sabato 28 febbraio 2015

Quarant’anni fa l’omicidio di Mantakas, ennesima vittima dell’intolleranza comunista

28 febbraio 2015. I gravissimi scontri che l’estrema sinistra sta scatenando in queste ore a Roma, per impedire la libertà di parola, ci riportano alla mente gli anni Settanta, esattamente il 1975, quando in questo giorno teppisti criminali dei collettivi comunisti tentavano nello stesso modo di ostacolare la libertà di parola e di espressione ai giovani missini. Quel giorno uccisero un giovane greco, Mikis Mantakas, venuto da Atene per studiare Medicina. Era andato inizialmente all’ateneo di Bologna, ma aveva subito un’aggressione dai gruppettari di sinistra per le sue simpatie missine ed era stato quaranta giorni in ospedale. Venuto a Roma, aveva iniziato a frequentare la sede del Fuan di via Siena, l’organizzazione universitaria missina. E qui aveva stretto amicizia con molti giovani che la pensavano come lui. Quel giorno aveva deciso di andare al tribunale di piazzale Clodio per seguire il processo a Lollo, Clavo e Grillo, militanti di Potere Operaio che avevano bruciato vivi i fratelli Mattei a Primavalle per odio politico. Le notizie seguenti sono state tratte nel volume di inchiesta “Da Primavalle a via Ottaviano”, realizzato dai giornalisti del Secolo d’Italia Gianni Amati e Roberto Rosseti. Il 24 inizia al tribunale penale di Roma a piazzale Clodio il processo Primavalle. SoloAchille Lollo è in carcere, mentre Marino Clavo e Manlio Grillo sono latitanti. Da due anni sinistra, giornali e tv scatenano la piazza contro il processo e contro il Msi. Si distingue il collettivo di via del Volsci, ossia i Comitati autonomi operai, organismo inserito nello schieramento formato dai collettivi del Policlinico, quello dell’Enel, dal collettivo di Fisica, da Potere Operaio e da Avanguardia Comunista, nella quale erano confluiti i gruppi Lotta Comunista e Viva il Comunismo. Sin dalle prime ore della mattina del 24 febbraio gli extraparlamentari tentano di venire a contatto con i giovani di destra che sono fuori dal tribunale. Alle 10,30 il Collettivo di Fisica guida il primo corteo che lancia sassi e sei molotov contro la Celere, che carica e lo disperde. Alle 14 finisce l’udienza. Il bilancio è tre poliziotti, un giovane di destra e due passanti feriti. In mattinata muore per infarto il dirigente della polizia Pietro Scrofana, vittima dimenticata del dovere e dei comunisti.

