mercoledì 21 ottobre 2015

Riflessioni post alluvione.

Sono i giorni della disperazione e del dolore,sono i giorni di chi ha perso i tanti sacrifici fatti da anni di duro lavoro nelle campagne di bastione, lavoro che ha segnato i corpi e la vita dei nostri amici , dei nostri parenti,oggi non hanno più la casa, i ricordi, gli effetti personali,hanno perso tutto.
Quella maledetta mattina è stata segnata dal grido di aiuto e di disperazione della gente che ancora echeggia nelle nostre orecchie ,da Rosa aggrappata ad un palo per non essere trascinata dalle acque del mela, dall'amico Ciccio avanti negli anni che cerca di salvarsi e salvare l'anziana moglie lasciando perdere anni di storia vissuta nella sua umile casa e Franco e poi Peppino, Felice, Maruzza, Nino,Carmela e tanti altri e poi le grida e i pianti dei bambini.
Ognuno gridava per fare sentire la propria voce coperta dal rumore violento dell'acqua e dal fango e dalla distruzione di ogni cosa, per farsi notare ed essere aiutato ,uno scenario apocalittico si presentava ai nostri occhi .
Il fango diventava forza della natura e non si arrestava, trascinava e travolgeva tutto ciò che gli impediva il libero accesso verso mare.
Mai visto niente di così catastrofico.
Ma quelle scene e la tragedia vissuta dalla gente di Bastione, invece di unire le forze politiche della città che per eventi del genere è opportuno unirsi, compattarsi mettere da parte magliette,colori e appartenenze e creare un tutt'uno con la gente, non si è verificato ,a causa di pochi che volevano speculare davanti alla tragedia lasciata dalla natura in virtù di qualche vantaggio politico – elettorale, non ha fatto altro che dividere .
Cominciamo a leggere sui web e ad ascoltare il balletto delle dichiarazioni inopportune di alcuni, che vanno alla ricerca di possibili responsabili per ciò che è successo e per ciò che non si è fatto fino ad oggi, indebitamente sostituendosi alla Magistratura unica Istituzione dello Stato a cui compete il ruolo.
Il Politico,l’amministratore pubblico devono fare altro,affrontare il problema e portarlo a soluzione,oggi purtroppo tutto ciò non accade, stiamo attraversando una brutta stagione della politica con troppi personalismi e troppi individualismi.
In un recente passato non si demandava alle proprie responsabilità,si affrontavano i problemi con sapienza e determinazione, si interveniva con vigore, si rilasciavano dichiarazioni equilibrate affinchè tutti si sentissero parte , coinvolti in un progetto di solidarietà , ognuno con le proprie capacità mettendo a disposizione la propria esperienza a dare soluzioni.
Non si cercava il punto per dividere ma si privilegiavano quelli che univano per portare e rendere più efficace e incisivo l’aiuto da portare.
Purtroppo questa nostra Sicilia, oggi, ha una classe dirigente e di governo che non riesce a spendere le risorse comunitarie,rimandando indietro al governo di Roma preziose risorse finanziarie.
In questi anni, le amministrazioni locali hanno sperato molto nel potere sostitutivo del Commissario dello Stato per gli interventi e per la mitigazione e il dissesto idrogeologico del territorio siciliano.
La struttura commissariale dello stato presso la regione è presente dal 2011 .
Il problema dell’ esondazione dei torrenti in provincia di Messina è antico ,ci ricordiamo dei morti di Messina dei primi anni 2000 a quelli del 2009 con i vari disastri del territorio e dell’ambiente determinati nel 2008-2009-2011 e ai più recenti di Lipari e oggi della nostra città.
Un problema trattato con superficialità,nonostante le richieste.
L'assessore Regionale al Territorio Croce ieri anche Commissario dello Stato per il dissesto idrogeologico è un Messinese ,la gente del nostro territorio punta molto sul suo interessamento e lo chiama alle sue responsabilità politiche e di governo.
Credo che non ci sia più tempo per cercare responsabilità pregresse, bisogna recuperare il tempo perduto, bisogna recuperare ciò che non si è fatto o non si è potuto fare durante la sua gestione commissariale per la nostra provincia.
La nostra Deputazione tutta deve allontanare egoismi personali e di partito e per l’interesse collettivo unirsi e chiedere al governo di Roma leggi obbiettivo per il risanamento e la messa insicurezza della nostra terra, per intervenire liberandosi da lacci e lacciuoli dei vincoli gravanti sul territorio.
Abbiamo visto e sperimentato che il Governatore Crocetta non è nelle condizioni di farlo, ma tutta la deputazione lo può fare ,i rappresentanti della gente di Sicilia lo possono richiedere,il parlamento Siciliano può chiedere a norma dello statuto ciò. Uniti si raggiungono gli obbiettivi,!
Bisogna superare competenze varie e mettere la gente nelle condizioni di svegliarsi al mattino per guardare la propria famiglia e il sole che ti illumina.
Il dissesto idrogeologico la pulizia e messa in sicurezza dei torrenti in Sicilia devono essere risolti, basta morti! basta distruzioni!
Tutto ciò, deve essere un imperativo categorico dell’assessore Croce distinguendosi da Crocetta e dai suoi sodali.
In questo Comune nei nostri uffici, decine di conferenze di servizio sono state fatte a cominciare dai primi dissesti idrogeologici della via manica dal 2008/2009/2011 a seguire ed ancora oggi.
E gli interventi realizzati sono stati tutti portati a termine a carico del bilancio comunale ,quindi dei Milazzesi.
Fiumi di parole scritti da vari Enti competenti ,dal Genio Civile alla Provincia, dall'Assessorato al Territorio all'Arpa,alla Protezione Civile Provinciale e Regionale e così via,ma ad oggi un centesimo di quanto richiesto negli anni e di ciò che è stato subito dalla gente non si è visto.
Danni incalcolabili alle strutture pubbliche, e al patrimonio comunale, ai privati, agli imprenditori del florovivaismo, agli agricoltori ai quali ad oggi non è stato riconosciuto nulla solo chiacchiere e promesse.
Ricordo ancora le proteste sollevate dal nostro Municipio al governo Prodi, quando nel 2007 con un atto improvvido dell'allora ministro dell'ambiente e territorio Pecoraro Scanio ,ritirava dal registro della Corte dei Conti Sez. di Roma, il decreto di finanziamento Ministeriale che riconosceva al Comune di Milazzo 3.900.000,00 euro per la messa in sicurezza del costone roccioso della manica e del Castello e 5.000.000,00 euro per le Saie che attraversano la città di Barcellona.
Questo sciagurato provvedimento ha fatto si, che ancora oggi non sì è potuto mettere in sicurezza il costone della manica, causando problemi al territorio e alla gente del capo, così come a seguito dell'esondazione dei torrenti che attraversano Barcellona nel 2011 le saie hanno allagato la città.
Diciamo ancora grazie a questi Signori!
Ciò che dico è tutto riscontrabile presso gli uffici.
Un governo Regionale che blatera e non esegue, che non concretizza, ed è notizia di oggi che dopo quasi sette anni si ricorda di cominciare gli interventi per mettere in sicurezza il territorio a Giampilieri, che conta i suoi 39 morti.
Noi siamo stati fino ad ora più fortunati,ma fino a quando?
Ecco cos’è la Regione di questi tempi il nulla,il vuoto!
Oggi è opportuno parlare solo delle cose che si possono subito fare e risolvere i problemi, non diamo spazio a prese di posizioni e a dichiarazioni avventate, non inauguriamo la stagione del tutti contro sulla tragedia consumata!

