giovedì 29 novembre 2012

Gli studenti oltre quel muro



"Avete votato anche voi dei rappresentanti, occupate insieme a noi!" Sembra la scena di un tempo lontano, quando i muri dividevano due mondi ideologicamente contrapposti, invece no. Accade ieri, nel Liceo Classico e Scientifico Impallomeni di Milazzo, nell'atrio che dà sull'Istituto Industriale. C'è un grosso muro di cemento che divide gli "umanisti" dai "chimici". I primi sono sulla testa di ponte di una protesta che va avanti da sabato 24 novembre, data in cui il corteo degli studenti ha contrapposto le idee rivoluzionarie alle logiche del Governo dei Burocrati. Giovinezza contro fermezza, dinamite contro muri. Siamo sempre lì, da una parte i giovani e il loro futuro, dall'altra la casta e il passato, quello che non cambia e che anzi, peggiora. 

Abbiamo ascoltato le motivazioni di Giuseppe Cortese, Aldo Ponticorvo, Felipe De Oliveira, tutti giovanirappresentanti di Istituto allo Scientifico e Giuseppe Isgrò per la Consulta provinciale, e Gabriella Ruggeri per il Classico. Ci accolgono a braccia aperte appena diciamo di essere giornalisti, hanno voce e cori pronti da tirare fuori, per la carta stampata e per le istituzioni "andremo avanti ad oltranza fino a quando non avremo voce in capitolo" le motivazioni sono poi le stesse che hanno spinto gli studenti a protestare a Roma davanti le sedi del Senato lo scorso venerdì. Il precariato, l'antipolitica, i tagli alla scuola. Questa volta però è diverso. Stavolta la politica è messa da parte, così ci è parso. Non ci sono slogan contro, ma solo pro. "Stiamo rispettando la volontà degli studenti - e ci mostrano le aule sopra, rimaste libere, a disposizione di chi vuol fare lezione - e anche dei professori" e quando chiediamo chi li sta appoggiando, l'intento è quello di scoprire tentativi di pressioni "esterne" loro, decisi, rispondono "siamo soli, lo abbiamo voluto noi ma abbiamo tutti contro". 

La Preside dell'istituto, Caterina Nicosia, si è subito insospettita cacciandoci nell'atrio fuori. "l'atmosfera come potete vedere è molto tesa, presidi, professori, genitori, polizia. Siamo sorvegliati costantemente". Sembra che un appoggio timido lo abbiano avuto solo dal personale Ata, già depauperato più volte dalla spending review. I ragazzi del classico vantano inoltre di non aver causato disordini di alcun tipo, nonostante siano l'unico istituto milazzese, faro di una protesta sempre più nervosa e a tratti scomoda. In molte aule ci mostrano laboratori di dibattito, corsi, ripetizioni che tentano di coinvolgere soprattutto i professori, serrati nelle proprie stanze, storicamente, avversi a proteste di questo tipo. 

Tentiamo di capire se intromissioni politiche ci siano state in questi giorni, ma è il giovane Giuseppe Cortese a specificare come OggiMilazzo abbia travisato il riferimento di una nota inviatagli "Studenti e studentesse di Milazzo, insieme ai compagni e alle compagne di tutta Italia, alzano la voce contro i tagli, la dequalificazione e l'austerity: l'obiettivo è riprendersi le scuole e i luoghi dove gli studenti producono ricchezza ogni giorno." Quel compagni e compagne aveva scatenato diverse domande e perplessità "compagni di classe, si intendeva" conclude il giovane Cortese.

Oggi la protesta si è spostata davanti il Comune. Ci raccontano che oltre 500 studenti sono stati ascoltati dal Sindaco per le relative questioni dei tagli alla scuola. Scuola che, ci dicono, è fatiscente soprattutto laddove mancano strutture adeguate. Al classico, per esempio, i bagni di sopra sono diventati promiscui. Allo Scientifico, invece, istituto corporato sotto il nome di Giovan Battista Impallomeni, giurista milazzese impegnato in diverse riforme, le lezioni continuano regolarmente, ma gli studenti solidarizzano e partecipano numerosi spostandosi da Via Valverde in cerca anche loro di un riscontro.