Le sinistre mobilitate da tutta Italia per il processo Primavalle. Il 25 Prosegue la mobilitazione delle sinistre da tutta Italia. Alle 8,30 i comunisti cercano di vietare l’ingresso ai fascisti in tribunale e si accende uno scontro, subito sedato dalla polizia. Dentro l’aula tafferugli e grida “Lollo libero”, ma il tumulto viene sedato con una certa energia dall’allora maggiore dei carabinieri Antonio Varisco, che qualche anno dopo sarà assassinato dalle Brigate Rosse. Fuori dal tribunale proseguono gli scontri tra gruppettari e celerini. Il giorno successivo, il 26, Lotta continua e i collettivi invitano tutti ad andare venerdì 28 a piazzale Clodio. Il 27 Lotta Continua e il Quotidiano dei Lavoratori (di Avanguardia Operaia) pubblicano le foto dei missini davanti a piazzale Clodio e invitano ad andare il giorno dopo davanti al tribunale. E siamo arrivati al 28 febbraio. Già dalle sei di mattina arrivano davanti al tribunale tutti i collettivi di Roma e anche da fuori Roma equipaggiati per la guerriglia urbana. A quell’ora ancora non ci sono le forze dell’ordine, solo una jeep della Celere. Alle 6,30 quattro ragazzi del Fronte parcheggiano la macchina e si avviano verso il tribunale, ma vengono affrontati da un gruppo di autonomi armati che controllavano tutti gli accessi a piazzale Clodio. Riconosciuto il capo attivisti del FdG, uno degli aggressori gli spara tre colpi calibro 7,65, ma senza colpirlo. I missini concordano sul fatto che gli aggressori fossero toscani. Poi si saprà che i compagni erano venuti da tutta Italia per difendere Lollo, che aveva bruciato un bambino e un giovane di 22 anni. Alle 6,45, i giovani di destra si incolonnano nelle transenne per entrare in tribunale, ma improvvisamente, da tre parti diverse, arrivano un centinaio di gruppettari che iniziano a bastonare i giovani anticomunisti, uno dei quali riporta la rottura di un braccio col quale cercava di ripararsi. Un altro missino viene colpito da un colpo di pistola alla gamba e altri vengono feriti. I missini riescono a entrare in tribunale e a chiudere le porte. I compagni allora iniziano una sassaiola che manda in frantumi i vetri dei primi due piani del tribunale. Prima delle sette del mattino gli extraparlamentari hanno già sparato due volte. Nell’antisala del tribunale c’è uno scontro tra un giovane del Fronte e un extraparlamentare, che risulterà essere Alvaro Lojacono. In suo favore interviene il parlamentare comunista Umberto Terracini, che fa parte del collegio di difesa degli imputati per Primavalle. Verso le 11,30 si accendono incidenti in tutto il quartiere, e in particolare alcune centinaia di attivisti comunisti ingaggiano scontri con la polizia. Contestualmente un’altra ottantina di attivisti si disperde nelle strade laterali dirigendosi verso piazza Risorgimento dove c’è la sezione del Msi, clamorosamente non sorvegliata. Nel frattempo viene assaltata con bombe molotov la Rai di via Teulada, invece ben vigilata dalle forze dell’ordine. Seguono due ore di guerriglia urbana in tutta la zona. Alle 12,45 i militanti di via del Volsci individuano e assaltano un’auto civetta della polizia: la macchina è colpita con spranghe, una molotov la incendia e i tre occupanti vengono massacrati dai comunisti. Arriva un altro poliziotto, di nome Gigante, su un’altra vettura. Scende con la pistola in pugno per salvare i suoi colleghi. I compagni gli puntano addosso sei o sette pistole e riescono ad allontanarsi. Successivamente questo gruppo di fuoco da via Campanella, dove è successo il fatto, va a via Ottaviano e alle 13,15 arriva nei pressi della sede del Msi in piazza Risorgimento. Sono un centinaio, armati, mentre i missini poco più di una ventina, disarmati. Le forze dell’ordine sono assenti, i missini sono in sede, e nessuno si avvede dell’avvicinamento. Partono le bottiglie incendiarie che alzano un muro di fiamme tra l’ingresso della sezione e il portone dello stabile.