giovedì 2 luglio 2015

la "buona scuola" (di renzi) che ti ruba il futuro

Il governo Renzi approva il suo modello di "buona scuola".

L'ennesimo passo verso lo smantellamento della scuola pubblica è compiuto, nel silenzio generale e senza dibattiti preventivi. 
Il mondo della formazione si aziendalizza e il sapere diventa merce, mentendo intatti i punti deboli del comparto-scuola: strutture inadeguate, docenti impreparati e faziosi, tagli al personale, precarizzazione generale.

L'istruzione cessa di essere un diritto e diventa un prodotto da accompagnare alla massificazione in atto e al processo di riduzione dell'esistente alla logica del profitto e della produttività; un primo passo verso la creazione del consumatore di domani, privo di identità, di coscienza critica e di radici, di spunti vitali, solidali e comunitari.

Se questa è la "buona scuola", siamo fieri di essere quelli dell'ultimo banco.

L'istruzione cessa di essere un diritto e diventa un prodotto da accompagnare alla massificazione in atto e al processo di riduzione dell'esistente alla logica del profitto e della produttività; un primo passo verso la creazione del consumatore di domani, privo di identità, di coscienza critica e di radici, di spunti vitali, solidali e comunitari.
Se questa è la "buona scuola", siamo fieri di essere quelli dell'ultimo banco.

giovedì 16 aprile 2015

A Stefano e Virgilio Mattei. Per non dimenticare

Erano gli anni di Piombo, quelli ricordati come un periodo buoi della storia nazionale post Seconda guerra mondiale: attentati, violenza e omicidi. Tutto in nome di un’ideologia, di uno scontro tra fazioni politiche. La notte del 16 aprile 1973 quando diversi militanti del gruppo extraparlamentare di sinistra Potere Operaio (Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo) versarono diversi litri di benzina sulla porta di casa di Mario Mattei, il segretario della sezione del Movimento Sociale Italiano del quartiere Primavalle, nella periferia capitolina.

Immediatamente divampò l’incendio e l’appartamento andò a fuoco. Al suo interno c’era la famiglia Mattei, composta dalla madre Anna Maria, le figlie Antonella, Lucia e Silvia, i figli Giampaolo, Virgilio e Stefano e il padre Mario. La madre riuscì a fuggire dalla porta di casa insieme ai figli Antonella e Giampaolo (9 e 3 anni); Lucia (15 anni) si buttò dal balcone del secondo piano aiutata dal padre; Silvia (19 anni) si gettò dalla veranda e riportò solo qualche frattura, Sorte diversa toccò ai fratelliVirgilio e Stefano (22 e 8 anni), che morirono carbonizzati nel rogo di Primavalle. I due non riuscirono a gettarsi dalla finestra e la gente, insieme alla famiglia, assistette incredula alla tragedia.

Nel cortile uno striscione: “Brigata Tanas – guerra di classe – Morte ai fascisti – la sede del MSI – Mattei e Schiavoncino colpiti dalla giustizia proletaria“.
Le indagini sul rogo di Primavalle portaro a porre particolare attenzione nei confronti di alcuni esponenti di movimenti collegati al Potere Operaio, che replicò repentinamente parlando di una montatura creata ad arte, “il risultato di un meccanismo di provocazione premeditato a lungo e ad alto livello, tipo «strage di stato», «Primavalle» è piuttosto una trama costruita affannosamente, a «caldo» da polizia e magistratura, un modo di sfruttare un’occasione per trasformare un “banale incidente” o un oscuro episodio – “nato e sviluppatosi nel vermiciaio della sezione fascista del quartiere”. Due giorni dopo Achille Lollo fu arrestato e, insieme agli altri due imputati, fu rinviato a giudizio.

Ma non tutti andarono contro quelli che erano ritenuti i presunti responsabili del rogo di Primavalle e ben presto si scatenò l’opinione pubblica: vari i giornali e gli intellettuali che si schierarono dalla loro parte. Durante il processo ci furono anche delle manifestazioni per chiedere il loro proscioglimento. Durante il processo di primo grado si ipotizzò la strage e l’accus chiese l’ergastolo per i tre imputati, ma di fatto vennero assolti per mancanza di prove. Nel processo di secondo grado furono condannati a 18 anni di carcere per omicidio premeditato, ma Achille Lollo fuggì in Sud America, mentre Manlio Grillo fuggì in Nicaragua e di Marino Clavo si persero le tracce.

