venerdì 30 gennaio 2015

Accadde Oggi: la strage di Derry "Bloody Sunday"

La manifestazione del 30 gennaio 1972 era stata indetta dalla Northern Ireland Civil Rights Association per protestare contro le norme speciali repressive del governo unionista, fra cui una delle più pesanti era quella che prevedeva l’internment, ossia la possibilità per le forze di polizia di imprigionare una persona a tempo indeterminato e senza processo, tanto che in quel periodo centinaia di nordirlandesi si trovavano in carcere senza alcuna prospettiva di essere rinviati a giudizio o rilasciati. La manifestazione però non era autorizzata e i paracadutisti, con l’ordine di disperdere i manifestanti, aprirono inspiegabilmente il fuoco. Chi sparò per primo? La commissione Widgery, subito varata da Londra, disse che i colpi erano venuti dalla folla. Non era vero e quel verdetto fu ritrattato. Allora si disse che erano state lanciate bombe coi chiodi verso i paracadutisti, ma anche questa tesi fu subito smentita. Fu una carneficina. Morirono in 14. Otto avevano meno di 23 anni, quasi tutti stavano fuggendo o aiutando altri feriti, e alcuni addirittura furono uccisi mentre sventolavano un fazzoletto bianco o gridavano “non sparate!” con le braccia alzate.

Il Bloody Sunday provocò lo scioglimento del parlamento di Belfast, l’incendio dell’ambasciata britannica a Dublino e in Irlanda del Nord un’ondata di adesioni all’Ira. Nacque così la lunga guerra civile, che tra le sue conseguenze ebbe anche la morte per sciopero della fame di Bobby Sands. Di recente il primo ministro inglese Cameron ha reso pubblico (presentando le scuse ufficiali del governo di Londra) l’esito dell’inchiesta sui fatti del 30 gennaio 1972: i civili che morirono quel giorno erano tutti innocenti, non armati e non rappresentavano alcuna minaccia per i soldati, che intervennero seguendo un ordine sbagliato e che furono indubbiamente i primi a sparare.

Franco Lucenti (tratto da Senza Soste)

lunedì 19 gennaio 2015

19 Gennaio 1969. In ricordo di Jan Palach, martire europeo per la libertà

Nacque a Praga, in Cecoslovacchia, l’11 agosto del 1948. si iscrisse alla facoltà di Filosofia presso l’Università Carlo di Praga, dove assistette con interesse alla stagione riformista del suo paese, chiamata Primavera di Praga. Nel giro di pochi mesi, però, quella esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell’Unione Sovietica e degli altri paesi che aderivano al Patto di Varsavia. Praga viveva il quinto mese di occupazione militare e il numero degli esuli cresceva insieme alla rassegnazione.
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio del 1969, con il freddo invernale e le luci che si smorzavano sulle mura gotiche del castello di Hradcany e su quelle barocche del quartiere di Mala Strana, Jan Palach si recò in Piazza San Venceslao, al centro di Praga, e si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Si cosparse il corpo di benzina e appiccò il fuoco con un fiammifero.
Dopo tre giorni di agonia, restando sempre ludico, il suo cuore smise di battere. Ai medici disse di aver preso a modello i monaci buddhisti del Vietnam tra i quali il caso di Thích Qu?ng Ð?c, attirando l’attenzione mondiale. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono circa seicento mila persone, provenienti da tutto il Paese. Jan Palach, prima di essere avvolto dalle fiamme, decise di non bruciare gli appunti e gli articoli in quanto rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali. Tutto il materiale cartaceo fu chiuso in un sacco a  tracollo e tenuto distante dalle fiamme.
Tra le dichiarazioni trovate nei quaderni a righe da scolaro, Jan Palach, parlava di un’organizzazione che esprimeva la protesta e cercava di far scuotere la coscienza del popolo afflitto ormai dalla disperazione e dalla rassegnazione. L’obiettivo era di ottenere l’abolizione della censura e la proibizione del Regime Comunista.
Non fu mai accertata la vera esistenza dell’organizzazione descritta da Jan Palach, ma grazie al suo sacrificio estremo la sua figura venne considerata dagli antisovietici come un eroe e un martire. In città e paesi di molte nazioni furono intitolate strade con il suo nome. Anche la Chiesa Cattolica, in persona del teologo Zverina, lo difese. Quel clima portò a drammatiche conseguenze con la morte di altri sette studenti, tra cui l’amico Jan Zajic, che seguirono il suo esempio nel silenzio più totale degli organi di informazione controllati dalle forze di invasione.
Dopo il crollo del Comunismo e la caduta del Muro di Berlino, la figura di Jan Palach fu rivalutata, nel 1990, dal Presidente Vàclav Havel che gli dedicò una lapide per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà. L’anno precedente, invece, l’Amministrazione Comunale di Praga decise di intitolare, alla giovane vittima, il nome della Piazza fino ad allora dedicata all’Armata Rossa. Jan Palach rappresentò non solo un martire ma anche un simbolo nella lotta di una generazione contro la menzogna, la falsità e la crudeltà di un Regime che, nel nome dell’uguaglianza e della libertà, annullava l’uomo e la sua dignità dai valori e dalle tradizioni per soddisfare i bisogni di pochi. Non fu un suicidio per disperazione ma una azione offensiva, un gesto di un soldato che sacrificava la propria vita per gli altri, esortandoli a combattere.