Centinaia di colpi di pistola contro i giovani missini. Nel trambusto vengono poi sparate revolverate contro i missini, una decina dei quali va verso l’angolo tra via Ottaviano e piazza Risorgimento: ma i gruppettari, tra cui Lojacono, li aspettavano e cinque pistole aprono il fuoco contro di loro. Le fonti ufficiali non hanno mai rivelato quanti colpi furono esplosi, ma testimoni affermano che furono centinaia e sparati da almeno cinque persone nella posizione del tiratore scelto, con una mano dietro la schiena e le gambe leggermente piegate. Per proteggersi la fuga lanciano altre bottiglie molotov. A quel punto i missini si accorgono che uno di loro è ferito, e gravemente, lo soccorrono, lo trascinano dentro il portone, ma avviene il secondo assalto dei collettivi. I missini si difendono con un martello, un manico di piccone e una lanciarazzi, che fa sospettare ai compagni una trappola e che li induce a ritirarsi. I pochi missini comunque riescono a respingerli, sparando con la lanciarazzi, e a chiudere il portone, nascondendo Mantakas, che nel frattempo era stato lambito dal fuoco di una molotov e ormai privo di conoscenza, dentro un box privato nel cortile dello stabile. Con lui, a vegliarlo, il giovane coraggioso Stefano Sabatini, della sezione Prati, che chiude dall’interno la porta del box, e Paolo Signorelli, aggredito insieme con il figlio appena qualche giorno prima in corso Trieste. Frattanto gli aggressori, servendosi anche di un segnale stradale divelto, sfondano il portone: i giovani missini si rinchiudono nella sezione. I collettivi arrivano nel cortiletto, sentono il rumore della porta del box che si chiude e sparano contro il box accanto a quello dove era Mantakas, pensando che i missini fossero lì, poiché era il più vicino al portone. Nel frattempo arrivano altri cinque o sei missini che vengono fatti segno da colpi di pistola: il 17enne Fabio Rolli è ferito al fianco e i comunisti ne approfittano per fuggire, non senza aver ferito un passante in moto che viene colpito al polmone. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’attacco armato alla sede e né polizia né carabinieri si sono fatti vedere. Due del commando, armati, presso piazza Risorgimento sparano contro il poliziotto Di Iorio, del commissariato Borgo, che aveva tentato di fermarli, ma non lo colpiscono. Fuggono e si dividono, e Di Iorio ne segue uno che si infila in un portone, per uscirne qualche minuto dopo disarmato e senza soprabito. Il poliziotto lo ferma, e viene bersagliato da colpi da parte dell’altro fuggitivo, che poi si allontana rapidamente. La polizia trova nell’androne il soprabito con una pistola ancora calda: è Fabrizio Panzieri, 26 anni, ex Potere Operaio ora Avanguardia Comunista, vicino ai collettivi di Fisica e a via del Volsci. A piazza Risorgimento arrivano i soccorsi, dieci minuti dopo la fine dell’assalto. Un’ambulanza dei Vigili del fuoco carica Mantakas e lo porta al Santo Spirito da dove sarà trasferito al San Camillo e sottoposto a una difficilissima operazione. Ma dopo l’intervento, alle 18,30, il giovane cessa di vivere. Altri cinque minuti dopo, dalla fine dell’assalto è passato oltre un quarto d’ora, arrivano le prime volanti e altre ambulanze. Inizia allora uno spettacolare e inutile carosello delle Alfa Romeo delle forze dell’ordine in piazza Risorgimento, che aumenta la confusione generale senza approdare a nulla. Inspiegabilmente il ministero degli Interni tenta di minimizzare la situazione, smentito però più volte dalle notizie dell’Ansa. Il giorno dopo, 1° marzo, tardivamente, si inviano a piazzale Clodio per la terza udienza mille tutori dell’ordine, mentre le indiscrezioni sugli arresti si moltiplicano. Si apprende il nome di Lojacono come secondo indagato, dopo Panzieri. Il 2 si apprende che Mantakas, Rolli e il passante sono stati colpiti da tre calibri diversi. Dai fori nelle vetrine e nelle auto poi si capisce che almeno cinque pistole diverse hanno sparato a piazza Risorgimento. Gli inquirenti affermano che le persone coinvolte nell’inchiesta sono tre, ma del terzo poi non si sentirà mai più parlare. Anche dei cinque arrestati per aggressione alle forze dell’ordine e lancio di bottiglie incendiarie, non si parlerà più. Tra l’altro, diverse testimonianze concordano sul fatto che l’aggressione degli extraparlamentari è stata tutta ripresa da uno di loro con una cinepresa, sparatoria compresa. Lo stesso accadde in un assalto alla sezione Monte Mario del Msi. Chi sa dove sono oggi quei filmini?

Disordini anche durante i funerali. Il 3 marzo si registrano gravi violenze a largo Argentina durante la cerimonia funebre per Mantakas. A Santa Maria sopra Minerva dove c’è la cerimonia in memoria dello studente greco, confluiscono migliaia di missini, e nelle zone circostanti extraparlamentari di sinistra girano in cerca dello scontro fisico. Dopo le 16, l’auto con a bordo Teodoro Buontempo, un altro dirigente del Fronte e una ragazza, viene individuata da esponenti del Pdup-Manifesto che la assaltano a colpi di spranga e martello infrangendone i vetri. Tornano sull’auto e cercano di fuggire sotto una pioggia di sassi, ma il traffico non lo consente. L’autista è colpito da una sprangata alla testa: le urla della gente e i clacson delle macchine inducono gli aggressori e indietreggiare verso via Monterone, sede del Pdup, sparando però 5 o 6 colpi di pistola contro i missini. Alle 22 perquisizione a via del Volsci, dove viene arrestato un extraparlamentare armato. Il mandato di perquisizione era già pronto dal 28 febbraio, ma venne eseguito solo dopo tre giorni. Davanti al liceo Plinio verso piazza della Croce Rossa compare la scritta “10, 100, 1000 Mantakas”. Emessi due mandati di cattura per Panzieri e Lojacono per concorso in omicidio e tentativo di omicidio. Almeno tre calibri diversi nella sparatoria, ma solo due indagati. Del terzo, che si era detto appartenente a via del Volsci, nessuna notizia. Nei giorni successivi via dei Volsci fa uscire volantini dal tono violento nei confronti sia dei missini sia delle forze dell’ordine, incitando alla giustizia proletaria “distruggendo le carogne nere”. La stampa dell’allora regime, guidata dal solito Messaggero, cerca imbastire una pista nera anche per Mantakas, ma il tentativo si infrange miseramente. Paese sera manda persino un volenteroso inviato in Grecia, che ovviamente non riesce a scoprire nulla. Oggi il bar Penny di via Pavia è chiuso da anni, il Fuan non c’è più, Mantakas è morto da quarant’anni. Ma l’odio politico della sinistra estrema resiste ancora: ne abbiamo la prova proprio in queste ore.