Dopo la prescrizione, la famiglia Mattei, in anni più recenti, la Procura di Roma ha chiesto la riapertura del caso grazie a informazioni ottenute dagli stessi imputati, che hanno permesso di ipotizzare il reato di strage. Nel 2005 la famiglia Mattei ha denunciato Lanfranco Pace, Valerio Morucci e Franco Piperno come mandanti dell’attentato e lo stesso Lollo confessò la responsabilità nel 2005, affermando però di non aver materialmente incendiato la porta: “Non volevamo provocare l’incendio, né uccidere. Doveva essere un’azione dimostrativa, come altre che avevamo fatto contro i fascisti a Primavalle. Ma al momento di montare l’innesco, mi si ruppe il preservativo… La Lilli, così si chiamava all’epoca la bomba artigianale, si costruiva con una tanica, un po’ di benzina — due o tre litri — e i due preservativi servivano per l’acido solforico, il diserbante e lo zucchero. L’innesco doveva far esplodere i gas della benzina. Se tutto avesse funzionato, avremmo provocato un botto e annerito la porta dell’appartamento. Invece io sbaglio, l’acido mi cola tra le mani e scappiamo, lasciando la tanica inesplosa. Da quel giorno ho il dubbio su cosa sia davvero successo dopo. Non abbiamo mai pensato di far scivolare la benzina sotto la porta per dar fuoco all’appartamento. Mai. Tutte le perizie ci hanno dato ragione, tra l’altro“.
Ma il rogo di Primavalle continua a bruciare anche oggi dato che i mandanti e i responsabili sono a piede libero o latitanti.

giovedì 12 marzo 2015

12 Marzo 1980: In ricordo di Angelo Mancia, caduto per l'Italia


[..] I terroristi, ancora della Volante rossa, attendono sotto casa sua, al quartiere Talenti, il giovane Angelo Mancia, attivista molto conosciuto a Roma, dipendente del Secolo d’Italia, Lo aspettano tutta la notte a bordo di un pulmino parcheggiato nei pressi. Quando Angelo si avvicina al motorino per andare a lavorare, verso le otto e mezzo, i terroristi gli sparano. Angelo tenta di tornare indietro, ma è troppo tardi: lo finiscono con un colpo alla nuca, nello stile consueto della vera Volante rossa, quella che operò dopo la guerra nel Nord Italia, assassinando avversari politici e gente comune, tra cui il giornalista fascista Franco De Agazio. I killer fuggono a piedi per poi salire su una Mini Minor rossa. Di loro non fu mai più trovata nessuna traccia. Nel 1951 gli assassini della Volante rossa partigiana furono condannati all’ergastolo, ma erano già tutti latitanti, e di loro non si seppe più nulla. Enorme la commozione nella comunità missina, i parlamentari choiedono agli inquirenti e allo Stato di fare il loro dovere e di difendere i cittadini. Ma la violenza non si ferma: il giorno dopo, il 13 marzo, una bomba esplode davanti casa di Mario Pucci, giornalista del Secolo d’Italia, il cui figlio è un attivo militante della sezione Flaminio. Imponenti funerali di Angelo Mancia in piazza Esedra, alla presenza di tutto il Msi. I giornali, tutti i  giornali, continuano a infangare Angelo Mancia definendolo un picchiatore, un delinquente e altro, tanto che il Secolo è costretto a pubblicare il certificato penale dal quale risulta che Mancia era incensurato. Capitava anche questo allora.
Ma l’offensiva comunista prosegue, allora uccidere un fascista non era reato: altri bar assaltati, altre sezioni distrutte, tra cui la Prati, la cui esplosione danneggia anche lo stabile. La comunità missina serra i ranghi e non cede, sopporta l’ondata di terrorismo senza precedenti e denuncia l’esistenza di un piano fatto a tavolino, perché è impossibile che lo Stato abbia perso del tutto il controllo della sua capitale, così come è impossibile che tanta gente abbia familiarità e disponibilità di esplosivi e armi. Almirante, Marchio e gli altri dirigenti iniziano visite in tutte le sezioni romane in una specie di controffensiva culturale e pacifica. Qualche giorno dopo, nella federazione del Msi di Roma, Mancia è ricordato con le parole di Orazio: “Non morirò del tutto”, e queste parole valgono per tutti i giovani morti per le loro idee.
di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

sabato 28 febbraio 2015

Quarant’anni fa l’omicidio di Mantakas, ennesima vittima dell’intolleranza comunista

28 febbraio 2015. I gravissimi scontri che l’estrema sinistra sta scatenando in queste ore a Roma, per impedire la libertà di parola, ci riportano alla mente gli anni Settanta, esattamente il 1975, quando in questo giorno teppisti criminali dei collettivi comunisti tentavano nello stesso modo di ostacolare la libertà di parola e di espressione ai giovani missini. Quel giorno uccisero un giovane greco, Mikis Mantakas, venuto da Atene per studiare Medicina. Era andato inizialmente all’ateneo di Bologna, ma aveva subito un’aggressione dai gruppettari di sinistra per le sue simpatie missine ed era stato quaranta giorni in ospedale. Venuto a Roma, aveva iniziato a frequentare la sede del Fuan di via Siena, l’organizzazione universitaria missina. E qui aveva stretto amicizia con molti giovani che la pensavano come lui. Quel giorno aveva deciso di andare al tribunale di piazzale Clodio per seguire il processo a Lollo, Clavo e Grillo, militanti di Potere Operaio che avevano bruciato vivi i fratelli Mattei a Primavalle per odio politico. Le notizie seguenti sono state tratte nel volume di inchiesta “Da Primavalle a via Ottaviano”, realizzato dai giornalisti del Secolo d’Italia Gianni Amati e Roberto Rosseti. Il 24 inizia al tribunale penale di Roma a piazzale Clodio il processo Primavalle. SoloAchille Lollo è in carcere, mentre Marino Clavo e Manlio Grillo sono latitanti. Da due anni sinistra, giornali e tv scatenano la piazza contro il processo e contro il Msi. Si distingue il collettivo di via del Volsci, ossia i Comitati autonomi operai, organismo inserito nello schieramento formato dai collettivi del Policlinico, quello dell’Enel, dal collettivo di Fisica, da Potere Operaio e da Avanguardia Comunista, nella quale erano confluiti i gruppi Lotta Comunista e Viva il Comunismo. Sin dalle prime ore della mattina del 24 febbraio gli extraparlamentari tentano di venire a contatto con i giovani di destra che sono fuori dal tribunale. Alle 10,30 il Collettivo di Fisica guida il primo corteo che lancia sassi e sei molotov contro la Celere, che carica e lo disperde. Alle 14 finisce l’udienza. Il bilancio è tre poliziotti, un giovane di destra e due passanti feriti. In mattinata muore per infarto il dirigente della polizia Pietro Scrofana, vittima dimenticata del dovere e dei comunisti.

