giovedì 28 febbraio 2013

Mantakas, quel greco “fascista” che venne a morire a via Ottaviano


Se fosse vissuto, oggi Mikis Mantakas sarebbe un signore alla soglia dei sessant’anni, forse in procinto di andare in pensione dopo una vita passata in qualche ospedale greco, o italiano, giacché era iscritto a medicina. Era nato ad Atene nel 1952. Ma le cose andarono in maniera molto diversa, e quel 28 febbraio del 1975 fu l’ultimo giorno della sua vita. E gli ultimi istanti della sua esistenza li trascorse sdraiato in un box privato, un garage, vegliato da Stefano Sabatini, un giovanissimo attivista della sezione Prati, che dopo che lo aveva visto cadere colpito da un proiettile, lo aveva trascinato al riparo per sottrarlo alla furia omicida che stava imperversando di fuori. E non sembri un’esagerazione, c’era davvero l’inferno in piazza Risorgimento quel giorno. 

Quella settimana si stavano tenendo al vicino tribunale di piazzale Clodio le udienze del processo Primavalle, quello in cui si giudicavano gli assassini dei fratelli Mattei, Stefano e Virgilio, bruciati vivi nella notte nella loro casa dagli attivisti di Potere Operaio Lollo, Clavo e Grillo (e forse altri). Gli estremisti di sinistra avevano deciso che i fascisti non avrebbero neanche potuto assistere al processo, e si mobilitarono in maniera massiccia, militare, per dar vita a scontri. Scontri che iniziarono il 24 febbraio mattina e andarono avanti sino a quel 28, quando missini e gruppettari si videro davanti al tribunale alle sei del mattino.


 La notte prima un commando di Lotta Continua aveva assaltato la “palestra” di Angelino Rossi a volto coperto e con bombe incendiarie: ma ci fu un’altra vittima in quei giorni, un commissario di polizia che fu stroncato da un infarto mentre era lì in servizio, e che nessuno ricorda mai, Pietro Scrifana. Gli estremisti di sinistra erano pesantemente armati: pistole e bombe molotov a decine. E le usarono. Un dirigente del Fronte della Gioventù fu bersagliato da colpi di pistola, ma ebbe fortuna. Dopo alcune scaramucce dentro e fuori il tribunale, nel corso delle quali fu anche identificato Alvaro Lojacono (per uno scontro con un attivista missino del Prenestino), che successivamente sparò davanti la sezione di via Ottaviano 9. Secondo un disegno che a posteriori appare chiaro, alcune centinaia di comunisti ingaggiarono violenti scontri con la polizia, per permettere a un centinaio di loro, armati, di dirigersi verso la sede del Msi di via Ottaviano, presidiata da una trentina di attivisti, quasi tutti molto giovani. A quanto ricordano i testimoni, quelli di Potere Operaio spararono molti colpi di pistola contro il gruppo dei missini, i quali entrarono e uscirono un paio di volte dal portone, e fu nella seconda occasione che Mantakas fu colpito alle testa. Un altro ragazzo, Fabio Rolli, fu ferito a un polmone, ma lì per lì nessuno si accorse di nulla. Ci fu poi il lancio di molotov e l’assalto vero e proprio, sempre pistole in pugno.


 A quel punto alcuni riuscirono a rifugiarsi dentro la sede, altri rimasero fuori. Per giunta, in quei momenti mancò (o fu staccata) la luce cosicché la porta elettrica della sezione non si poteva più aprire. Un ragazzo che era lì dentro ricorda che al buio si sentivano grida, odore di benzina, terrore di finire come i Mattei, tentativi di armarsi con gambe di sedie e effettuare una sortita. Frattanto il dramma si era compiuto. I gruppettari avevano attaccato il portone dello stabile per entrarvi, così l’esanime Mantakas, nel frattempo colpito anche da una molotov il cui fuoco fu spento con le mani dai presenti, fu trascinato nel box da Stefano e da altri ragazzi, che poi chiuse la serranda.


 A un certo punto gli estremisti irruppero nel cortile e spararono diversi colpi di pistola contro il box attiguo, che era quello più vicino all’entrata. A quel punto il fumo, il rumore, gli spari avevano attirato l’attenzione delle forze dell’ordine, che peraltro non avevano neanche ritenuto di presidiare la sezione del Msi che era un obiettivo tutto sommato da considerare. Arrivò la polizia, con gran stridore di gomme, ma era troppo tardi: un’ambulanza dei vigili del fuoco portò Mantakas all’ospedale ma poche ore dopo, durante o subito dopo l’operazione alla testa, Mikis morì. Frequentava il Fuan di via Siena da qualche mese. Aveva conosciuto i ragazzi della destra universitaria al bar Penny, lì davanti, tra cui Umberto Croppi, col quale era andato quella fatidica mattina a piazzale Clodio e col quale era amico. Poco dopo fu arrestato Fabrizio Panzieri di Potop, mentre usciva con aria indifferente da un portone poco distante. Testimonianze di giovani missini poi individuarono in Lojacono quello che aveva sparato. Mantakas si era trasferito a Roma perché all’università di Bologna era stato aggredito dagli estremisti di sinistra davanti a biologia, che lo mandarono all’ospedale per quaranta giorni. 


Ai funerali nella chiesa di Santa Chiara, in piazza della Minerva a Roma, c’erano migliaia di persone, e quasi tutte giovani. Persino in quell’occasione gli estremisti, usciti dalla sede del Pdup, tirarono una bomba molotov contro l’automobile guidata dall’allora segretario provinciale del FdG Buontempo, che riuscì a fuggire. Nel marzo del 1977 ci fu la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio per Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove, per Lojacono. Il processo di secondo grado, nel 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione bloccò l’esecutività della sentenza per Lojacono che rimase in libertà per poi fuggire in Algeria, e poi in Svizzera assumendo il cognome della madre. Lojacono nel 1978 era nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Tartaglione. La Svizzera non concesse mai l’estradizione e nel 1999 divenne un uomo libero. Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si dette alla latitanza. Nel 1982 fu condannato a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Forse è in Nicaragua, dove c’è anche Grillo, quello del rogo di Primavalle.


di Antonio Pannullo

secoloditalia.it

mercoledì 20 febbraio 2013

Si comincia dal volo planato a superare se stessi!..