sabato 10 gennaio 2015

Ad Alberto e Stefano


Gli anniversari degli eccidi più feroci diventavano, in quegli anni allucinanti, altrettanti regolari appuntamenti con la morte. Era già successo a Milano, con Enrico Pedenovi ucciso ad un anno dalla morte di Sergio Ramelli. Così, anche il 10 gennaio 1979, ad un anno dalla strage di via Acca Larentia, per Roma è una giornata di terrore e per i camerati un'altra giornata di lutto. Lo scenario è quello della repressione: ogni manifestazione è vietata, tutte le sezioni sono blindate e i responsabili "diffidati". La sinistra mobilitata in presidi armati contro "le provocazioni". 
I giovani di destra impediti a manifestare si ritrovano in cortei spontanei che cercano di convergere su via Acca Larentia. La Questura interviene, come sempre quando si tratta di manifestazioni di destra, in maniera pesantissima. Ne nascono scontri, tafferugli, inseguimenti. Durante uno di questi uno studente del Fronte, Alberto Giaquinto, 17 anni, viene colpito alla testa da un proiettile esploso, a distanza ravvicinata, da un agente in borghese: Alessio Speranza. E qui inizia il giallo infamante che, chi ha vissuto quegli anni, ricorderà benissimo. 

La sera il telegiornale della Rai enfatizza gli scontri, esattamente con la stessa energia con la quale minimizzava le violenze di sinistra, dando ampio risalto alle immagini di un'insegna della Democrazia Cristiana bruciata... Quindi riferisce che "uno degli assaltatori" della sezione DC, armato di pistola, era stato affrontato da un agente di polizia che lo aveva colpito, ovviamente per legittima difesa. Le parole del commentatore sono accompagnate da un filmato del luogo in cui Giaquinto è stato colpito e la telecamera si sofferma anche su una pistola di grosso calibro lasciata a terra. "Questa è l'arma che impugnava il missino" affermano i solerti giornalisti cui non sembra vero di poter additare al pubblico la "violenza fascista". 