Le sinistre mobilitate da tutta Italia per il processo Primavalle. Il 25 Prosegue la mobilitazione delle sinistre da tutta Italia. Alle 8,30 i comunisti cercano di vietare l’ingresso ai fascisti in tribunale e si accende uno scontro, subito sedato dalla polizia. Dentro l’aula tafferugli e grida “Lollo libero”, ma il tumulto viene sedato con una certa energia dall’allora maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, che qualche anno dopo sarà assassinato dalle Brigate Rosse. Fuori dal tribunale proseguono gli scontri tra gruppettari e celerini. Il giorno successivo, il 26, Lotta continua e i collettivi invitano tutti ad andare venerdì 28 a piazzale Clodio. Il 27 Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori (di Avanguardia Operaia) pubblicano le foto dei missini davanti a piazzale Clodio e invitano ad andare il giorno dopo davanti al tribunale. E siamo arrivati al 28 febbraio. Già dalle sei di mattina arrivano davanti al tribunale tutti i collettivi di Roma e anche da fuori Roma equipaggiati per la guerriglia urbana. A quell’ora ancora non ci sono le forze dell’ordine, solo una jeep della Celere. Alle 6,30 quattro ragazzi del Fronte parcheggiano la macchina e si avviano verso il tribunale, ma vengono affrontati da un gruppo di autonomi armati che controllavano tutti gli accessi a piazzale Clodio. Riconosciuto il capo attivisti del FdG, uno degli aggressori gli spara tre colpi calibro 7,65, ma senza colpirlo. I missini concordano sul fatto che gli aggressori fossero toscani. Poi si saprà che i compagni erano venuti da tutta Italia per difendere Lollo, che aveva bruciato un bambino e un giovane di 22 anni. Alle 6,45, i giovani di destra si incolonnano nelle transenne per entrare in tribunale, ma improvvisamente, da tre parti diverse, arrivano un centinaio di gruppettari che iniziano a bastonare i giovani anticomunisti, uno dei quali riporta la rottura di un braccio col quale cercava di ripararsi. Un altro missino viene colpito da un colpo di pistola alla gamba e altri vengono feriti. I missini riescono a entrare in tribunale e a chiudere le porte. I compagni allora iniziano una sassaiola che manda in frantumi i vetri dei primi due piani del tribunale. Prima delle sette del mattino gli extraparlamentari hanno già sparato due volte. Nell’antisala del tribunale c’è uno scontro tra un giovane del Fronte e un extraparlamentare, che risulterà essere Alvaro Lojacono. In suo favore interviene il parlamentare comunista Umberto Terracini, che fa parte del collegio di difesa degli imputati per Primavalle. Verso le 11,30 si accendono incidenti in tutto il quartiere, e in particolare alcune centinaia di attivisti comunisti ingaggiano scontri con la polizia. Contestualmente un’altra ottantina di attivisti si disperde nelle strade laterali dirigendosi verso piazza Risorgimento dove c’è la sezione del Msi, clamorosamente non sorvegliata. Nel frattempo viene assaltata con bombe molotov la Rai di via Teulada, invece ben vigilata dalle forze dell’ordine. Seguono due ore di guerriglia urbana in tutta la zona. Alle 12,45 i militanti di via del Volsci individuano e assaltano un’auto civetta della polizia: la macchina è colpita con spranghe, una molotov la incendia e i tre occupanti vengono massacrati dai comunisti. Arriva un altro poliziotto, di nome Gigante, su un’altra vettura. Scende con la pistola in pugno per salvare i suoi colleghi. I compagni gli puntano addosso sei o sette pistole e riescono ad allontanarsi. Successivamente questo gruppo di fuoco da via Campanella, dove è successo il fatto, va a via Ottaviano e alle 13,15 arriva nei pressi della sede del Msi in piazza Risorgimento. Sono un centinaio, armati, mentre i missini poco più di una ventina, disarmati. Le forze dell’ordine sono assenti, i missini sono in sede, e nessuno si avvede dell’avvicinamento. Partono le bottiglie incendiarie che alzano un muro di fiamme tra l’ingresso della sezione e il portone dello stabile.

Centinaia di colpi di pistola contro i giovani missini. Nel trambusto vengono poi sparate revolverate contro i missini, una decina dei quali va verso l’angolo tra via Ottaviano e piazza Risorgimento: ma i gruppettari, tra cui Lojacono, li aspettavano e cinque pistole aprono il fuoco contro di loro. Le fonti ufficiali non hanno mai rivelato quanti colpi furono esplosi, ma testimoni affermano che furono centinaia e sparati da almeno cinque persone nella posizione del tiratore scelto, con una mano dietro la schiena e le gambe leggermente piegate. Per proteggersi la fuga lanciano altre bottiglie molotov. A quel punto i missini si accorgono che uno di loro è ferito, e gravemente, lo soccorrono, lo trascinano dentro il portone, ma avviene il secondo assalto dei collettivi. I missini si difendono con un martello, un manico di piccone e una lanciarazzi, che fa sospettare ai compagni una trappola e che li induce a ritirarsi. I pochi missini comunque riescono a respingerli, sparando con la lanciarazzi, e a chiudere il portone, nascondendo Mantakas, che nel frattempo era stato lambito dal fuoco di una molotov e ormai privo di conoscenza, dentro un box privato nel cortile dello stabile. Con lui, a vegliarlo, il giovane coraggioso Stefano Sabatini, della sezione Prati, che chiude dall’interno la porta del box, e Paolo Signorelli, aggredito insieme con il figlio appena qualche giorno prima in corso Trieste. Frattanto gli aggressori, servendosi anche di un segnale stradale divelto, sfondano il portone: i giovani missini si rinchiudono nella sezione. I collettivi arrivano nel cortiletto, sentono il rumore della porta del box che si chiude e sparano contro il box accanto a quello dove era Mantakas, pensando che i missini fossero lì, poiché era il più vicino al portone. Nel frattempo arrivano altri cinque o sei missini che vengono fatti segno da colpi di pistola: il 17enne Fabio Rolli è ferito al fianco e i comunisti ne approfittano per fuggire, non senza aver ferito un passante in moto che viene colpito al polmone. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’attacco armato alla sede e né polizia né carabinieri si sono fatti vedere. Due del commando, armati, presso piazza Risorgimento sparano contro il poliziotto Di Iorio, del commissariato Borgo, che aveva tentato di fermarli, ma non lo colpiscono. Fuggono e si dividono, e Di Iorio ne segue uno che si infila in un portone, per uscirne qualche minuto dopo disarmato e senza soprabito. Il poliziotto lo ferma, e viene bersagliato da colpi da parte dell’altro fuggitivo, che poi si allontana rapidamente. La polizia trova nell’androne il soprabito con una pistola ancora calda: è Fabrizio Panzieri, 26 anni, ex Potere Operaio ora Avanguardia Comunista, vicino ai collettivi di Fisica e a via del Volsci. A piazza Risorgimento arrivano i soccorsi, dieci minuti dopo la fine dell’assalto. Un’ambulanza dei Vigili del fuoco carica Mantakas e lo porta al Santo Spirito da dove sarà trasferito al San Camillo e sottoposto a una difficilissima operazione. Ma dopo l’intervento, alle 18,30, il giovane cessa di vivere. Altri cinque minuti dopo, dalla fine dell’assalto è passato oltre un quarto d’ora, arrivano le prime volanti e altre ambulanze. Inizia allora uno spettacolare e inutile carosello delle Alfa Romeo delle forze dell’ordine in piazza Risorgimento, che aumenta la confusione generale senza approdare a nulla. Inspiegabilmente il ministero degli Interni tenta di minimizzare la situazione, smentito però più volte dalle notizie dell’Ansa. Il giorno dopo, 1° marzo, tardivamente, si inviano a piazzale Clodio per la terza udienza mille tutori dell’ordine, mentre le indiscrezioni sugli arresti si moltiplicano. Si apprende il nome di Lojacono come secondo indagato, dopo Panzieri. Il 2 si apprende che Mantakas, Rolli e il passante sono stati colpiti da tre calibri diversi. Dai fori nelle vetrine e nelle auto poi si capisce che almeno cinque pistole diverse hanno sparato a piazza Risorgimento. Gli inquirenti affermano che le persone coinvolte nell’inchiesta sono tre, ma del terzo poi non si sentirà mai più parlare. Anche dei cinque arrestati per aggressione alle forze dell’ordine e lancio di bottiglie incendiarie, non si parlerà più. Tra l’altro, diverse testimonianze concordano sul fatto che l’aggressione degli extraparlamentari è stata tutta ripresa da uno di loro con una cinepresa, sparatoria compresa. Lo stesso accadde in un assalto alla sezione Monte Mario del Msi. Chi sa dove sono oggi quei filmini?