Veniamo dal tuo stormo, siamo fratelli tuoi
Ribelli e sognatori, siamo qui per volare con te
Sei fatto a immagine del grande gabbiano

Non esistono limiti se non dentro te!



martedì 19 febbraio 2013

Cento anni fa nasceva Mantelli, “papà” degli alianti italiani e asso dell’aria della Rsi

Adriano Mantelli nacque cento anni fa a Parma, dove oggi c’è una via che lo ricorda vicino all’Aeroclub della città, e da questo fortemente voluta. Pino Valenti, aviatore e tra i promotori dell’intitolazione, ha dovuto superare numerosi ostacoli prima di ottenere questo giusto riconoscimento per uno dei nostri migliori piloti da caccia di tutti i tempi e “papà” del volo a vela, ossia degli alianti. Tutto perché Mantelli aderì alla Repubblica sociale, nella cui aviazione si coprì di gloria. Mantelli si arruolò giovanissimo nell’Aeronautica militare, conseguendo il brevetto su apparecchi da caccia, e distinguendosi per le sue doti di acrobata dell’aria. Il controllo che aveva sul mezzo era pressoché totale, e ricordiamoci che allora gli aerei non erano certo sofisticati come oggi. Partì volontario guerra di Spagna, col XVI Gruppo della Caccia Legionaria (Chucaracha) CR 32, dove si distinse per il suo valore. Tornato in Italia, si dedicò all’attività volovelistica sportiva ad Asiago e a Sezze Romano, dove negli ultimi anni Trenta stabilì i primi record nazionali di durata e di distanza per alianti monoposto e biposto, vincendo  tutte le gare nazionali nonché i Littoriali del Volo a Vela.

 Fu pilota sperimentatore e collaudatore presso il Centro sperimentale di Guidonia. Lavorò alla progettazione, costruzione e sperimentazione di velivoli e motoalianti, creando quella gli alianti con e senza motore “A.M.”, ben noti in Italia ed all’estero, precorrendo di decenni lo sviluppo degli ultraleggeri. Dopo l’8 settembre, come detto, entrò nell’Aviazione nazionale repubblicana, dove fu promotore della rinascita della specialità aliantista: costituì un Nucleo Volo Senza Motore. I mezzi furono gli Avia FL 3 quali traini, e i CVV 2 Asiago quali veleggiatori; successivamente ebbe il prototipo CVV 6 Canguro. Alla base di Cascina Costa l’attività del nucleo, più sportivo che militare, si interruppe il 23 aprile 1945, quando i partigiani circondarono il campo e chiesero la resa. Dapprima Mantelli rifiutò, ma poi il Cln, il 28, gli trasmise la richiesta del suo maggiore, Adriano Visconti, asso dell’aria con 25 vittorie. Mantelli si arrese poiché era stata promessa salva la vita a tutti, ma Visconti fu allontanato dagli altri aviatori e assassinato con una raffica di mitra e finito con un colpo alla nuca. A sparare fu un partigiano russo, guardiaspalle del comandante partigiano Aldo Aniasi, “Iso”, futuro sindaco di Milano. Dopo la guerra Mantelli si trasferì in Argentina dove stabilì il primato italiano di distanza libera per alianti monoposto. 

Tornato in patria, nel 1951 costituì il Centro militare di Volo a Vela, con sede prima all’Aeroporto dell’Urbe, poi a Guidonia. Nel 1953 Mantelli, dopo aver utilizzato per primo le risorse volovelistiche dell’Appennino, su incarico dell’Aeronautica e dell’Aero Club d’Italia, creò il Centro Volovelistico di Rieti, dove organizzò il primo corso nazionale per istruttori di volo a vela. Nel 1954 a Vigna di Valle stabilì il primato italiano di durata per alianti monoposto con 24 ore e 15 minuti di volo, unitamente ad altri primati. Nel 1955 batté un altro record, quello di durata per alianti biposto con un volo di 28 ore. Negli anni successivi batté nuovi record e realizzò nuovi primati. Insignito di molte onorificenze italiane ed estere, ha avuto riconoscimenti quali la medaglia del Coni nel 1941, la medaglia d’oro dell’Aero Club d’Italia, una medaglia d’argento al valore aeronautico, il diploma Tissandier della FAI, e le medaglie Luis Bleriot per gli anni 1962 e 1964. È scomparso il 7 maggio 1995, con il grado di generale.