Una storia divisa da un muro, finita in un grande spazio libero, dove la protesta e la rivoluzione hanno trovato la sintesi nell'ordine, nella cultura e in una grande lezione di politica giovanile "noi, credevamo..."



di Santi Cautela

mercoledì 28 novembre 2012

NON PENSARE ALLA VETTA,SALI!

"La strada e’ dura. Il respiro diventa corto. Vi sono dei momenti in cui vorresti gettare questo sacco che ti pesa, lasciarti andare per il pendio e ritornare a quelle case di campagna che fumano laggiu’, filamenti azzurrini sui fondi verdi e grigi dei prati e delle ardesie.(…)Vorresti non pensare più a nulla, cancellare dal pensiero il ricordo degli uomini, e, supino sull’erba, guardare il cielo che passa, sollevato da voli di uccelli. Basta con la stanchezza! Non lasciar cadere il sacco e il bastone! Non asciugarti le ginocchia sanguinanti! Non ascoltare il clamore degli odi, non guardare gli occhi sorridenti della malvagità che nascondono. E’ in alto che devi volgere lo sguardo. Il corpo deve vivere soltanto per queste curve che svoltano - il cuore, sognare soltanto queste vette che tu e gli altri dovete raggiungere.Dimmi sino in fondo il tuo smarrimento. Credevi di trovare gioie immediate nell’ascendere faticosamente il pendio, trascinando nella salita un gregge umano. Spesso, hai sofferto. Talvolta, vieni preso da nausee. Ne avevi bisogno. Dovevi imparare che l’ambizione non appaga, e stanca prima o poi il cuore da lei posseduto. Ora lo sai…"

   "Militia", Leon Degrelle


Riunione..


Il sole, il sale e il pane

La videorubrica di Pietrangelo Buttafuoco

lunedì 26 novembre 2012

CON NOI..


Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza


L'aveva chiamata san Casciano la sua casa del buen retiro a Plattenberg, il luogo natìo in cui tornò per trascorrere la lunga vecchiaia fino alla morte, all'età di 97 anni, nel 1985. San Casciano, come l'ultima casa-esilio di Niccolò Machiavelli, quando si ritirò dall'attività di Segretario.
Ma Carl Schmitt confidò in un'intervista che aveva battezzato così la sua casa non solo in onore di Machiavelli ma anche perché San Casciano è il santo protettore dei professori uccisi dai loro scolari. Schmitt si identificava in ambedue, nell'autore de Il Principe, nel suo lucido realismo politico e nel suo amore per la romanità; ma anche nel Santo, perché si sentì tradito da molti suoi allievi. Quell'intervista dà il titolo a una raccolta di scritti di Carl Schmitt, curata da Giorgio Agamben e riapparsa da poco (Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, pagg. 314, euro 16,50).
Non è un caso ma un destino che Carl non si chiami Karl. La matrice cattolico-romana e latina è decisiva nella sua biografia intellettuale. La tradizione a cui si richiama Schmitt è lo jus publicum europaeum, di cui «padre è il diritto romano e madre la Chiesa di Roma»; la fede in cui nacque, visse e morì è quella cattolica apostolica romana; «la concezione di Schmitt - notava Hugo Ball - è latina»; la lingua latina era per lui «un piacere, un vero godimento»; un suo saggio chiave è Cattolicesimo romano e forma politica, e l'annesso saggio sulla visibilità della Chiesa. E non solo. La critica di fondo che Schmitt rivolge alla sua Germania è «il sentimento antiromano» che la percorre da secoli e che sostanzia la differenza tra cultura evangelica e cattolica. È una divergenza che spiega molte cose del passato e anche qualcuna del presente. Compresa quell'asprezza intransigente dei tedeschi e di altri popoli di derivazione protestante verso i Paesi mediterranei di formazione greco-latina e cattolico-romana. È quello per Schmitt il vero spread tra tedeschi e latini.
Ma Schmitt va oltre e coglie l'incompatibilità tra «il modello di dominio» capitalistico-protestante dei tedeschi e il concetto romano-cattolico di natura, col suo amore per la terra e i suoi prodotti (che Schmitt chiama terrisme). «È impossibile - scrive Schmitt - una riunificazione tra la Chiesa cattolica e l'odierna forma dell'individualismo capitalistico. All'alleanza fra Trono e Altare non seguirà quella di ufficio e altare o fabbrica e altare». È possibile invece che i cattolici si adattino a questo stato di cose. Per Schmitt il cattolicesimo ha il merito d'aver rifiutato di diventare «un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sanitario per lenire i dolori della libera concorrenza». Schmitt ravvisa un'antitesi radicale tra l'economicismo, condiviso dai modelli americano, bolscevico e nordeuropeo, e la visione politica e mediterranea del cattolicesimo, derivata dall'imperium romano. Rifiuta pure di riferirsi ai valori perché di derivazione economicista.
Nei saggi e nelle interviste raccolti da Agamben, figura anche un testo che apparve in Italia nel '35, in un'antologia curata da Delio Cantimori col titolo di Principi Politici del Nazionalsocialismo. Peccato che non siano stati più ripubblicati il saggio introduttivo di Cantimori e la prefazione di Arnaldo Volpicelli che sottolineava le divergenze tra fascismo e nazismo, e fra la teoria di Schmitt sull'Amico e il Nemico e l'idealismo di Gentile, a cui egli si ispirava, per il quale il nemico era accolto e risolto nell'amico, ogni alterità era superata nella sintesi totalitaria e «sostanza e meta ideale della politica non è il nazionalismo ma l'internazionalismo». Qui sta, diceva Volpicelli, «la differenza fondamentale e la superiorità categorica del corporativismo fascista sul nazional-socialismo». A proposito di Hitler, Schmitt ricorda che una volta confessò di provare compassione per ogni creatura e aggiunse che forse era buddista. Hitler era gentile nei rapporti personali, nota Schmitt, e non aveva mai visto il mare. Riferendosi al suo ascendente sul pubblico, rileva «la sua dipendenza quasi medianica da esso, dall'approvazione, dall'applauso interiore».
Le interviste percorrono i punti centrali delle opere di Schmitt: la critica al romanticismo che sostituisce Dio e il mondo con l'Io; il Nomos della terra e la contrapposizione con le potenze del mare; la derivazione teologica dei concetti politici; la dialettica amico-nemico; la teoria del partigiano e la sovranità come decisione nello stato d'eccezione; quel decisionismo peraltro estraneo alla sua indole («Ho una peculiare forma di passività. Non riesco a capire come la mia persona abbia acquisito la nomea di decisionista», confessa con autoironia). E poi la sua raffinata passione letteraria, anche in questo erede di Machiavelli.
C'è una ragione di forte attualità del pensiero schmittiano. È la sua doppia previsione della spoliticizzazione che avrebbe portato al dominio mondiale dei tecnici e dell'avvento di guerre umanitarie che sarebbero state più inumane delle guerre classiche, perché condotte nel nome del bene assoluto contro il male assoluto. L'intreccio fra tecnica, economia e principi umanitari è l'amalgama che comanda oggi il mondo. Per assoggettare i popoli, scrive profeticamente nel '32, «basterà addirittura che una nazione non possa pagare i suoi debiti». Schmitt descrive «la cupa religione del tecnicismo» e nota che oggi la guerra più terribile può essere condotta nel nome della pace, l'oppressione più terrificante nel nome della libertà e la disumanità più abbietta nel nome dell'umanità. L'imperialismo dell'economia si servirà dell'alibi etico-umanitario. Il potere, avverte Schmitt, è più forte della volontà umana di potere e tende a sovrastare in modo automatico, impersonale: «non è più l'uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui». Non dunque un complotto ordito da poteri oscuri ma un automatismo indotto da una reazione a catena non più controllata dai soggetti umani. Quella reazione a catena passa dall'incrocio fra tecnica e finanza ed è visibile nell'odierna crisi globale. Da qui la necessità di rifondare la sovranità della politica. E di ripensare al Machiavelli del '900, quel tedesco in odore di romanità che ipotizzava la nascita di un patriottismo europeo. La Grande Politica di Schmitt e il suo nemico: il Tecnico, bardato di etica, a cavallo della finanza.
di Marcello Veneziani