Disordini anche durante i funerali. Il 3 marzo si registrano gravi violenze a largo Argentina durante la cerimonia funebre per Mantakas. A Santa Maria sopra Minerva dove c’è la cerimonia in memoria dello studente greco, confluiscono migliaia di missini, e nelle zone circostanti extraparlamentari di sinistra girano in cerca dello scontro fisico. Dopo le 16, l’auto con a bordo Teodoro Buontempo, un altro dirigente del Fronte e una ragazza, viene individuata da esponenti del Pdup-Manifesto che la assaltano a colpi di spranga e martello infrangendone i vetri. Tornano sull’auto e cercano di fuggire sotto una pioggia di sassi, ma il traffico non lo consente. L’autista è colpito da una sprangata alla testa: le urla della gente e i clacson delle macchine inducono gli aggressori e indietreggiare verso via Monterone, sede del Pdup, sparando però 5 o 6 colpi di pistola contro i missini. Alle 22 perquisizione a via del Volsci, dove viene arrestato un extraparlamentare armato. Il mandato di perquisizione era già pronto dal 28 febbraio, ma venne eseguito solo dopo tre giorni. Davanti al liceo Plinio verso piazza della Croce Rossa compare la scritta “10, 100, 1000 Mantakas”. Emessi due mandati di cattura per Panzieri e Lojacono per concorso in omicidio e tentativo di omicidio. Almeno tre calibri diversi nella sparatoria, ma solo due indagati. Del terzo, che si era detto appartenente a via del Volsci, nessuna notizia. Nei giorni successivi via dei Volsci fa uscire volantini dal tono violento nei confronti sia dei missini sia delle forze dell’ordine, incitando alla giustizia proletaria “distruggendo le carogne nere”. La stampa dell’allora regime, guidata dal solito Messaggero, cerca imbastire una pista nera anche per Mantakas, ma il tentativo si infrange miseramente. Paese sera manda persino un volenteroso inviato in Grecia, che ovviamente non riesce a scoprire nulla. Oggi il bar Penny di via Pavia è chiuso da anni, il Fuan non c’è più, Mantakas è morto da quarant’anni. Ma l’odio politico della sinistra estrema resiste ancora: ne abbiamo la prova proprio in queste ore.


di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

sabato 21 febbraio 2015

106 anni fa il Manifesto di Marinetti che diede vita al Futurismo

Il 20 febbraio 1909 Filippo Tommaso Marinetti pubblicava sulle pagine del giornale francese Le Figaro ilManifesto del Futurimo. “Noi vogliamo cantare l’amor del  pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità…”: sono le prime parole di esordio del più importante movimento iconoclasta del secolo scorso. Un movimento rivoluzionario, di rottura con il passato, capace di imprimere una svolta nell’arte e nella cultura, interpretando la domanda di modernità che saliva da una società in rapida trasformazione. Un movimento che si fece interprete di quell’ansia di novità che si respirava in tutti i campi del sapere e che annovererà tra le sue fila, oltre a Marinetti, artisti e intellettuali come Boccioni, Carrà, Balla, Prampolini, Palazzeschi. Personalità audaci, anticonformiste, di forte tempra e di acuta intelligenza. Una avanguardia artistica. L’ultimo significativo movimento culturale del XX secolo che l’Italia abbia saputo offrire al mondo.

Futurismo nell’architettura.Il Futurismo riuscì, con la sua straordinaria ventata di innovazione e di dinamismo, a contagiare altri movimenti artistici che si svilupparono in altri Paesi, come Russia, Francia, Stati Uniti e Asia, improntando di sé ogni forma di espressione artistica, dalla pittura alla scultura, alla letteratura, all’architettura, alla musica , al teatro, alla danza, al cinema e, finanche, alla gastronomia. L’urbanistica delle città fu studiata e immaginata in una dimensione futura. I progetti creati daAntonio Sant’Elia ruotavano intorno all’idea di movimento. Trasporti e grandi strutture ne esaltavano la funzione con incredibile visione anticipatrice rispetto alle trasformazioni che sarebbero avvenute molti anni dopo nella vita delle città. Il Futurismo, in ogni ambito, è un cantiere aperto. Una utopia che si rinnova nelle linee, nei sogni, nella creatività di menti aperte alle sfide, menti alla ricerca costante di nuove sfide, scevre da condizionamenti formali e tecnici. Eppure in grado di anticipare temi, visioni, pulsioni, tendenze che di lì a non molto si sarebbero affermate come effetto di un pensiero e di una cultura moderni.