di Antonio Pannullo (secoloditalia.it)

sabato 21 febbraio 2015

106 anni fa il Manifesto di Marinetti che diede vita al Futurismo

Il 20 febbraio 1909 Filippo Tommaso Marinetti pubblicava sulle pagine del giornale francese Le Figaro ilManifesto del Futurimo. “Noi vogliamo cantare l’amor del  pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità…”: sono le prime parole di esordio del più importante movimento iconoclasta del secolo scorso. Un movimento rivoluzionario, di rottura con il passato, capace di imprimere una svolta nell’arte e nella cultura, interpretando la domanda di modernità che saliva da una società in rapida trasformazione. Un movimento che si fece interprete di quell’ansia di novità che si respirava in tutti i campi del sapere e che annovererà tra le sue fila, oltre a Marinetti, artisti e intellettuali come Boccioni, Carrà, Balla, Prampolini, Palazzeschi. Personalità audaci, anticonformiste, di forte tempra e di acuta intelligenza. Una avanguardia artistica. L’ultimo significativo movimento culturale del XX secolo che l’Italia abbia saputo offrire al mondo.

Futurismo nell’architettura.Il Futurismo riuscì, con la sua straordinaria ventata di innovazione e di dinamismo, a contagiare altri movimenti artistici che si svilupparono in altri Paesi, come Russia, Francia, Stati Uniti e Asia, improntando di sé ogni forma di espressione artistica, dalla pittura alla scultura, alla letteratura, all’architettura, alla musica , al teatro, alla danza, al cinema e, finanche, alla gastronomia. L’urbanistica delle città fu studiata e immaginata in una dimensione futura. I progetti creati daAntonio Sant’Elia ruotavano intorno all’idea di movimento. Trasporti e grandi strutture ne esaltavano la funzione con incredibile visione anticipatrice rispetto alle trasformazioni che sarebbero avvenute molti anni dopo nella vita delle città. Il Futurismo, in ogni ambito, è un cantiere aperto. Una utopia che si rinnova nelle linee, nei sogni, nella creatività di menti aperte alle sfide, menti alla ricerca costante di nuove sfide, scevre da condizionamenti formali e tecnici. Eppure in grado di anticipare temi, visioni, pulsioni, tendenze che di lì a non molto si sarebbero affermate come effetto di un pensiero e di una cultura moderni.

Futurismo e fascismo. Nato in un’epoca di transizione, il Futurismo riuscì, dunque, a fornire una risposta straordinariamente unitaria alla velocità con cui si stava trasformando la società. L’avvento del telegrafo senza fili e le radio che annullavano le distanze con le prime connessioni intercontinentali; il dirigibile e l’aeroplano;  i primi tubi al neon che illuminano le città e le automobili che aumentano di giorno in giorno, la cui produzione sale vertiginosamente grazie alla catena di montaggio. Cambia il modello di vita. Usi e costumi assumono nuove forme. Lo spazio è luogo di mutamenti di colore, di forme, di vibrazioni incessanti. Tutto è in movimento. Anche rispetto alla guerra,  i Futuristi si posero come partecipi attori di cambiamento. Rivoluzionari a tutto tondo. Fino in fondo, per cambiare e innovare. Avanguardie rivoluzionarie e movimento iconoclasta, appunto, anticipatori del fascismo. Spiriti liberi da condizionamenti. Portatori di idee nuove. Non di ideologismi.


di Silvano Moffa (secoloditalia.it)

martedì 10 febbraio 2015

#10Febbraio. Giornata in ricordo dei martiri delle Foibe.

10 Febbraio. 

Oggi abbiamo deciso di chiudere i vostri libri di storia e di aprire la nostra memoria al ricordo dell'eccidio più taciuto e nascosto dal dopo guerra ad oggi.