di di Antonio Pannullo
secoloditalia.it

lunedì 18 febbraio 2013

La guerra civile del pensiero tedesco


Cinquant'anni fa una bomba dilaniò il pensiero tedesco e più vastamente la filosofia d'Occidente, innescando il pensiero negativo. Un filosofo assai accreditato, tornato in Germania dagli Stati Uniti, dedicava un saggio tremendo al Guru Vivente d'Occidente, si accaniva contro un altro grande filosofo tedesco e trascinava sul banco degli imputati le correnti più vive del suo tempo.
E a sua volta si attirava fulmini e disprezzo. Parlo di Theodor W. Adorno, capostipite della Scuola di Francoforte, che scrive nel 1963 un saggio violento contro «l'ideologia tedesca» e attacca l'aura sacrale di Martin Heidegger, demolisce Karl Jaspers e ridicolizza i loro seguaci che mimano l'autenticità. Il saggio, che l'anno seguente si comporrà in libro, è Il gergo dell'autenticità, uscito in Italia con un bel saggio introduttivo di Remo Bodei nel 1989 da Bollati Boringhieri.
Così esplose la guerra civile del pensiero tedesco, che poi si trasferì dalla Germania all'Occidente, dalle cattedre alle piazze con la Contestazione, di cui la Scuola di Francoforte sarà il principale riferimento.
Il testo di Adorno è per un verso una straordinaria satira filosofica del gergo ieratico in cui si nasconderebbe la filosofia oracolare di Heidegger e degli esistenzialisti. Ma è anche un carognesco tentativo di stabilire un nesso tra il pensiero di Heidegger e la Shoah, come se quell'indecifrabile linguaggio fosse solo il paludamento dell'ideologia nazista. L'aspetto più odioso e ingiusto di questo pur brillante saggio di Adorno era il nesso che stabiliva tra Il gergo dell'autenticità e «il distintivo all'occhiello del partito nazista». Come dire che il linguaggio heideggeriano era il versante esoterico e il nazismo ne era la versione politica di massa. Hannah Arendt, ebrea e un tempo allieva e amante di Heidegger, insorge contro Adorno e lo definisce «uno degli uomini più ripugnanti che io conosca», «un mezzo ebreo» che sperava di farla franca «grazie alla sua discendenza italiana da parte di madre». In verità Adorno aveva ben altri scheletri nell'armadio: mentre accusava Heidegger per il famoso discorso del rettorato del 1933, lui Adorno, nel 1934 scriveva articoli filonazisti per ingraziarsi il capo della gioventù hitleriana, Baldur von Schirach e citava positivamente Goebbels. La scoperta avvenne proprio nel '63, fu uno studente ad accorgersene e a scriverlo. Lui minimizzò liquidando la sua captatio benevolentiae verso i nazisti come «stupidamente tattica». Magari Heidegger avrebbe potuto dire la stessa cosa, da una posizione più in vista, quando fece quel discorso del rettorato o quando sfoggiava il distintivo nazista (anche Bobbio in Italia sfoggiava il distintivo fascista e giurava fedeltà al regime).
Nel saggio Adorno se la prende con la moda esistenzialista discesa da Heidegger, il modo di vestire volutamente trasandato, i lunghi capelli, la barba incolta per simulare il ritorno all'origine. È curioso pensare che poi quei «giovani cavernicoli» si ispireranno proprio alla Scuola di Francoforte e in particolare a Marcuse quando daranno vita al '68 e useranno le clave. In verità Adorno poi fu critico anche verso i contestatori.
Il saggio di Adorno tentava di ridurre a un solo Nemico irriducibili avversari come lo scientismo e il pensiero del sacro, Popper e Heidegger, i positivisti e gli esistenzialisti, la Tecnica e i suoi critici, l'americanismo e la rivoluzione conservatrice, inclusi i poeti come Rilke e George, fino a definire il liberalismo «il progenitore del fascismo». Forzature insostenibili. In realtà l'unica alleanza ibrida e grandiosa che si profilava nel pensiero tedesco era tra il contadino Heidegger, con la sua critica radicale verso la Tecnica, le metropoli e la modernità, e l'operaio Jünger, col suo futurismo eroico, il suo stilnovismo d'acciaio, la sua epica ed estetica del paesaggio tecnico. È l'alleanza tra il sacerdote e il guerriero o lo sciamano e il milite del lavoro. Peraltro, lo stesso Adorno si serve molto del pensiero modernista reazionario e perfino di quello schiettamente antimoderno; di solito tace quel debito imbarazzante ma in Minima Moralia lo confessa: «Uno dei compiti fondamentali di fronte a cui si trova oggi il pensiero è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale al servizio dell'illuminismo progressivo».
Adorno stronca in Heidegger la visione sacrificale della storia e dell'umanità, le connessioni magiche e irrazionaliste, il feticismo dell'originario. Se la prende con Kierkegaard e con l'idealismo tedesco come le matrici di quel pensiero. E critica anche l'ideologia della morte che si anniderebbe nell'autenticità di Heidegger come nei campi di sterminio. Un riduzionismo canagliesco, non c'è che dire, dell'«essere per la morte» di Heidegger all'orrore della Shoah. Adorno accusa Heidegger di arcaismo e di provincialismo, poi ironizza sull'uomo pastore dell'Essere, si fa beffe del suo radicamento nella terra natia e della sua vita rurale. Heidegger che aveva criticato la chiacchiera viene ricondotto da Adorno al regno della chiacchiera in versione oracolare. «L'aureola in cui la parola viene avvolta come arance nella carta velina»...
E Heidegger come reagisce? Col silenzio, evita di replicare, dichiara di non leggere Adorno. Ma in conversazione e in un'intervista a Richard Wisser, Heidegger liquida Adorno come un sociologo, ironicamente chiede con chi abbia studiato, lo sbriga come un brillante benché contorto manierista che usa «forme di gesticolazione intellettuale». (Di Heidegger è uscito ora un corposo e stridente volume, Holderlin. Viaggi in Grecia - Bompiani, pagg. 768, euro 30 - in cui il grandioso pensiero di un presocratico del nostro tempo convive col turismo da vacanze organizzate di un professore in crociera con signora).
Ma Adorno si accanisce anche contro Jaspers, che non poteva essere accusato d'intelligenza col nazismo, ma aveva criticato marxismo, psicanalisi e razzismo come «i più diffusi occultamenti dell'uomo», ed era arrivato a scrivere: «Quando tutto è reciso resta solo la radice, cioè l'origine da cui siamo cresciuti». Nel giro di sette anni morirono i protagonisti della disputa: nell'ordine, Jaspers, Adorno, la Arendt e infine Heidegger. Ma quando erano tutti viventi arrivò il '68 e Adorno fu contestato come Heidegger e gettato nella fossa comune della Chiacchiera. Era il tempo del Fare, della Rivoluzione, della Contestazione globale. Che alla fine si rivelò anch'essa Chiacchiera.
di Marcello Veneziani
ilgiornale.it
“…Noi usciremo fuori da questo decadimento solo attraverso un’immensa rettificazione morale, insegnando agli uomini ad amare, a sacrificarsi, a vivere, a lottare e a morire per un ideale superiore.."