Futurismo e fascismo. Nato in un’epoca di transizione, il Futurismo riuscì, dunque, a fornire una risposta straordinariamente unitaria alla velocità con cui si stava trasformando la società. L’avvento del telegrafo senza fili e le radio che annullavano le distanze con le prime connessioni intercontinentali; il dirigibile e l’aeroplano;  i primi tubi al neon che illuminano le città e le automobili che aumentano di giorno in giorno, la cui produzione sale vertiginosamente grazie alla catena di montaggio. Cambia il modello di vita. Usi e costumi assumono nuove forme. Lo spazio è luogo di mutamenti di colore, di forme, di vibrazioni incessanti. Tutto è in movimento. Anche rispetto alla guerra,  i Futuristi si posero come partecipi attori di cambiamento. Rivoluzionari a tutto tondo. Fino in fondo, per cambiare e innovare. Avanguardie rivoluzionarie e movimento iconoclasta, appunto, anticipatori del fascismo. Spiriti liberi da condizionamenti. Portatori di idee nuove. Non di ideologismi.


di Silvano Moffa (secoloditalia.it)

martedì 10 febbraio 2015

#10Febbraio. Giornata in ricordo dei martiri delle Foibe.

10 Febbraio. 

Oggi abbiamo deciso di chiudere i vostri libri di storia e di aprire la nostra memoria al ricordo dell'eccidio più taciuto e nascosto dal dopo guerra ad oggi.

Oggi abbiamo deciso di ricordare chi non si è arreso, chi ha perso la propria casa, chi ha perso la propria vita per difendere e rivendicare con orgoglio la propria "Italianità"

Oggi è il giorno del ricordo dei martiri delle Foibe e degli esuli Istriani, dalmati e giuliani.

Oggi è il giorno nel quale rivendichiamo con fierezza l'orgoglio di essere Italiani.





I Ragazzi di Casaggì



lunedì 9 febbraio 2015

Paolo Di Nella, 32 anni senza giustizia.

Sono passati 32 anni dalla morte di Paolo Di Nella, l’attivista che perse la vita dopo sette giorni di coma causati da un’aggressione subìta la sera del 2 febbraio 1983.
Paolo Di Nella era un militante del Fronte della Gioventù e proprio la giornata del 2 febbraio l’aveva spesa tra organizzazione e affissioni di quella che era diventata la sua nuova iniziativa politica: restituire il parco di Villa Chigi ai cittadini del suo quartiere per farlo tramutare in un centro sociale e culturale. Durante la giornata fu costretto a interrompere l’affissione, ma decise di ricominciare dopo qualche ora e si fece aiutare da Daniela Bertani. In tarda serata, sempre in compagnia della Bertani che lo aspettava in auto, Paolo Di Nella iniziò ad attaccare i manifesti a Piazza Gondar quando improvvisamente due ragazzi, entrambi vicino alla fermata dell’autobus, lo attaccarono alle spalle, lo colpirono in testa con un oggetto rimasto ignoto e si diedero alla fuga verso via Lago di Tana.
Nonostante la ferita, Di Nella decise di tornare a casa, ma proprio lì i genitori iniziarono a sentire i suoi lamenti e decisero di chiamare l’ambulanza che poi l’avrebbe trasportato al Policlinico Umberto I, dove il ragazzo giunse in coma.
In quell’arco di tempo, precisamente il 5 febbraio, arrivò al capezzale del giovane militante anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che ricevette la triste notizia: il coma di Paolo Di Nella era irreversibile. Erano le 20.05 del 9 febbraio, sette giorni dopo l’aggressione, quando Paolo Di Nella morì senza mai aver riaperto gli occhi.
Una notizia che fece scalpore in quelli che vengono ricordati come gli “Anni di piombo”, ma questo non portò a risultati positivi per le indagini, che furono tutt’altro che efficienti.
Cinque giorni dopo, grazie a una telefonata anonima, venne trovato un volantino firmato Autonomia Operaia nel quale si rivendicava l’agguato nei confronti di Di Nella e nella lista dei sospettati finirono Luca Baldassarre e Corrado Quarra. I due riuscino a fuggire inizialmente, ma Quarra venne fermato mesi dopo, il 2 agosto in piazza Risorgimento e due giorni dopo Daniela Bertani lo riconobbe come l’aggressore dell’amico morto. Ma quando la ragazza, il 4 novembre, confuse Baldassarre con un altro indiziato, il giudice, incredibilmente, la ritenne poco attendibile e per questo fece scarcerare Quarra, che venne prosciolto il 21 aprile 1986, data in cui si chiusero le indagini.
A trent’anni dalla morte di Paolo di Nella, Gianni Alemanno (al tempo sindaco di Roma), amico del militante, presentò un dossier per far emergere alcuni aspetti lacunosi e anomali delleindagini svolte e riprese i quesiti di Corrado Augias, che espresse i suoi dubbi durante la trasmissione Telefono giallo: Vitaliano Calabria, il giudice istruttore che si occupò del decreto di scarcerazione di Quarra, affermò che Roberto Ferretti, il giovane identificato erroneamente dalla Bertani durante il secondo identikit, fu portato lì per volontà della difesa di Baldassare, ma questo si rivelò falso dato che lo stesso ragazzo rivelò, in seguito, di essere stato presente per volere della difesa di Quarra (i due si somigliavano). Ecco allora che Augias parlò di omissioni da parte del giudice e la stessa Bertani affermò di essere convinta di dover riconoscere Quarra e non Baldassare.
Ogni anno, il 9 febbraio, paolo Di Nella viene ricordato attraverso una veglia e una manifestazione che si svolgono a piazza Gondar, dove è stato anche realizzato un murales in sua memoria con la scritta “Paolo Vive”. Ma ad oggi la morte di Paolo Di Nella ancora non ha colpevoli.
da newsgo.it

venerdì 6 febbraio 2015

In morte di Robert Brasillach “poeta della gioia di vivere”