Oggi abbiamo deciso di ricordare chi non si è arreso, chi ha perso la propria casa, chi ha perso la propria vita per difendere e rivendicare con orgoglio la propria "Italianità"

Oggi è il giorno del ricordo dei martiri delle Foibe e degli esuli Istriani, dalmati e giuliani.

Oggi è il giorno nel quale rivendichiamo con fierezza l'orgoglio di essere Italiani.





I Ragazzi di Casaggì



lunedì 9 febbraio 2015

Paolo Di Nella, 32 anni senza giustizia.

Sono passati 32 anni dalla morte di Paolo Di Nella, l’attivista che perse la vita dopo sette giorni di coma causati da un’aggressione subìta la sera del 2 febbraio 1983.
Paolo Di Nella era un militante del Fronte della Gioventù e proprio la giornata del 2 febbraio l’aveva spesa tra organizzazione e affissioni di quella che era diventata la sua nuova iniziativa politica: restituire il parco di Villa Chigi ai cittadini del suo quartiere per farlo tramutare in un centro sociale e culturale. Durante la giornata fu costretto a interrompere l’affissione, ma decise di ricominciare dopo qualche ora e si fece aiutare da Daniela Bertani. In tarda serata, sempre in compagnia della Bertani che lo aspettava in auto, Paolo Di Nella iniziò ad attaccare i manifesti a Piazza Gondar quando improvvisamente due ragazzi, entrambi vicino alla fermata dell’autobus, lo attaccarono alle spalle, lo colpirono in testa con un oggetto rimasto ignoto e si diedero alla fuga verso via Lago di Tana.
Nonostante la ferita, Di Nella decise di tornare a casa, ma proprio lì i genitori iniziarono a sentire i suoi lamenti e decisero di chiamare l’ambulanza che poi l’avrebbe trasportato al Policlinico Umberto I, dove il ragazzo giunse in coma.
In quell’arco di tempo, precisamente il 5 febbraio, arrivò al capezzale del giovane militante anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che ricevette la triste notizia: il coma di Paolo Di Nella era irreversibile. Erano le 20.05 del 9 febbraio, sette giorni dopo l’aggressione, quando Paolo Di Nella morì senza mai aver riaperto gli occhi.
Una notizia che fece scalpore in quelli che vengono ricordati come gli “Anni di piombo”, ma questo non portò a risultati positivi per le indagini, che furono tutt’altro che efficienti.
Cinque giorni dopo, grazie a una telefonata anonima, venne trovato un volantino firmato Autonomia Operaia nel quale si rivendicava l’agguato nei confronti di Di Nella e nella lista dei sospettati finirono Luca Baldassarre e Corrado Quarra. I due riuscino a fuggire inizialmente, ma Quarra venne fermato mesi dopo, il 2 agosto in piazza Risorgimento e due giorni dopo Daniela Bertani lo riconobbe come l’aggressore dell’amico morto. Ma quando la ragazza, il 4 novembre, confuse Baldassarre con un altro indiziato, il giudice, incredibilmente, la ritenne poco attendibile e per questo fece scarcerare Quarra, che venne prosciolto il 21 aprile 1986, data in cui si chiusero le indagini.
A trent’anni dalla morte di Paolo di Nella, Gianni Alemanno (al tempo sindaco di Roma), amico del militante, presentò un dossier per far emergere alcuni aspetti lacunosi e anomali delleindagini svolte e riprese i quesiti di Corrado Augias, che espresse i suoi dubbi durante la trasmissione Telefono giallo: Vitaliano Calabria, il giudice istruttore che si occupò del decreto di scarcerazione di Quarra, affermò che Roberto Ferretti, il giovane identificato erroneamente dalla Bertani durante il secondo identikit, fu portato lì per volontà della difesa di Baldassare, ma questo si rivelò falso dato che lo stesso ragazzo rivelò, in seguito, di essere stato presente per volere della difesa di Quarra (i due si somigliavano). Ecco allora che Augias parlò di omissioni da parte del giudice e la stessa Bertani affermò di essere convinta di dover riconoscere Quarra e non Baldassare.
Ogni anno, il 9 febbraio, paolo Di Nella viene ricordato attraverso una veglia e una manifestazione che si svolgono a piazza Gondar, dove è stato anche realizzato un murales in sua memoria con la scritta “Paolo Vive”. Ma ad oggi la morte di Paolo Di Nella ancora non ha colpevoli.
da newsgo.it