sabato 24 novembre 2012

Così ammutolì Zarathustra. Nietzsche al tempo della crisi




La Tragedia della nascita. Disumano, troppo Disumano. Tramonto. La Triste Scienza. Così ammutolì Zarathustra. Necrologia della morale. Al di sotto del bene e del male. Finis Homo. Gli idoli del crepuscolo. Le lamentazioni di Dioniso. La Volontà impotente.Ho provato a rovesciare i titoli euforici delle opere di Friedrich Nietzsche e non per un gioco pirandelliano che fonda l'umorismo sul sentimento del contrario. Ho immaginato cosa potrebbe scrivere Nietzsche oggi. Un Nietzsche fedele alla promessa di Zarathustra, «tornerò di nuovo»; ma riapparso nell'epoca del nichilismo stanco in cui l'esaltazione cede il passo alla depressione, non scriverebbe sulla nascita della tragedia ma più cupamente sul dolore di venire al mondo. Non cercherebbe di andare oltre l'umano troppo umano, ma constaterebbe il trionfo del disumano. Non scriverebbe Aurora ma Tramonto, né la Gaia scienza ma la Mesta Scienza. Il suo Zarathustra non avrebbe più sermoneggiato ma sarebbe ammutolito perché la parola ha perso senso e valore. E non saluterebbe la nascita, anzi la genealogia, di una morale, ma ne studierebbe la necrologia. Non andrebbe poi al di là del bene e del male davanti allo spettacolo di una società caduta al di sotto del bene e del male. Non saluterebbe il sorgere dell'Oltre-uomo in Ecce Homo, piuttosto scriverebbe della fine dell'uomo. Non descriverebbe il grandioso crepuscolo degli idoli, piuttosto vedrebbe spuntare gli idoli e idoletti del crepuscolo. Non intonerebbe ditirambi entusiastici a Dioniso, ma geremiadi. E infine, non penserebbe di scrivere La Volontà di Potenza ma constaterebbe l'impotenza della volontà nell'eterno perdersi del mondo, più che nell'eterno ritorno.

Chi pensava che Nietzsche rappresentasse l'ultimo gradino del nichilismo nel pensiero occidentale, deve considerare ora la sua parabola ulteriore e discendente: dal nichilismo attivo nietzscheano al nichilismo passivo, dall'euforia pur tragica ed eroica di Zarathustra alla depressione cinica e dissolutiva del presente. Nietzsche reagì alla decadenza; un nuovo Nietzsche ne asseconderebbe il decorso. Alla fine, su Nietzsche ha vinto Leopardi, anzi un leopardismo pratico, impoetico. È la verità del nichilismo.
 
L'altro giorno, a Piuro, Emanuele Severino ha ricevuto il «Premio Nietzsche», e intorno al premiato e al titolare del premio si è imbastito un seminario con Sossio Giametta, decano dei nicciani, Massimo Donà, Giuseppe Girgenti, Andrea Tagliapietra, Armando Torno ed io. È il secondo seminario organizzato dal circolo culturale La Torre di Chiavenna, fra la Val Bregaglia e Sils-Maria, luogo elettivo di Nietzsche. Severino è forse oggi il filosofo italiano che ha tentato più di ogni altro di andare oltre Nietzsche, partendo dal cortocircuito del pensiero occidentale rispecchiato nel suo pensiero e nella sua vita. Ha cercato di capovolgere l'innocenza del divenire, caposaldo dell'eterno ritorno nietzscheano, nell'eternità dell'essere. E Sossio Giametta, gran traduttore di Nietzsche ha scritto, tra l'altro, un Commento allo Zarathustra (Bruno Mondadori, 2006) che sta all'opera di Nietzsche come il Commento di Miguel de Unamuno sta al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il paragone non è casuale. Zarathustra come Don Chisciotte affronta il mondo dopo la caduta del platonismo. Che nel suo caso è la caduta del cielo in terra e nel caso di don Chisciotte è la caduta del mondo ideale cavalleresco. Ma il primo si rifugia nell'avvenire e perso il cielo e gli dei, cerca di trovare sulla terra l'uomo superiore che erediterà la morte degli dei. Il secondo invece si rifugia nel passato e nelle sue allucinazioni, e persa la lucidità, cerca di abitare il suo sogno nella realtà, con i risultati tragici e grotteschi che conosciamo. La sorte dei loro autori è invece capovolta: Cervantes scarica le follie della vita sul suo personaggio, che impazzisce e muore. Nietzsche salva Zarathustra e lo lascia forte e ardente come il sole, ma carica su di sé la follia della sua profezia, e impazzisce.Tramite Zarathustra, Nietzsche aveva pensato di fondare una nuova religione terrena segnata dall'apparizione del sovrumano. Visione epica ed eroica, euforica e giocosa del destino. Una religione danzante e ridente, contro la religione mortuaria e nereggiante, afflittiva e punitiva del cristianesimo. Qui c'è qualcosa di più della polemica anticristiana, c'è la biografia di Nietzsche: quanto ha pesato su quella luttuosa visione del cristianesimo il ricordo infantile di suo padre pastore luterano morente? I vestiti neri e il lutto familiare degli anni seguenti, la fede come orfanità e vedovanza, la fanciullezza rubata dal dolore. La morte di Dio è forse la trasfigurazione celeste della morte del Padre, il pastore? A quell'età i ricordi si conficcano come chiodi. Ai suoi occhi Dioniso è l'infanzia del mondo che scaccia e riscatta la memoria triste della sua infanzia. Come l'elogio della salute vigorosa è l'esorcismo e il rifugio dalla propria salute cagionevole.