brasillachHa ancora un senso ricordare Robert Brasillach, a settant’anni dalla sua tragica morte, avvenuta il 6 febbraio 1945, sotto i colpi di un plotone d’esecuzione? Che cosa ci possono dire, oggi, la sua vita e la sua morte, intense eppure lontane, come le sue ultime poesie? Quali emozioni può evocare ad un giovane di questi anni, ad un ragazzo della “classe 1995”?
Rischia di essere fuorviante parlare, oggi, di Brasillach, rievocandone la fine emblematica, che lo ha trasformato nel simbolo della generazione dell’epurazione e della proscrizione politica, dopo averlo segnato con il marchio infamante del “collaborazionismo” con i tedeschi.
Strano destino quello di Robert Brasillach, sguardo da bambino, gioia di vivere, rapito dall’esempio dei giovani avanguardisti incontrati a Venezia, che cantano e gridano sotto “il più bel sole del mondo”, e poi costretto a rispondere di “alto tradimento” nei confronti della Patria, amata e cantata con dolore nei versi di “Il mio Paese mi fa male” e in “Testamento di un condannato”.
Un Brasillach “propagandista” – come affermava l’accusa ? O piuttosto un Brasillach coerente con se stesso, con la sua “visione della vita e del mondo” ? Questo ci dicono le sue opere complete, raccolte, a partire dal 1963, da Mauriche Bardéche . Dodici volumi di seicento pagine ciascuna: poesie e romanzi, saggi storici e di critica letteraria, articoli giornalistici e traduzioni. Il “martire di Fresnes”, la sua prigione, è questo: intellettuale di grandi orizzonti ed insieme simbolo di un’Europa lacerata e divisa da una guerra militare e politica che è stata – non dimentichiamolo mai – guerra civile di europei contro europei.
Nei giorni che seguirono la sua condanna , una petizione di famosi intellettuali, tra i quali Paul Valéry, Paul Claudel, François Mauriac, Albert Camus, Jean Cocteau, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier e tanti altri implorò al generale De Gaulle la grazia per il condannato a morte. La ragione di Stato prevalse sulle ragioni dello Spirito e della Cultura.
Come ha scritto Mauriche Bardèche: “… gli avversari che s’irrigidiscono, in un atteggiamento d’intransigenza, provano l’intima speranza che si dimentichi quel giorno della loro vittoria: che si faccia come se Robert Brasillach non sia mai esistito”.
Anche a destra – non sembri un paradosso – Brasillach ha patito l’oblio. Per ragioni ovviamente diverse da quelle dei suoi avversari. Troppo “lugubri” e privi di “gioia di vivere”, certi epigoni del neofascismo.
Si chiedeva, negli Anni Sessanta del ‘900, Giano Accame: “Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità. Confesso: non riesco a leggerlo senza un senso di disagio; solo i suoi scritti dal carcere mi risultano sopportabili. Il suo ottimismo, la sua gioia di vivere oggi sono irritanti per le ragioni su cui si fondavano. (…) Con un po’ di vergogna al fondo di noi stessi ci ritroviamo adesso con lo spettro di Robert Brasillach, illuminato ancora con pallida luce dai nostri sorrisi incoscienti, dai nostri giuramenti mancati, dalle nostre canzoni, dai nostri fez neri con il fiocco…”.
Archiviata l’epoca dei “fez neri con il fiocco” – evocati da Accame – è il momento di tornare a guardare a Brasillach, cercando di cogliere il senso autentico della sua esperienza personale e politica, comune a tanti europei del tempo, esempio di ottimismo, di “gioia di vivere”, di speranza per l ’avvenire. Allora ricordare Brasillach avrà un senso.
di Mario Bozzi Sentieri (barbadillo.it)

lunedì 2 febbraio 2015

L’attualità di Berto Ricci? L’eresia visionaria dell’Italia imperiale

Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino). La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori, incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.




La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava “unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure “Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come “un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
La parte più viva del suo pensiero politico è raccolta ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione, impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine, consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche, l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti. Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà. Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna “turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come “maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale” prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo”.
di Michele De Feudis (barbadillo.it)

venerdì 30 gennaio 2015

Accadde Oggi: la strage di Derry "Bloody Sunday"

La manifestazione del 30 gennaio 1972 era stata indetta dalla Northern Ireland Civil Rights Association per protestare contro le norme speciali repressive del governo unionista, fra cui una delle più pesanti era quella che prevedeva l’internment, ossia la possibilità per le forze di polizia di imprigionare una persona a tempo indeterminato e senza processo, tanto che in quel periodo centinaia di nordirlandesi si trovavano in carcere senza alcuna prospettiva di essere rinviati a giudizio o rilasciati. La manifestazione però non era autorizzata e i paracadutisti, con l’ordine di disperdere i manifestanti, aprirono inspiegabilmente il fuoco. Chi sparò per primo? La commissione Widgery, subito varata da Londra, disse che i colpi erano venuti dalla folla. Non era vero e quel verdetto fu ritrattato. Allora si disse che erano state lanciate bombe coi chiodi verso i paracadutisti, ma anche questa tesi fu subito smentita. Fu una carneficina. Morirono in 14. Otto avevano meno di 23 anni, quasi tutti stavano fuggendo o aiutando altri feriti, e alcuni addirittura furono uccisi mentre sventolavano un fazzoletto bianco o gridavano “non sparate!” con le braccia alzate.

Il Bloody Sunday provocò lo scioglimento del parlamento di Belfast, l’incendio dell’ambasciata britannica a Dublino e in Irlanda del Nord un’ondata di adesioni all’Ira. Nacque così la lunga guerra civile, che tra le sue conseguenze ebbe anche la morte per sciopero della fame di Bobby Sands. Di recente il primo ministro inglese Cameron ha reso pubblico (presentando le scuse ufficiali del governo di Londra) l’esito dell’inchiesta sui fatti del 30 gennaio 1972: i civili che morirono quel giorno erano tutti innocenti, non armati e non rappresentavano alcuna minaccia per i soldati, che intervennero seguendo un ordine sbagliato e che furono indubbiamente i primi a sparare.

Franco Lucenti (tratto da Senza Soste)