venerdì 6 febbraio 2015

In morte di Robert Brasillach “poeta della gioia di vivere”

brasillachHa ancora un senso ricordare Robert Brasillach, a settant’anni dalla sua tragica morte, avvenuta il 6 febbraio 1945, sotto i colpi di un plotone d’esecuzione? Che cosa ci possono dire, oggi, la sua vita e la sua morte, intense eppure lontane, come le sue ultime poesie? Quali emozioni può evocare ad un giovane di questi anni, ad un ragazzo della “classe 1995”?
Rischia di essere fuorviante parlare, oggi, di Brasillach, rievocandone la fine emblematica, che lo ha trasformato nel simbolo della generazione dell’epurazione e della proscrizione politica, dopo averlo segnato con il marchio infamante del “collaborazionismo” con i tedeschi.
Strano destino quello di Robert Brasillach, sguardo da bambino, gioia di vivere, rapito dall’esempio dei giovani avanguardisti incontrati a Venezia, che cantano e gridano sotto “il più bel sole del mondo”, e poi costretto a rispondere di “alto tradimento” nei confronti della Patria, amata e cantata con dolore nei versi di “Il mio Paese mi fa male” e in “Testamento di un condannato”.
Un Brasillach “propagandista” – come affermava l’accusa ? O piuttosto un Brasillach coerente con se stesso, con la sua “visione della vita e del mondo” ? Questo ci dicono le sue opere complete, raccolte, a partire dal 1963, da Mauriche Bardéche . Dodici volumi di seicento pagine ciascuna: poesie e romanzi, saggi storici e di critica letteraria, articoli giornalistici e traduzioni. Il “martire di Fresnes”, la sua prigione, è questo: intellettuale di grandi orizzonti ed insieme simbolo di un’Europa lacerata e divisa da una guerra militare e politica che è stata – non dimentichiamolo mai – guerra civile di europei contro europei.
Nei giorni che seguirono la sua condanna , una petizione di famosi intellettuali, tra i quali Paul Valéry, Paul Claudel, François Mauriac, Albert Camus, Jean Cocteau, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier e tanti altri implorò al generale De Gaulle la grazia per il condannato a morte. La ragione di Stato prevalse sulle ragioni dello Spirito e della Cultura.
Come ha scritto Mauriche Bardèche: “… gli avversari che s’irrigidiscono, in un atteggiamento d’intransigenza, provano l’intima speranza che si dimentichi quel giorno della loro vittoria: che si faccia come se Robert Brasillach non sia mai esistito”.
Anche a destra – non sembri un paradosso – Brasillach ha patito l’oblio. Per ragioni ovviamente diverse da quelle dei suoi avversari. Troppo “lugubri” e privi di “gioia di vivere”, certi epigoni del neofascismo.
Si chiedeva, negli Anni Sessanta del ‘900, Giano Accame: “Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità. Confesso: non riesco a leggerlo senza un senso di disagio; solo i suoi scritti dal carcere mi risultano sopportabili. Il suo ottimismo, la sua gioia di vivere oggi sono irritanti per le ragioni su cui si fondavano. (…) Con un po’ di vergogna al fondo di noi stessi ci ritroviamo adesso con lo spettro di Robert Brasillach, illuminato ancora con pallida luce dai nostri sorrisi incoscienti, dai nostri giuramenti mancati, dalle nostre canzoni, dai nostri fez neri con il fiocco…”.
Archiviata l’epoca dei “fez neri con il fiocco” – evocati da Accame – è il momento di tornare a guardare a Brasillach, cercando di cogliere il senso autentico della sua esperienza personale e politica, comune a tanti europei del tempo, esempio di ottimismo, di “gioia di vivere”, di speranza per l ’avvenire. Allora ricordare Brasillach avrà un senso.
di Mario Bozzi Sentieri (barbadillo.it)

lunedì 2 febbraio 2015

L’attualità di Berto Ricci? L’eresia visionaria dell’Italia imperiale

Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino). La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori, incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.




La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava “unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure “Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come “un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
La parte più viva del suo pensiero politico è raccolta ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione, impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine, consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche, l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti. Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà. Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna “turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come “maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale” prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo”.
di Michele De Feudis (barbadillo.it)