giovedì 14 febbraio 2013

L’ultima del Governo Monti: “La guerra del Pesce? Colpa dei pescatori siciliani…”


Guerra del pesce nel Canale di Sicilia: il Governo Monti scarica sulle imprese della pesca e sui pescatori siciliani la responsabilità dei sequestri dei pescherecci di Mazara del Vallo nel Canale di Sicilia. È incredibile a dirsi, ma le cose stanno proprio così. E’ evidente che l’attuale Presidente del Consiglio, il Ministro che si occupa di questo problema e i collaboratori di questo esecutivo di dilettanti allo sbaraglio non conoscono l’argomento che affrontano.

I pescatori siciliani – e dietro di loro gli armatori – sarebbero colpevoli di andare per mare a esercitare una delle poche attività primarie rimaste nel nostro Paese. Incomprensibile davvero la posizione delle autorità politiche del nostro Paese, se si pensa che la cosiddetta “guerra del pesce” affonda le radici agli inizi degli anni ’60 del secolo passato, quando il governo libico del colonnello Muammar Gheddafi, unilateralmente, delimitò i confini marini della Zona Economica Esclusiva (ZEE) a 200 miglia dalla costa (per tutti gli altri Paesi che si affacciano nel Mediterraneo le acque internazionali cominciano dopo alle 12 miglia). La conseguenza è stata quella dell’inibizione ai pescherecci siciliani nelle pescose acque oggetto della limitazione. (foto sopra tratta da pubblicitaitalia.com)

A questo ha fatto seguito una lunga successione di sequestri di natanti. Una vera e propria pratica piratesca che, nel corso degli anni, ha provocato danni economici al mondo della pesca della Sicilia. Nel corso di questi decenni si contano tanti pescatori feriti da attacchi di vedette militari libiche effettuati con l’uso delle armi, con momenti di grave tensione sociale causata anche dalla morte di pescatori. E dai sequestri di pescherecci che arrivano fino ai nostri giorni.

Lo Stato italiano che fa fatto e che fa? Assente o quasi. Intento in questi decenni a chiudere affari intorno a settori quali, per esempio, quello dell’estrazione del petrolio libico. Chi ha difeso armatori e pescatori siciliani? Nessuno, se non, eccezionalmente, qualche politico di turno, spinto da amicizie locali (ci provò, alla fine degli anni ’80, l’allora presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi: iniziativa che suscitò plausi e critiche, queste ultime da Roma).

Nel complesso, la politica italiana è stata fallimentare. E ancora più fallimentare, nell’ultimo decennio, è stata la politica dell’Unione Europea, che nel Mediterraneo si fa sentire solo per aggravare la vita dei nostri pescatori.

Con un’Unione Europea che nel Mediterraneo esiste solo per creare problemi al mondo della pesca, con un Governo nazionale – il Governo Monti – inadeguato sono proseguiti, nei mesi scorsi, i sequestri di pescherecci da parte di gruppi di pirati libici. Ma anche da parte di altri Paesi del Nord Africa che si affacciano nel Mediterraneo. Qual è stata la reazione delle autorità politiche e militari italiane?

Ci si sarebbe aspettati una ferma presa di posizione del Governo dei ‘tecnici’ guidato da Mario Monti (che oggi, non si capisce a che titolo, cerca voti in Sicilia). Invece, nulla di tutto questo è stato fatto. Nulla. A Roma convocano vertici e riunioni. Che non approdano a nulla. Come quella che ieri si è tenuta alla Farnesina. L’incontro è stato presieduto dal direttore generale del Ministero degli Esteri, Ambasciatore Andrea Meloni, e dal Capo dipartimento del Ministero delle Politiche Agricole, Giuseppe Serino. Sonon intervenuti anche i delegati del Ministero della Difesa, il Console italiano a Bendasi, Guido De Santis e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e datoriali della pesca. L’occasione per affrontare la spinosa questione delle acque libiche interdette alla pesca. Lodevole iniziativa , per carità. E le soluzioni? Chiacchiere.

Dura la dura presa di posizione del presidente del Distretto produttivo della pesca di Mazara del Vallo, Giovanni Tumbiolo. “È inaccettabile la pretesa di imporre il divieto di pesca alle imbarcazioni siciliane nelle acque internazionali prospicienti la Libia. Ed è altrettanto inaccettabile il tentativo, da parte delle autorità militari italiane, di scaricare la responsabilità sugli armatori e sui capitani delle imbarcazioni da pesca. È come chiedere al tabaccaio a o alla banca di chiudere l’esercizio perché vengono rapinati”.