Nietzsche torna a danzare ma la musica non è più la sua. Ora che la storia è stritolata nella tenaglia tra la tecnica e la natura, ovvero tra la potenza innescata dall'umano e la rivincita del primordiale o basic istinct, Zarathustra è reclamato a gran voce e ridiscende dai monti. Lo reclamano quanti vedono in lui il profeta della volontà di potenza e del superuomo dell'era tecnologica. E quanti trovano in lui il profeta della natura liberata ed esuberante. Ma la potenza della tecnica non è più controllata dall'artefice, che ne è anzi soggiogato, e procede per suo conto; e la natura, incattivita dalle devastazioni, si rivale sulla civiltà e segna il primato degli impulsi emotivi e degli istinti bestiali sull'equilibrio del saggio vivere secondo natura. Dunque non è l'avvento del sovrumano che profetizzava Nietzsche, ma il dominio dell'automatico e del subumano a occupare la scena e a tradire il canto di Zarathustra.Pur consapevole che la strada di Nietzsche è senza sbocchi, torno sui suoi passi da una vita. Il primo articolo che pubblicai, a diciannove anni, fu dedicato a lui e al suo tempo venturo, che non venne mai, se non in versione rovesciata. Eppure mi ritrovo ancora, dopo svariati anni a parlare di lui e del suo Zarathustra, la bibbia dei miei diciott'anni. L'eterno ritorno di Nietzsche, e la vana speranza che ci si possa salvare da soli aggrappandosi al futuro.

di Marcello Veneziani

giovedì 22 novembre 2012

Buttafuoco, sul rogo dell'ironia c'è posto per tutti

Buttafuoco è forse il miglior fabbro del giornalismo cattivo. Sin da quando, praticante al Secolo d'Italia a inizio anni '90 firmava un boxino con lo pseudonimo Dragonera. Il direttore Gennaro Malgieri chiudeva il giornale ma non controllava la rubrica. La mattina dopo leggeva attentamente, prendeva carta e penna e cominciava a scrivere biglietti di scuse. Buttafuoco riuscì a farlo litigare con tutti, da donna Assunta agli alti papaveri dell'Msi.
Buttafuoco, pur lanciando frecce infuocate a destra e a sinistra, è più un umorista che un polemista. Usando la tecnica indiretta alla Pirandello: l'apparenza comica lascia intravedere la tragedia. Un esempio: la scena in cui l'autore descrive l'incontro con Gianfranco Fini in una strada di Roma. 


Spiega Buttafuoco, ex militante dell'Msi «tradito» da un Fini alla disperata ricerca di legittimazioni centriste: «È riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito - un ambiente, una comunità - che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l'ostracismo e l'indifferenza». Ma nella scena dell'incontro i due non si parlano: Fini è nell'auto blu. Si guardano attraverso il vetro, si riconoscono per l'attimo che basta al giornalista per notare una cravatta che ha il colore del «cane in fuga, bandiera di un'ambizione stritolata».