Ma quella non era la verità. Giaquinto non era armato e non stava assalendo nessuno. Per anni la famiglia, gli avvocati, il partito, nonostante le potenti omertà e le coperture conniventi, denunciarono i responsabili di quello che appariva un autentico omicidio. Solo al processo, alcuni anni dopo, venne fuori la verità. Si scoprì che, contrariamente a quanto affermato nei verbali, Alberto Giaquinto non era stato colpito alla fronte, bensì alla nuca, quindi mentre fuggiva e non mentre attaccava. Ma soprattutto che fine aveva fatto la famosa pistola, mostrata nel filmato del telegiornale, quella che secondo la polizia Giaquinto impugnava? Sparita. Mai esistita. In realtà era stata messa lì, a terra, da un funzionario della Digos, per far ricadere le colpe sul giovane missino.
A tale proposito vi è anche la testimonianza di un militante di Democrazia Proletaria, che assistette all'omicidio: "Poi ho sentito lo sparo ed ho visto un ragazzo a terra. Stava morendo, ma quei tipi hanno allontanato tutti i cittadini che volevano portargli soccorso; lo hanno lasciato sul selciato per più di venti minuti scosso come da brividi di freddo. Ricordo come tremasse quel corpo. Non aveva pistole né vicino né lontano da lui, quel ragazzo non aveva fatto niente per morire così!".
La vicenda si è conclusa con una mite condanna dell'agente killer e dei funzionari complici. Rimane comunque emblematica delle responsabilità degli organi dello Stato nel creare una "strategia del terrore" a senso unico, rivolta sempre e solo contro la destra, per compiacere il nuovo padrone: il PCI. 

Proprio mentre i telegiornali davano la notizia della morte di Alberto Giaquinto , Stefano Cecchetti (simpatizzante di destra) e i suoi amici, stavano discutendo dell'accaduto di quel giorno, davanti al bar di Largo Rovani (bar frequentato da persone di destra e non solo), nel quartiere Talenti di Roma. Era passata la mezzanotte, ed a un certo punto, proprio mentre Stefano e i suoi amici stavano tornando a casa, una macchina nelle loro vicinanze si mette in moto e gli passa davanti sparando colpi di arma da fuoco (attentato svolto come nella strage di Acca Larenzia). Stefano cade a terra senza vita, mentre altri due suoi amici, ovvero Maurizio Battaglia e Alessandro Donatore (entrambi di 18 anni), rimangono feriti. Nei giorni successivi gli assassini di Stefano si firmarono come "Compagni organizzati per il Comunismo". Stefano muore sul colpo all'età di 18 anni, e tuttora i suoi assassini non hanno ancora un volto

mercoledì 7 gennaio 2015

07 Gennaio 1978: Di Padre in Figlio.


Acca Larentia. Il discorso (e la pietas) di Almirante in Parlamento dopo la strage