Va da sé che l’attuale situazione politica in Libia non aiuta. Manca il dialogo. Mancano precisi riferimenti istituzionali. L’attuale contesto internazionale, comunque, non esime lo Stato italiano da una lunga responsabilità sull’annosa vicenda della “guerra del pesce”.


di Giuseppe Messina

Quegli amori futuristi. L'aeroromanzo di Marinetti veneziano


Per un crudele paradosso - niente a che vedere, però, con un contrappasso - proprio una delle tecnologie più moderne oltraggia Filippo Tommaso Marinetti.
Provate a scrive il suo nome su computer, o in un messaggio sul telefonino, e quelle magnifiche, ignorantissime macchine scriveranno «Martinetti», ritenendo più importante l'ormai quasi dimenticato (e grande) filosofo Piero Martinetti che l'inventore del futurismo.
Lottai a lungo con la tastiera del computer, per risolvere questo ridicolo problema, quando scrivevo la biografia del geniale ideologo, scrittore e artista milanese. Invece deve essersi arresa, per irosa superiorità, la sua figlia più piccola, Luce, che ho avuto la fortuna di conoscere: nel 2002, mandando il dattiloscritto di Venezianella e studentaccio a Antonio Riccardi, direttore editoriale della Mondadori, scrive e non corregge: «A Venezia, nell'inverno 1943, primavera 1944, abitavamo nella casa dove l'Aretino aveva soggiornato. Martinetti sdraiato sul divano di fronte alla grande vetrata del suo studio, o sul balcone, osservava per ore il Ponte di Rialto e la Peschiera sull'altra sponda del Canale (...) in quei mesi, già molto ammalato, dettava a Benedetta (mia madre) e a noi figlie - Venezianella e studentaccio da lui definito Quasi romanzo. È inedito».
Inedito non lo è più, avendolo pubblicato ora la Mondadori (negli Oscar, pagg, 182, euro 10) dopo una preparazione lunga quando accurata. Lo si vede dalla sapienza dei saggi e delle note di Patrizio Ceccagnoli e di Paolo Valesio, che accompagnano il breve «aeroromanzo», secondo una definizione cara a Marinetti. E la prima curiosità è proprio scoprire come il Marinetti del 1944 vede la città che trentacinque anni prima minacciava di voler distruggere, affondare, asfaltare, in quanto simbolo di tutti i mali italiani. E appare subito chiaro dalle dettagliatissime descrizioni della città, ce ne fosse bisogno, che Filippo Tommaso amava Venezia, e che si sarebbe ben guardato dal torcerle un merletto, come del resto mai avrebbe oltraggiato un museo, se non a parole.
La città e la donna si identificano nel personaggio principale, la bella crocerossina Venezianella, sensuale e vitale, ma anche enigmatica e di forte spiritualità. Se ne innamora Studentaccio, volontario in licenza dal fronte, e soprattutto impegnato in una ciclopica impresa architettonica che lo identifica con il futurismo, più che con lo stesso Marinetti: la costruzione, sulla Riva degli Schiavoni, di una Nuova Venezia futurista.
Il manoscritto, già noto agli studiosi, si trova dagli Anni Quaranta in una biblioteca della Yale University, studiato recentemente da Giusi Baldissone, che cogli sagacemente il parallelo Venezianella-Beatrice Dante-Marinetti. La protagonista, dai bei capelli biondi, ha l'aria di una santa o di una madonna e la sua «eleganza astratta e turchina» è «ansiosa di tremulo candore delle forze dell'ascetismo» e disgustata dalla veemente brutalità futurista di Studentaccio.
Un romanzo gioioso e giocoso, eversivo e irriverente, che rende un omaggio innovativo e sorridente al mito veneziano.
di Giordano Bruno Guerri - ilgiornale.it

lunedì 11 febbraio 2013

La beffa di Buccari


Il monumento a Luigi Rizzo (Milazzo )

L'azione svoltasi nella notte sull'11 febbraio 1918, passò alla storia come la beffa di Buccari, e fu annoverata dagli storici "tra le imprese più audaci" del conflitto con una "influenza morale incalcolabile", anche se purtroppo "sterile di risultati materiali". Al comando di Costanzo Ciano, all'azione parteciparono i M.A.S. 96 (al comando di Rizzo con a bordo Gabriele D'Annunzio), 95 e 94, rimorchiati ciascuno da una torpediniera e con la protezione di unità leggere. Dopo quattordici ore di navigazione, alle 22.00 del 10 febbraio, i tre M.A.S. iniziarono il loro pericoloso trasferimento dalla zona compresa tra l'isola di Cherso e la costa istriana sino alla baia di Buccari dove, secondo le informazioni dello spionaggio, sostavano unità nemiche sia mercantili sia militari.

L'audacia dell'impresa trova ragione di essere nel percorso di 50 miglia tra le maglie della difesa costiera nemica, anche se l'attacco non riuscì, dato che i siluri lanciati dalle 3 motosiluranti si impigliarono nelle reti che erano a protezione dei piroscafi alla fonda. Le unità italiane riuscirono successivamente a riguadagnare il largo tra l'incredulità dei posti di vedetta austriaci che non credettero possibile che unità italiane fossero entrate fino in fondo al porto, e che non reagirono con le armi ritenendo dovesse trattarsi di naviglio austriaco.
Dal punto di vista propriamente operativo, emerse un elemento importante dalla scorreria dei M.A.S. a Buccari: le facili smagliature ed il mancato coordinamento del sistema di vigilanza costiero austriaco che finiva per prestare il fianco all'intraprendenza dei marinai italiani sempre più audaci.

L'impresa di Buccari ebbe poi una grande risonanza, in una guerra in cui gli aspetti psicologici cominciavano ad avere un preciso rilievo, anche per la partecipazione diretta di Gabriele D'Annunzio, che abilmente orchestrò i risvolti propagandistici dell'azione e che lascio in mare davanti alla costa nemica, tre bottiglie ornate di nastri tricolori recanti un satirico messaggio così concepito: "In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d'Italia, che si ridono d'ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l'inosabile. E un buon compagno, ben noto, il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro, è venuto con loro a beffarsi della taglia".

da marina.difesa.it

domenica 10 febbraio 2013

10 FEBBRAIO - NON SCORDO!


Anche quest'anno abbiamo ricordato,come da molti anni a questa parte,uno dei massacri più taciuti della storia,le foibe.Decine di migliaia di innocenti gettati vivi nelle cavità carsiche del confine orientale e massacrati dalle milizie dei partigiani comunisti,sotto il comando del marasciallo Tito,perchè italiani.Una tragedia immane,una pulizia etnica feroce,che costrinse alla fuga migliaia di persone,costrette a lasciare le loro terre e i loro beni nelle mani dei comunisti titini.

