Gli storici del fenomeno
urbano, come lo scomparso Lewis Mumford, ci hanno insegnato che “le città sono
un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate
le vite degli umani”. Egli si riferiva allo sviluppo lineare
nel tempo, attraverso cui i cuori pulsanti delle città, si incastrano tra
boutique, negozietti, botteghe e artigiani. Questo “ordine naturale” spiega il
fascino di città storiche ghermite di vita e cordialità, un po’ come la
Boutique des Anges, paradiso parigino dell’oggettistica di soggetto angelico in
rue Yvonne-le Tac, o Chat-Bada, regno mondiale dei gattofili in rue des Ecoles.
A Londra, i celebri tabaccai Dunhill di Davies St. o il calzolaio Lobb di St.
James St., ma anche quello sgabuzzino dietro Oxford St. dove trovi ancora una
pezza del tartan, fuori catalogo perché gli antichi telai si sono usurati e
nessuno è più in grado di ricostruirli.
Bologna, una delle città più antiche
d’Italia ha visto chiudere qualcosa come 556 negozi nel centro storico,
fenomeno causato dal mondialismo, che nei centri commerciali trova la sua
massima espressione. I borghi si svuotano di vita, le piazze rinsecchiscono, i
piccoli imprenditori emigrano altrove, le botteghe, le utensilerie, i piccoli
negozi di abbigliamento spariscono nella “mano invisibile” smithiana o peggio,
nell’usura teorizzata da Pound. Mentre i colossi si ingigantiscono, creando
l’illusione dei posti di lavoro, si rifanno in realtà sulle ossa delle città
storiche che, come enormi balene morte, affondano negli abissi. L’economia che
prima alimentava il tessuto urbano intriso di storie, quartieri, rapporti
umani, finisce nelle tasche nascoste dei grossi finanziatori internazionali
dalle francesi Decathlon o Carrefour fino alla Coop del Ministro Poletti, quello
che ha applicato la “riforma del precariato”, nel senso che ora si è precari
per legge, non per sciagura.
Se il quadro non vi è ancora chiaro o familiare,
basta farsi un giro nella Via Giacomo Medici e contare i fantasmi del
commercio: anche il franchising si è arreso. Piazza Roma, Piazza San Papino, il
Ciantro, sono solo gli ultimi segnali di questa metastasi etica. Bar,
rosticcerie, centri per la telefonia, persino le edicole storiche sono
costrette a spostarsi in questo marasma ottuso, bieco, incivile.
E mentre
Palazzo delle Aquile diviene la sede dei falchi e degli avvoltoi (?!) che si
contendono le poltrone delle prossime amministrative, la città muore lentamente
tra gli spettri e i baroni, come nella tragedia del Macbeth. Quando finirete di
leggere questo pezzo sarà già troppo tardi, persino per gli ultimi baluardi –
vedi Bonina e Cambria – per pensare a una strategia per evitare l’iceberg. Il
requiem risuona intrepido tra le vie del paese sulle note di un pentagramma
unidirezionale che recita: “cessione attività”. E l’ultimo giovane che se ne
va, senza voltarsi indietro, senza capire il perché.
di Francesco Bacone (pseudonimo letterario)
da InformAzione Milazzo del 12.04