Signor Presidente, prima di tutto assicuro lei e i colleghi che mi terrò al di sotto dei venti minuti gentilmente concessimi, anche perché, per la prima volta in trent’anni di attività parlamentare i colleghi me ne possono dare atto mi accingo a leggere un testo, perché desidero rimanere nella misura del tempo stabilito e, soprattutto, nella misura dei contenuti, data la estrema gravita dell’argomento e dato il peso delle responsabilità personali e collettive del gruppo e del partito, che in questo momento ho l’onore e anche l’onere, signor Presidente ed onorevoli colleghi, di rappresentare. Civilmente, ringrazio lei, signor Presidente, ringrazio il signor ministro dell’Interno e il Governo, ringrazio le forze politiche e sociali, i parlamentari, i dirigenti di partito, i pubblici amministratori, a cominciare da quelli della capitale d’Italia, che in questi giorni si sono associati al lutto che ha colpito la famiglia della destra nazionale.
Questa atmosfera di rispetto e, in molti casi, di sincero cordoglio che il martirio di tre giovani di destra ha determinato rende meno arduo il mio compito, che è pur sempre difficilissimo, perché si tratta di comprimere e di reprimere stati d’animo, pur legittimi e comprensibili, sentimenti, risentimenti, per nobilitare e responsabilizzare, per parte nostra, questa discussione, come comandano i giovani puliti e cari che sono morti per la libertà di tutti, come comandano i loro familiari, dalle labbra dei quali (il Presidente ed anche il ministro dell’Interno hanno avuto modo di citare una delle loro dichiarazioni) non è uscita la minima invocazione alla vendetta, ma una chiara, ferma, severa richiesta di giustizia e di pace; la richiesta, soprattutto, che da questo sangue altro sangue non esca, la richiesta che sia finalmente rotta la spirale dell’odio e della guerra civile.
A questo punto, il discorso che occorre fare è quello delle responsabilità, passate, presenti e future; il discorso delle responsabilità morali e civili, il discorso delle responsabilità esecutive, in termini sia di prevenzione sia di repressione. Le responsabilità civili e morali sono le più gravi, perché nel tempo hanno determinato e aggravato le altre. Oggi, al cospetto di questo triplice crimine, tutti o quasi si inducono a parlare di pace e a smettere la propaganda dell’odio: e mi è doloroso dire quel «quasi», ma perfino in questa occasione si sono letti su giornali, anche quotidiani, accenti di odio e di discriminazione perduranti. Ma quanti parlavano tale linguaggio sereno e responsabile fino a qualche giorno fa? Quanti tra voi, quanti tra noi tutti hanno veramente contribuito, nei mesi e negli anni passati, a disintossicare l’atmosfera, ad educare alla pace e alla comprensione le giovani generazioni? Io non mi voglio presentare in veste di giudice, ma in veste di testimone, sì: ho il diritto di farlo, perché da trent’anni non partecipo, e non partecipiamo, alle responsabilità e nemmeno alle possibilità del potere. Invece, quale gravame di responsabilità morali pesa su coloro che hanno gestito il potere, a tutti i livelli, su coloro che hanno controllato e controllano la radio, la televisione, lo spettacolo, la scuola, il sindacato, la stessa cultura!
Perfino in questi giorni, la radio e la televisione ve lo denuncio sono state faziose, rifiutando di dare per esteso le nostre comunicazioni, che pur erano intese a placare gli animi; rifiutandomi la possibilità di lanciare un appello ai giovani in nome della pace. Perfino in questi giorni è stata chiusa e faziosa la scuola, nelle responsabilità politiche di vertice, non dando ascolto signor ministro Malfatti alla nostra richiesta di proclamare un giorno di lutto nelle scuole in memoria dei giovani assassinati, di tutti gli studenti assassinati. D’altra parte, lei stesso, signor ministro dell’Interno, ha parlato il 6 ottobre, nell’Assemblea dell’altro ramo del Parlamento, il linguaggio dell’odio, della provocazione, dell’istigazione a delinquere contro la nostra parte, contro i nostri stessi giovani e anche, mi duole dirlo, il linguaggio della calunnia, tanto è vero che i ragazzi che lei ha mandato in galera per quei fatti non devono più rispondere di omicidio, né di concorso in omicidio, né di rissa, ma soltanto e tornerò su questo argomento di presunti reati politici e di opinione. Quanto alle responsabilità politiche, voi tutti avete costituito in questi ultimi mesi un regime, perché avete tentato di appropriarvi delle guarentigie costituzionali, chiamandovi «arco costituzionale» o «partiti costituzionali» o «partiti democratici», quasi che questi valori vi appartenessero in esclusiva. La logica dei regimi, di qualunque colore essi siano, è la discriminazione e con la discriminazione la violenza, con la violenza l’odio e la spinta verso la guerra civile.