In Memoria dei martiri delle Foibe e degli esuli Dalmati,Istriani e Giuliani!

Aspettando il grande corteo tricolore di sabato 9 Marzo a Firenze.Il ricordo è vivo, e noi lo celebreremo sventolando le nostre bandiere.

sabato 9 febbraio 2013

Trent’anni fa moriva Paolo Di Nella, un’altra vittima senza giustizia


Il sacrificio, l'amore e la lotta sono il colore del mondo.
A PAOLO DI NELLA, vittima dell'antifascismo.
9 febbraio 1983 - 9 febbraio 2013.


Trent’anni fa moriva Paolo Di Nella dopo sette giorni di coma, vegliato dai suoi amici che, giorno e notte, nei corridoi del Policlinico Umberto I di Roma, avevano atteso invano che riaprisse gli occhi. Una morte assurda: quando Paolo venne colpito al cranio da due esponenti dell’Autonomia operaia il sapore acre degli anni di piombo, con il suo carico di caduti dall’una e dall’altra parte, sembrava un ricordo del passato. La destra giovanile aveva mosso passi importanti nel superamento delle contrapposizioni ideologiche, parte della sinistra cominciava a fare autocritica e il dialogo generazionale sembrava possibile.
Militante del Fronte della Gioventù, silenzioso, capelli lunghi e occhiali, Paolo era un ragazzo come tanti, lontanissimo dagli stereotipi del fascistello dei primi anni ’80, capelli corti e camperos. Lontano nei modi e nella visione della politica come servizio civile. Testardo. Si era messo in testa di restituire ai cittadini del suo quartiere il parco di Villa Chigi per destinarlo a centro sociale e culturale. E aveva speso gran parte della giornata dell’aggressione ad affiggere manifesti per rendere pubblica una raccolta di firme per l’esproprio. Verso le 11 di sera, mentre affiggeva manifesti in mezzo allo spartitraffico di Piazza Gondar, venne avvicinato da due ragazzi, apparentemente in attesa dell’autobus, e colpito al cranio. Rientrato a casa i genitori lo sentirono lavarsi i capelli, muoversi inquieto e lamentarsi, l’ambulanza arrivò quando ormai Paolo era già in coma. Il giorno dopo gli vennero asportati due ematomi e un tratto di cranio frantumato. Troppo tardi.
Al capezzale di Paolo si presentò l’allora presidente della Repubblica, il partigiano Sandro Pertini,  fu un segnale di grande impatto e di svolta: per la prima volta un antifascista spezzava la vulgata “uccidere un fascista non è reato”. Eppure le indagini degli inquirenti non brillarono per “efficienza”: l’autonomo Corrado Quarra, dopo il riconoscimento di Daniela, la ragazza che era con Paolo quella notte, venne arrestato per concorso in omicidio volontario con l’aggravante dei “futili motivi”. Dopo un secondo riconoscimento, però, la testimone indicò come secondo presunto aggressore un giovane non indiziato,  un amico di Quarra scelto per via della grande somiglianza. Ma quel tentativo di confonderle le idee la fece considerare non credibile dal magistrato. Quarra fu scarcerato e prosciolto da tutte le accuse e la tesi della “faida interna” ebbe la meglio sulla ricerca della verità.
Dal 1983, ogni anno,  Paolo viene ricordato a Piazza Gondar davanti al murales con la scritta “Paolo vive” (a mezzogiorno il sindaco Gianni Alemanno interverrà alla conferenza stampa “Ricordo e giustizia per Paolo Di Nella”). Nel pomeriggio si svolgerà la consueta commemorazione: saranno in tanti, come sempre in questi lunghi trenta anni. Sarebbe un bel segnale se partecipasse anche un pezzo di popolo italiano, senza etichette politiche. Sarebbe una lezione per chi ancora oggi (solo un anno fa) si “diverte” a prendere a martellate la targa commemorativa di Di Nella collocata all’interno di villa Chigi. Che oggi è un parco pubblico e uno dei polmoni verdi della città.
di Gloria Sabatini - secoloditalia.it

giovedì 7 febbraio 2013

La nostra militanza è la riscossa di una generazione,siamo la voce di chi non ha padrone! Muri bianchi, popoli muti.


Unamuno, il filosofo allievo di Don Chisciotte


Quando l'ideale divorzia dal reale nasce il tragico, poi il comico, quindi il sognatore, infine il pazzo. In una parola, Don Chisciotte. Lui, il Cavaliere dalla trista figura, in conflitto eroicomico con la realtà e il suo tempo, li riassume tutti.