Molte frecce infuocate in questo libro sono riservate alla sinistra della gente che piace. Ecco Tiziano Terzani. «L'orientalista non si veste da orientale, il latinista non si veste da antico Romano, il grecista non si veste da Aristotele. Con la banalità antioccidentale non si fa orientalismo, ma nobile caricatura, più che orientalisti si fabbricano dei disorientati». Per spiegare il successo di Fabio Fazio, si recupera la fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco: «Al tempo del Mike, la tivù non era ancora diventata il cuscino trapuntato di colte sfumature, quello che è Fazio Fabio, cuscino di pregiate natiche».


E Oriana Fallaci? I due erano divisi da potenti motivazioni ideali. Destra «spirituale», saracena, socialista quella di Buttafuoco, destra illuminista, amica degli Usa, cattolica solo come lascito storico, quella della Fallaci. Dal «coccodrillo» di Buttafuoco per la «nemicona»: «Chi scrive adora Oriana Fallaci, non fosse altro che per un delizioso tormentone cui la sottoponeva Giuliano Ferrara. Chi scrive era al Foglio, giornale, ai tempi, con articoli non firmati. Ogni volta che le capitava sotto il suo attento occhio un pezzo appunto anonimo ma di suo gusto, chiedeva a Giuliano: “Chi ha scritto quest'articolo?”. E Ferrara, divertito, piano piano le diceva: “But', But', Butta'... Buttafuoco”. E giù urla: “Quello strrronzooo d'un maiaaale!”».


Troviamo un Dell'Utri «gatto di marmo imperturbabile e però ironico», un Berlusconi «a cui piace piacere al punto di anteporre il fottere al comandare». E nel ritratto-intervista che Buttafuoco gli dedica, Scalfari comincia con lo spiegare all'autore una mossa imparata da ragazzino, nei balilla: come si fa il saluto romano.

da ilgiornale.it

mercoledì 21 novembre 2012

Casaggì per Giorgia Meloni

Nonostante Casaggì abbia scelto, ormai da tempo, di fare un passo di lato rispetto alle strutture di partito e alle logiche interne delle correnti e delle fazioni, vogliamo manifestare il nostro appoggio a Giorgia Meloni,simbolo di un'intera generazione,candidata alle primarie del centrodestra in opposizione al segretario Alfano e alla cricca di politicanti e lacchè che lo circondano.


lunedì 19 novembre 2012

Per Giorgia Meloni

"Mi candido perché l’esperienza di Monti è stata fallimentare. Perché bisogna restituire agli italiani il diritto di scegliersi i governi dai quali farsi rappresentare e non farseli dettare dalla casa Bianca, dalle cancellerie europee e da nessun altro". Giorgia Meloni


Pur essendo, ormai da tempo, al di fuori dalle logiche correntizie e partitiche, non possiamo che accogliere positivamente la candidatura di Giorgia, persona che ha sempre svolto con la massima serietà il proprio ruolo e che si è sempre res
a disponibile sui territori, raccogliendo - come anche in queste ore sta accadendo - consensi trasversali ed estesi.

Le auguriamo tutto il bene in questa difficile sfida contro il vecchio e il brutto della politica italiana.


venerdì 16 novembre 2012

c'è un'Italia che non molla!


Se abroghiamo anche la dura legge del gol, cosa ci resta?




Larghissima parte della giovane destra italiana ha vissuto gli ultimi decenni su di un paradigma ben preciso. Non è mai stato fatto mistero dell’affezione alla musica degli 883 e di Max Pezzali, che ha avuto il pregio di sintetizzare questo assioma in uno dei suoi testi. Tutti lo ricordiamo. E’ la dura legge del gol, quella che ti spiega che a vincere sono gli altri, non tu. Quella legge che ti dice anche che vincere non è fondamentale: gli altri segnano, però che spettacolo quando giochiamo noi! Non molliamo mai! Perché in fin dei conti siamo stati sempre convinti di essere uno squadrone, tanto affascinato dalle proprie prestazioni, quanto incapace di non subire i gol degli avversari. Belli e perdenti. E non me ne vogliano i tanti giovani che hanno ottenuto le proprie vittorie locali, i seggi romani o addirittura i Ministeri. Le partite che contavano le abbiamo sempre perse, con immenso stile e con la convinzione di tutti i tifosi che il match fosse valso il prezzo del biglietto. Ma i risultato non cambia. E questo a noi è sempre andato bene così: era il nostro paradigma. E non mollavamo mai.