Ora siete in crisi e allora o lo sbocco della crisi sarà ancora il patto a sei, il compromesso storico allargato (finché dura), e in tal caso dovrete tener conto del fatto che noi siamo all’opposizione e che il tentativo di criminalizzare o di soffocare o, comunque, di discriminare l’opposizione in quanto tale equivale alla riapertura di quella spirale dell’odio e della vendetta che in questi giorni dite di voler spezzare, oppure lo sbocco della crisi sarà il fallimento del compromesso storico e del precedente patto a sei, e allora ve lo suggerisce il Corriere della sera di oggi un clamoroso articolo di prima pagina non si dovrà parlare di Governo di emergenza, ma di Governo di salute pubblica nazionale, cioè di una formula di reggimento del paese che non escluda alcuna componente, non già in termini di partecipazione alla maggioranza o al Governo e tanto meno di lottizzazione del potere, ma in termini di corresponsabilizzazione, e quindi di pacificazione nazionale come noi la intendiamo e la vogliamo . Ciò significa che la pacificazione nazionale, la salvezza della nazione non si può realizzare, signor Presidente, signor ministro, senza o contro i nostri ragazzi, senza o contro la nostra famiglia umana, ma soltanto in un clima di generale abbattimento delle frontiere morali, ferme restando le differenze e le divergenze politiche e programmatiche.
Quanto alle responsabilità esecutive, di ordine sia preventivo sia repressivo, debbo rilevare, signor ministro, che sarebbe da parte mia e da parte nostra in questo momento forse ingeneroso prendersela con l’attuale Governo, che non esiste più, anche volendo ammettere che sia mai esistito, e quindi con l’attuale ministro dell’Interno. Debbo però definire irricevibili e forse anche ignobili due passi del suo discorso, signor ministro: quello relativo alle responsabilità dell’ufficiale dei carabinieri che ha ucciso il giovane Recchioni, e quello relativo al solito discorso delle presunte indagini, quando le vittime sono di destra. Nessun fermato, nessun arrestato, nessun covo chiuso, buio totale, signor ministro. Come lei stesso ha detto, e come i giornali pubblicano questa mattina, riferendo passi tra virgolette di quanto in un’assemblea alla città universitaria è stato ieri proclamato dai cosiddetti «autonomi», questi ultimi hanno rivendicato delle responsabilità; la questura di Roma lo sa, il Ministero dell ‘ interno lo sa, ma nulla è stato fatto: non un fermato, non un arrestato. Se i tre morti fossero stati di sinistra, che cosa sarebbe accaduto a quest’ora? Lo sapete sulla base di precedenti e non lontane esperienze. Quanto all’ufficiale dei carabinieri, signor ministro, lei ha sostenuto testé la tesi della legittima difesa. Ma allora, in primo luogo, sostenetela sempre questa tesi della legittima difesa nei confronti degli agenti dell’ordine e dei carabinieri. In recenti e meno recenti occasioni, voi avete gettato nelle fauci dell’estrema sinistra extraparlamentare carabinieri o agenti di polizia che effettivamente, secondo le indagini esperite, si erano legittimamente difesi, o comunque si erano difesi. In questo caso, nessuno è stato ferito dai presunti sparatori di destra; nessuno è stato contuso dalla presunta sassaiola di destra; un ragazzo è stato ucciso da un ufficiale dei carabinieri. Lei si è contraddetto, signor ministro, sostenendo prima la tesi della legittima difesa e poi affermando che quell’ufficiale è caduto, e, cadendo, gli è partito un col­po. Questa non è legittima difesa, e mi dispiace che un giurista come lei incappi in così banali e plateali contraddizioni, che dimostrano mi dispiace dirlo la malafede sua e di coloro che l’ hanno costretta o indotta a dire cose assurde. Per lo meno, in attesa della conclusione delle indagini, quell’ufficiale dei carabinieri doveva essere sospeso dal