«Non sento la filosofia che poeticamente - scrive Unamuno - e innanzi tutto religiosamente». Unamuno è con Ortega y Gasset il filosofo più importante del Novecento spagnolo, spesso paragonati a Croce e Gentile. Ambedue vitalisti ma Unamuno in versione tragica e con tratti più letterari. In Italia i primi a scoprirlo furono Papini e Prezzolini. Il filosofo cattolico M. F. Sciacca gli dedicò un gran bel libro, Il chisciottismo tragico di Unamuno. La sua filosofia è ispirata a un sentimento tragico e onirico della vita, figlio di Don Chisciotte e del Sigismondo de La vita è sogno di Calderon de la Barca. Percorre i suoi scritti un vivo senso del paradosso e del capovolgimento, fino all'irrealismo magico. Unamuno esalta la guerra come «scuola di fraternità e vincolo d'amore» e in uno scritto tristemente profetico scrive nel 1915: «Sia benedetta da Dio la guerra civile... senza sangue fraterno non c'è patria». 
Il suo terribile auspicio fu esaudito nella sanguinosa guerra civile spagnola che Unamuno non vide conclusa perché morì l'ultimo giorno del 1936. Se l'avesse vissuta, si sarebbe pentito?Il più importante commento al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes è di un filosofo spagnolo del primo Novecento, Miguel de Unamuno. Nativo di Bilbao, insegnò all'Università di Salamanca, fu esiliato alle Canarie. Di lui esce ora una raccolta di saggi, In viaggio con Don Chisciotte (Medusa, pagg. 140, euro 16,50). Il suo Don Chisciotte è un Cristo folle, con «i baffi, grandi neri e spioventi» e questa sua immagine ricorda l'ultimo Nietzsche nelle braccia della pazzia. Unamuno sottrae Don Chisciotte al suo autore, lo rende autonomo, universale, lo consegna alla mitologia, ne fa il genio di un popolo.
A dir la verità questi saggi non sono un granché, nulla di paragonabile al Commento uscito nel 1905. Qualche anno fa Medusa aveva pubblicato con il titolo Cultura e nazione un'altra opera di Unamuno uscita nel '45 in Italia a cura di Carlo Bo col titolo Essenza della Spagna. Meglio sarebbe quest'anno ricordare di Unamuno i cent'anni della sua opera filosofica più significativa, Del sentimento tragico della vita, uscita nel 1913, tradotta da SE nel 1989 (importante è pure L'agonia del cristianesimo).
La verità per Unamuno si dissocia dalla realtà e vince sulla menzogna tramite la follia. Vera, per Unamuno è «ogni cosa che alimenta nobili slanci e partorisce opere feconde» e falsa è «ogni cosa che soffoca gli impulsi generosi e produce sterili aborti». Una visione emotiva, etica ed estetica della verità fondata sulla superiorità dell'Inutile. L'insuccesso è il sigillo che nobilita l'azione, «la vittoria delle vittorie è perdere tutto». Risuona il motto dell'hidalgo: «la sconfitta è il blasone dell'anima ben nata». «Solo gli amori infecondi sono fecondi di frutti spirituali - scrive don Miguel -, solo la sterilità temporale dà la fecondità eterna». L'amore per lui è «ciò che vi è di più tragico al mondo», figlio dell'inganno e padre del disinganno. Il fato è la fratellanza d'amore e dolore. Non a caso Unamuno cita spesso Leopardi e in particolare La ginestra.
Gli uomini per lui si dividono in carnali, cardiaci e intellettivi: la sua barba nera, il suo sguardo appassionato e i suoi occhialini penetranti li riassumono de visu. Anche Dio e l'immortalità sono sogni per Unamuno, ma sogni che fanno vivere, dunque sono veri. Se la vita è sogno «lascia che io la sogni immortale». Il ponte tra la vita e il sogno è la gloria, la stessa che persegue Don Chisciotte. La gloria è la speranza di continuare a vivere negli altri, immortalità terrena. In una pagina vibrante Unamuno scrive: «L'essenziale è non morire. Non morire! Non morire! Questa è l'ultima radice della follia chisciottesca. Ansia di vita, ansia di vita eterna ti dette l'immortalità, Don Chisciotte mio, il sogno della tua vita fu ed è il sogno di non morire». Egli, nota Sciacca, «non vuole, non ama Dio, vuole e ama se stesso; se la sua sopravvivenza potesse essergli assicurata anche senza Dio, non chiederebbe di più e forse di meglio».
Unamuno resta nell'orizzonte umano e immanente del soggettivismo eroico, in una visione disperata e solitaria, anche se il suo sentimento tragico si riferisce non solo ai singoli ma anche ai popoli. Ricorrente è il richiamo all'essenza spagnola e alla sua tradizione eterna. Il Don Chisciotte per lui è una specie di Vangelo dell'hispanidad, categoria geospirituale, etno-metafisica. I suoi discendenti sono l'esteta, il dandy, l'eroe solitario. Il chisciottismo è l'altra faccia dell'utopia rivoluzionaria che ha percorso la modernità. Versione fantastica e singolare l'una, visione storica e collettiva l'altra. Ma la differenza tra Don Chisciotte e i rivoluzionari è essenziale: il primo carica sulle proprie spalle il costo proibitivo dei suoi sogni solitari, i secondi invece li riversano sugli altri, anzi pretendono che gli altri facciano i loro stessi sogni e li vadano ad abitare. E quando il sogno si oppone alla realtà, tanto peggio per la realtà. In quella differenza c'è tutta l'abissale distanza tra la magnifica, solitaria, gentile e disperata grandezza dei cavalieri che vivono e muoiono del loro ideale nel loro romantico delirio e la cupa, feroce, messianica ideologia dei rivoluzionari che impongono al mondo la pretesa di una società perfette.
Certo, anche fra gli utopisti rivoluzionari vi furono nobili sognatori, martiri dei loro ideali; ma quando i rivoluzionari puri vanno al potere sono più crudeli e intransigenti dei rivoluzionari impuri, disposti al compromesso con la realtà. Perché ogni assoluto trasferito in terra produce mostri, tiranni, violenze, regimi totalitari. Invece i sogni rimasti nella sfera ideale e singolare si traducono in creatività, opere d'arte, figure letterarie. Uno rappresenta il sentimento tragico della vita, gli altri il risentimento tragico della storia. Un plotone di Don Chisciotte farebbe paura; invece un Cavaliere solitario e anacronistico, fuor di senno e di tempo, accompagnato solo dal suo fido scudiero e da un grappolo di sogni e allucinazioni, suscita un nugolo di sentimenti: riso, tenerezza, pietà e nostalgia. La solitudine è la sua follia ma è anche la nostra salvezza. Il suo irrealismo cavalleresco lo destina alla sconfitta storica e alla gloria letteraria. In palio per Don Chisciotte non c'è la conquista del potere ma il favore di Dulcinea del Toboso e dei suoi lettori.
di Marcello Veneziani

martedì 5 febbraio 2013

D'Annunzio a fumetti tra grandi imprese e avventure d'amore


Nelle tavole la vita ardimentosa di un poeta che guardava al futuro. Disegni di Marco Sciame e prefazione di Giordano Bruno Guerri

