fu per me una grande emozione parlare al telefono con Agnese Borsellino. L’avevo vista qualche volta alla nostra fiaccolata, senza però riuscire mai a scambiare qualche parola con lei. La telefonata durò circa venti minuti, quasi un’eternità per me. Per ovvie ragioni di riservatezza ho sempre tenuto per me i particolari di quella telefonata. Posso però testimoniare la sua forte vicinanza ideale, quasi mista a gratitudine, verso i tanti i ragazzi che ogni anno danno vita alla fiaccolata. Agnese Borsellino amava la fiaccolata perché quella manifestazione, più delle altre, rispecchiava la personalità del marito: il silenzio e la compostezza del corteo per ricordarne la sobrietà, il tricolore a rappresentare l’unità del popolo italiano contro la mafia, negli striscioni i simboli che ricordano la sua militanza giovanile. Uno scenario molto diverso da certe manifestazioni in Via D’Amelio piene di livore, polemiche e schiamazzo. E poi quei tanti giovani con le fiaccole in mano che sembrano una conferma alla frase di Paolo Borsellino, pronunciata alla Festa del Fronte della Gioventù nel 1990 a Siracusa: “Potrei anche morire da un momento all’altro, ma morirò sereno pensando che resteranno giovani come voi a difendere le idee”.
 In quei giorni erano forti le polemiche sull’opportunità di permettere alle autorità di deporre corone di fiori in Via D’Amelio. Mi colpì una frase di Agnese Borsellino durante la telefonata. Nel ribadire quanto già detto pubblicamente sulla reale possibilità che uomini dello Stato tradirono il marito, mi invitò ad avere comunque rispetto per le istituzioni: “Mio marito si è fatto ammazzare da uomo di Stato, perché morire per le istituzioni significa morire per la patria. Anche se tradito mio marito avrebbe sempre rispetto per le istituzioni”. Concetto, condiviso dalla sua famiglia, confermato dalla scelta di Manfredi Borsellino di entrare in polizia e continuare a servire quello Stato su cui tante ombre aleggiano.
 Agnese Borsellino mi chiese di abbracciare tutti i ragazzi per lei. La terribile malattia, che si era abbattuta sul suo corpo, non le permetteva già quell’anno di essere in piazza con noi. Volle anche che ringraziassi a nome suo quei giovani per la determinazione nel ricordare ancora, dopo vent’anni, suo marito. Mi chiese infine di continuare ad amare la nostra Palermo e la nostra Italia e batterci per essa, proprio come fece Paolo.
 Se gli italiani amassero, senza se e senza ma, la propria terra come Agnese e Paolo la nostra storia sarebbe diversa.
di Mauro La Mantia (barbadillo.it)