servizio. Invece, egli è ancora in servizio. Lasciatemi ricordare che qualche mese fa, quando non si trattava dell’assassinio di un giovane, ma della fuga di un vecchio, l’Arma dei carabinieri fu sconvolta da un terremoto, e quasi nessuno la difese, se non proprio la destra nazionale. Del resto, non è impotente il Governo, ma è impotente lo Stato, perché in questi anni, sinistre imperando, è stata portata avanti la strategia della smobilitazione dello Stato molto più della cosiddetta strategia della tensione. Il Corriere della sera metteva in rilievo quattro giorni fa che, ad un mese dalla entrata in vigore della legge sui nuovi servizi di informazione, di prevenzione e di sicurezza, la legge giace perché motivi interni di lottizzazione del potere impediscono di darle esecuzione, il che, ancor prima di essere un errore, è una gravissima colpa”.
NATTA ALESSANDRO: “Che c’entra la sinistra? C’entrerà il Governo!”
ALMIRANTE: “Nel luglio scorso i sei partiti di Governo hanno varato un programma comune, che era pur sempre presentato come un programma di emergenza o di salute pubblica. Ora quel programma è in pezzi nella sua parte sociale ed economica, ma è in pezzi anche e soprattutto nella parte relativa all’ordine pubblico, di cui fin da allora il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale rilevò le gravi insufficienze. Il modo più serio per onorare i ragazzi assassinati consiste dunque nel riprendere da capo il discorso sull’ordine pubblico e sulla necessità di quelle cure chirurgiche che ormai si impongono e delle quali siamo pronti a renderci corresponsabili. Siamo pronti, onorevole ministro, perché, sia chiaro, non siamo disposti, specie alla luce di quanto sta accadendo, a consentire che il nostro partito, e personalmente noi dirigenti del partito, veniamo criminalizzati e non soltanto discriminati dal regime e che poi siano i nostri giovani a pagarne lo scotto, i giovani che vengono assassinati, i giovani che finiscono in galera per presunti reati politici e di opinione. Premesso che con i veri criminali e anche con i numerosi teppisti e teppistelli che circolano per le strade d’Italia e specialmente di Roma, non abbiamo nulla a che vedere e, anzi, sono nostri nemici mortali i teppisti che si dichiarano di sinistra e che iscrivono il mio nome nelle liste di proscrizione, come è accaduto in questi giorni; ma sono nostri nemici anche, e talora soprattutto, i teppisti che fingono di essere o dichiarano di essere di destra, noi dichiariamo alto e forte che non accetteremo più che paghino per noi, per tutti, i nostri ragazzi: così come non vogliamo che paghino per tutti i ragazzi puliti che stanno politicamente al centro o a sinistra. Vogliamo pagare noi, da ogni punto di vista; vogliamo essere giudicati noi. Giacciono da anni nei nostri confronti le autorizzazioni a procedere ai sensi della legge Scelba. Avanti, approvatele! Noi voteremo in favore, perché vogliamo che il regime ci faccia finalmente questo tante volte minacciato, questo assurdo e ridicolo, ma veramente emblematico, processo. Io sono stato privato dell’immunità parlamentare il 24 maggio 1973, signor Presidente; sono dovuto andare personalmente alla procura della Repubblica di Roma per ottenere la comunicazione giudiziaria il 31 luglio dello stesso anno. Non sono mai stato interrogato. È questa una copertura? È un privilegio? Se lo fosse, dovrebbe coincidere con l’archiviazione delle procedure. Ma siccome non lo è, siccome l’ombra del processo deve incombere su di me, su di noi, per soffocarci e per criminalizzarci, salvo a tenere in galera i nostri ragazzi, avanti, sbrigatevi, votate insieme a noi le autorizzazioni a procedere e finalmente sospendete, in attesa del nostro processo, le ignobili montature giudiziarie contro i giovani in corso in tante parti d’Italia! Altrimenti, non riuscirete davvero a piegare il nostro partito, ma continuerete a seminare odio nelle giovani menti e nelle tenere coscienze. Signor Presidente, la TV di regime nega in questi giorni la possibilità di lanciare un appello ai giovani, ai giovani puliti, al di sopra delle parti, nel nome della giustizia, della libertà e della pace. Mi sia consentito levare tale appello in Parlamento. E’ il migliore omaggio, è l’unico omaggio possibile ai tre nostri ragazzi assassinati.
da barbadillo.it