Narrare. Raccontarsi, rivoltando le parole fino allo sputo. Non importa come, dove, con chi, fosse anche uno specchio. La vita come arte, sogno, avventura, rappresentazione, con quell'ossessione estetica di superare l'umano, come una sfida alla miseria che lo circonda, alle sue paure, al suo cranio calvo, a quell'odore di Abruzzo che gli resta addosso e lui sublima, canta, vomitando in faccia al mondo le proprie origini e la sua grandezza.
D'Annunzio si disegna come un eroe, come l'ultraumano e il suo ritorno non può che essere in un universo dove quelli come lui hanno ancora diritto di cittadinanza. È la graphic novel la terra del suo ritorno, magari passando per il teatro, il luogo dove ha immaginato tutta la sua vita. Gabriele D'Annunzio, tra amori e battaglie è prima di tutto un testo e uno spettacolo per il teatro. È il volto e la voce di Edoardo Sylos Labini. È la regia di Francesco Sala. È un tour che fino ad aprile attraversa l'Italia, 150 anni dopo la nascita del poeta. Solo che la tentazione del fumetto è troppo forte, narrato con la sceneggiatura di Sylos Labini e Sala, con la matita di Marco Sciame e la prefazione di Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani.Come il demiurgo che getta i dadi e si diverte a sfidare il caso, dando un senso al destino. 
Gabriele D'Annunzio, poeta, vate, comandante, seduttore, aviatore simil futurista, decadente e vitalista, conquistatore di Fiume, prima o poi doveva capitare da queste parti, in questo ventunesimo secolo dove ognuno brucia il suo quarto d'ora di celebrità. No, non in televisione, come un qualsiasi tronista. D'annunzio non vestirebbe mai i panni di un Casanova dozzinale, da supermercato, lui che pure battezzò la Rinascente. Certo, anche lui faceva sfilare le sue pretendenti come fanno quei tipi tatuati. La differenza, però, è nel gesto e nell'orizzonte. Non si sarebbe mai accontentato di quindici minuti di gloria, il suo orologio batteva solo l'eternità. È la differenza incommensurabile tra un Vate e il tronista.
D'Annunzio si racconta, con faccia giusta per un eroe di carta. D'Annunzio dandy, che vive come un dono la sua profonda solitudine e si circonda del superfluo, di cose inutili e belle, come se in quei feticci lasciasse cadere una parte della sua anima. D'Annunzio che sogna in grande e vola su Vienna, bombardandola di volantini e sfidando i cavalieri del cielo. D'Annunzio che grida contro la pace di Parigi e va a prendersi l'Italia abbandonata, sull'altra sponda del Mediterraneo. D'Annunzio e le sue donne, che anche disegnate a matita conservano il fascino e i peccati. Il lamento di Maria, moglie troppo giovane, ricca e nobile e sciagurata, che vede sfiorire il suo amore di tradimento in tradimento, perché come Dylan Dog il Vate non conosce il principio della fedeltà. «Io - dice lui - sono la puttana d'Italia - che si odia per amore». C'è Luisa la giovane pianista, che lo tenta, si concede, si piega e lo ammalia in ginocchio e lo inganna legandolo con le visioni e il vizio della polvere bianca. Luisa che deve contendersi la casa e il letto con la timida cameriera francese Amélie, che si dona bocca a bocca. D'Annunzio che a ogni donna cambia il nome, come fa un padrone, come fa un padre. D'Annunzio che non riesce a dimenticare l'unica che come lui ha fatto della vita un palcoscenico, la meravigliosa Duse, la divina Duse, la disperata Eleonora Duse.
Non è difficile allora immaginare uno così nelle terre del fumetto. È quasi perfetto. È come trovarsi a casa. È disegnare la vita che avrebbe voluto, quella che ogni secondo ha cercato di mettere in scena. Lo potete immaginare come satiro nei giochi di Manara, far impazzire la femmina con un click, ma senza trucchi o marchingegni, solo con la seduzione delle parole. O perché no? Perso in qualche avventura di Dampyr, come eterno maestro della notte. Ma l'incontro più importante è già avvenuto. Lui e Corto Maltese, a Venezia, un una delle più belle citazioni di Pratt. E si capisce che i due si piacciono. Non poteva non essere che così. Corto nasce privo della linea della fortuna lungo la mano sinistra e allora con un coltello ben affilato se la disegna da solo, lasciando per sempre il segno di una profonda cicatrice. È un gesto degno del Vate. È la sua firma. La firma di quest'uomo «basso, calvo, occhi perennemente cerchiati dalla stanchezza, naso lungo, la voce melata, un personaggio della commedia dell'arte, con l'arietta furba e crudele di un Arlecchino». D'Annunzio.
di Vittorio Macioce -ilgiornale.it

VOLA SOLO CHI OSA FARLO!


lunedì 4 febbraio 2013

L’attualità di Berto Ricci? L’eresia visionaria dell’Italia imperiale


berto ricci
Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino). La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori, incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.
La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava “unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure “Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come “un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
La parte più viva del suo pensiero politico è raccolta ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione, impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine, consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche, l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti. Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà. Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna “turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come “maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale” prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo”.
di Michele De Feudis - barbadillo.it