 Perchè il destino era avverso, gli avversari fortissimi, e poi i media e la cultura, poi le risorse e i poteri forti e tutto quello che sappiamo. Che spettacolo quando la cenerentola del campionato gioca così bene! E tanto bastava.
Oggi però la giovane destra sta decidendo di non scendere neppure più in campo, sta pensando che, dato che subire gol è inevitabile, tanto vale rimanere negli spogliatoi. Che fine ha fatto lo squadrone? Siamo ancora noi? Sembra proprio di no: sembra che qualcuno preferisca uno 0 a 3 a tavolino che uno 0 a 5 sul campo. E allora il paradigma cade con buona pace del nostro calcio champagne e del mito dello squadrone che non molla mai. La fine più triste, per un paradigma triste

Non abrogatela quella legge. Per favore. Non è una legge che fa la Storia, ma è quello che abbiamo sempre avuto, l’unica forza in un tempo difficile, in un campionato in cui l’obiettivo realistico è sempre stata la salvezza. Mister, ci faccia scendere in campo! In questi anni, a forza di subirne, il contropiede l’abbiamo studiato pure noi e magari riusciamo a buttarla dentro. L’entusiasmo del nostro gioco non è mai tramontato nonostante le sconfitte: se non lo hanno scalfito gli altri, perché dovremmo ucciderlo noi?

Un mediano vecchio stampo

giovedì 15 novembre 2012

PALESTINA LIBERA!


la nostra risposta al nulla che avanza!


dilaniamo il VOSTRO grigio!


L'Euro come "stupro" culturale...


Oggi l’euro sta sugli attributi un po’a tutti. Quello che fino a qualche anno fa era solo scetticismo e ostilità da pensionato che rimpiangeva i tempi in cui con ventimila lire facevi la spesa per una settimana mentre con venti euro oggi ci mangi si e no due giorni, con l’acutizzarsi della crisi è stato sdoganato dalle chiacchiere da bar ed è approdato al mondo della ricerca scientifica,strutturata da esperti di economia in una critica coerente e tecnica della moneta unica,volta ad analizzare che razza di toppata è stata e a trovare possibili alternative. 

Parlare male dell’euro, se prima era passatempo da ignoranti che di economia non capiscono niente e non sanno che ci ha salvati dall'inflazione, c’ha impedito di fare la fine dell’Argentina eccetera, oggi non è più un tabù, si può e per qualcuno si deve. Io che però di economia non capisco una mazza, e che non mi azzardo a operare in settori nei quali sono molto ferrato, sono stato sempre però interessato a ciò che l’euro mi rappresentava a livello culturale, all'impatto sul modo di pensare della gente d’Europa a seguito della sostituzione delle varie valute nazionali con una moneta unica per tutti i paesi. La cosa mi ha sempre fatto accapponare la pelle, perché se c’è qualcosa che un popolo ha di indiscutibilmente familiare sono i soldi che maneggia ogni giorno, e questo comporta molto a livello di immaginario collettivo, di usanze, di modi di dire, di costumi: usare la stessa moneta per secoli fa si che questa entri a far parte della tua identità culturale di italiano,francese,spagnolo eccetera. 

L’operazione euro mi è parsa da sempre una “violenza” culturale, un colpo alle rispettive identità nazionali in prospettiva della creazione definitiva di una super-nazione frutto della disintegrazione delle varie nazioni europee che a me ha sempre atterrito. Quando in Gran Bretagna ci si interrogò sull’opportunità di aderire o no alla moneta unica (cosa che poi non avvenne) un eminente giornale titolò: “ci volevano 1200 anni di storia della nostra moneta per arrivare a questo?” sopra la foto delle nuove, orripilanti banconote. Questo per dire che le sterline in Inghilterra non sono solo un pezzo di carta, ma sono “storia”, tradizione, cultura, come lo era ogni altra moneta europea, a cui sono state dedicate canzoni, film, poesie, modi di dire. L’euro tutto ciò non lo suscita, e perché? Perché è percepito come qualcosa di “esterno”, di artificiale, come una convenzione: in dieci anni dall’introduzione della moneta unica non si è creato un modo di dire relativo all’euro, non si dice “non vale un euro” ma si continua a dire “non vale una lira” o “non gli dai due lire”, "non c’ho una lira”. Suona meglio. Non si sono scritte canzoni a lui dedicate,”se potessi avere mille euro al mese”, non produce “cultura” l’euro.  