lunedì 19 gennaio 2015

19 Gennaio 1969. In ricordo di Jan Palach, martire europeo per la libertà

Nacque a Praga, in Cecoslovacchia, l’11 agosto del 1948. si iscrisse alla facoltà di Filosofia presso l’Università Carlo di Praga, dove assistette con interesse alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Nel giro di pochi mesi, però, quella esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell’Unione Sovietica e degli altri paesi che aderivano al Patto di Varsavia. Praga viveva il quinto mese di occupazione militare e il numero degli esuli cresceva insieme alla rassegnazione.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio del 1969, con il freddo invernale e le luci che si smorzavano sulle mura gotiche del castello di Hradcany e su quelle barocche del quartiere di Mala Strana, Jan Palach si recò in Piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e appiccò il fuoco con un fiammifero.
Dopo tre giorni di agonia, restando sempre ludico, il suo cuore smise di battere. Ai medici disse di aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam tra i quali il caso di Thích Qu?ng Ð?c, attirando l’attenzione mondiale. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono circa seicento mila persone, provenienti da tutto il Paese. Jan Palach, prima di essere avvolto dalle fiamme, decise di non bruciare gli appunti e gli articoli in quanto rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali. Tutto il materiale cartaceo fu chiuso in un sacco a  tracollo e tenuto distante dalle fiamme.
Tra le dichiarazioni trovate nei quaderni a righe da scolaro, Jan Palach, parlava di un’organizzazione che esprimeva la protesta e cercava di far scuotere la coscienza del popolo afflitto ormai dalla disperazione e dalla rassegnazione. L’obiettivo era di ottenere l’abolizione della censura e la proibizione del Regime Comunista.
Non fu mai accertata la vera esistenza dell’organizzazione descritta da Jan Palach, ma grazie al suo sacrificio estremo la sua figura venne considerata dagli antisovietici come un eroe e un martire. In città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche la Chiesa Cattolica, in persona del teologo Zverina, lo difese. Quel clima portò a drammatiche conseguenze con la morte di altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajic, che seguirono il suo esempio nel silenzio più totale degli organi di informazione controllati dalle forze di invasione.
Dopo il crollo del Comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la figura di Jan Palach fu rivalutata, nel 1990, dal Presidente Vàclav Havel che gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà. L’anno precedente, invece, l’Amministrazione Comunale di Praga decise di intitolare, alla giovane vittima, il nome della Piazza fino ad allora dedicata all’Armata Rossa. Jan Palach rappresentò non solo un martire ma anche un simbolo nella lotta di una generazione contro la menzogna, la falsità e la crudeltà di un Regime che, nel nome dell’uguaglianza e della libertà, annullava l’uomo e la sua dignità dai valori e dalle tradizioni per soddisfare i bisogni di pochi. Non fu un suicidio per disperazione ma una azione offensiva, un gesto di un soldato che sacrificava la propria vita per gli altri, esortandoli a combattere.

sabato 10 gennaio 2015

Ad Alberto e Stefano


Gli anniversari degli eccidi più feroci diventavano, in quegli anni allucinanti, altrettanti regolari appuntamenti con la morte. Era già successo a Milano, con Enrico Pedenovi ucciso ad un anno dalla morte di Sergio Ramelli. Così, anche il 10 gennaio 1979, ad un anno dalla strage di via Acca Larentia, per Roma è una giornata di terrore e per i camerati un'altra giornata di lutto. Lo scenario è quello della repressione: ogni manifestazione è vietata, tutte le sezioni sono blindate e i responsabili "diffidati". La sinistra mobilitata in presidi armati contro "le provocazioni". 
I giovani di destra impediti a manifestare si ritrovano in cortei spontanei che cercano di convergere su via Acca Larentia. La Questura interviene, come sempre quando si tratta di manifestazioni di destra, in maniera pesantissima. Ne nascono scontri, tafferugli, inseguimenti. Durante uno di questi uno studente del Fronte, Alberto Giaquinto, 17 anni, viene colpito alla testa da un proiettile esploso, a distanza ravvicinata, da un agente in borghese: Alessio Speranza. E qui inizia il giallo infamante che, chi ha vissuto quegli anni, ricorderà benissimo. 

La sera il telegiornale della Rai enfatizza gli scontri, esattamente con la stessa energia con la quale minimizzava le violenze di sinistra, dando ampio risalto alle immagini di un'insegna della Democrazia Cristiana bruciata... Quindi riferisce che "uno degli assaltatori" della sezione DC, armato di pistola, era stato affrontato da un agente di polizia che lo aveva colpito, ovviamente per legittima difesa. Le parole del commentatore sono accompagnate da un filmato del luogo in cui Giaquinto è stato colpito e la telecamera si sofferma anche su una pistola di grosso calibro lasciata a terra. "Questa è l'arma che impugnava il missino" affermano i solerti giornalisti cui non sembra vero di poter additare al pubblico la "violenza fascista". 

Ma quella non era la verità. Giaquinto non era armato e non stava assalendo nessuno. Per anni la famiglia, gli avvocati, il partito, nonostante le potenti omertà e le coperture conniventi, denunciarono i responsabili di quello che appariva un autentico omicidio. Solo al processo, alcuni anni dopo, venne fuori la verità. Si scoprì che, contrariamente a quanto affermato nei verbali, Alberto Giaquinto non era stato colpito alla fronte, bensì alla nuca, quindi mentre fuggiva e non mentre attaccava. Ma soprattutto che fine aveva fatto la famosa pistola, mostrata nel filmato del telegiornale, quella che secondo la polizia Giaquinto impugnava? Sparita. Mai esistita. In realtà era stata messa lì, a terra, da un funzionario della Digos, per far ricadere le colpe sul giovane missino.
A tale proposito vi è anche la testimonianza di un militante di Democrazia Proletaria, che assistette all'omicidio: "Poi ho sentito lo sparo ed ho visto un ragazzo a terra. Stava morendo, ma quei tipi hanno allontanato tutti i cittadini che volevano portargli soccorso; lo hanno lasciato sul selciato per più di venti minuti scosso come da brividi di freddo. Ricordo come tremasse quel corpo. Non aveva pistole né vicino né lontano da lui, quel ragazzo non aveva fatto niente per morire così!".
La vicenda si è conclusa con una mite condanna dell'agente killer e dei funzionari complici. Rimane comunque emblematica delle responsabilità degli organi dello Stato nel creare una "strategia del terrore" a senso unico, rivolta sempre e solo contro la destra, per compiacere il nuovo padrone: il PCI. 

Proprio mentre i telegiornali davano la notizia della morte di Alberto Giaquinto , Stefano Cecchetti (simpatizzante di destra) e i suoi amici, stavano discutendo dell'accaduto di quel giorno, davanti al bar di Largo Rovani (bar frequentato da persone di destra e non solo), nel quartiere Talenti di Roma. Era passata la mezzanotte, ed a un certo punto, proprio mentre Stefano e i suoi amici stavano tornando a casa, una macchina nelle loro vicinanze si mette in moto e gli passa davanti sparando colpi di arma da fuoco (attentato svolto come nella strage di Acca Larenzia). Stefano cade a terra senza vita, mentre altri due suoi amici, ovvero Maurizio Battaglia e Alessandro Donatore (entrambi di 18 anni), rimangono feriti. Nei giorni successivi gli assassini di Stefano si firmarono come "Compagni organizzati per il Comunismo". Stefano muore sul colpo all'età di 18 anni, e tuttora i suoi assassini non hanno ancora un volto