Lo stesso probabilmente è avvenuto nel resto d’Europa: l’euro è subito dagli europei, con l’euro compriamo da mangiare, mettiamo la benzina alla macchina ma è percepito come un corpo estraneo: sta anche in questo la toppata dell’operazione. Anzitutto qualcuno mi spieghi perché io mi devo esprimere in “cent” ,come fossi Zio Paperone e stessi in un fumetto Disney: sono in Italia e sulle mie monete voglio che ci sia l’italiano, non l’inglese. Poi il nome che si è scelto per tale valuta tradisce l’artificialità dell’operazione: la moneta italiana si chiamava “italo” per caso? Quella spagnola “ispano”? Non mi pare. I nomi delle varie monete europee avevano un significato: lira da “libbra”,ne senso di libbra di argento portata alla zecca dai privati, in cambio della quale venivano dati 240 denari (questo all’epoca di Carlo Magno); dracma era il nome di una moneta dell’antica grecia,da δράττω (afferrare), in uso già nel 1200 a.c; sterlina deriva dall’espressione “pound of sterling Silver”, da sterling che vuol dire argento, e indicava una quantità pari a una libbra precisa di argento puro. E l’euro? Che vuol dire? Niente: si sono messi attorno a un tavolo e non venendogli nulla di meglio e che andasse bene a tutti hanno pensato di chiamarlo così, col prefisso che indica “qualcosa che a che fare con l’Europa”. 

Ma non è solo quello: anche a livello grafico non è che si sono sprecati. Le banconote in particolar modo sono orribili, modellate sullo stile di quelle nordeuropee ma molto più stilizzate: nessuna scritta, solo la cifra sopra la dicitura “euro” in caratteri latini e greci, sullo sfondo di vetrate di palazzi, ponti, facciate di chiese che non esistono. Nessun volto di persone famose, di personaggi rilevanti a livello culturale o politico per la storia d’Europa. Potevano metterci l’effige di Beethoven ad esempio, tra l’altro convinto europeista (tanto che l’inno alla gioia della nona sinfonia è divenuto l’inno europeo), o se vogliamo buttarla in politica, di Robert Schumann, quello dell’”Europa dei piccoli passi”, padre fondatore dell’Unione... a voglia a Europei illustri! Macchè, niente “facce” su sti soldi, solo facciate, di immaginari palazzi costruiti in astratti modelli architettonici. E un qualcosa che non ha volto non ha una identità, non è identificabile, non entra nella testa della gente se non sotto forma di iattura, di ennesima fregatura rifilataci dai “politici”...come per l’appunto le tristi e squallide monete che abbiamo nel portafogli.

di Federico Ponzo

lunedì 12 novembre 2012

Nassirya 9 anni dopo..




Il 12 novembre ricordiamo il nono anniversario della strage di Nassiriya (Iraq) nella quale persero la vita 19 italiani, tra militari e civili:

 Tenente Massimiliano FICUCIELLO, Luogotenente Enzo FREGOSI, Aiutante Giovanni CAVALLARO, Aiutante Alfonso TRINCONE, Maresciallo Capo Alfio RAGAZZI, Maresciallo Capo Massimiliano BRUNO, Maresciallo Daniele GHIONE, Maresciallo Filippo MERLINO, Maresciallo Silvio OLLA, Vice Brigadiere Giuseppe COLETTA, Vice Brigadiere Ivan GHITTI, Appuntato Domenico INTRAVAIA, Carabiniere Scelto Horatio MAIORANA, Carabiniere Scelto Andrea FILIPPA, Caporal Maggiore Emanuele FERRARO, Caporale Alessandro CARRISI, Dottor Stefano ROLLA, Signor Marco BECI.

 Un vile attentato in cui morirono in tutto 28 persone tra cui molti civili. Oggi la memoria è tornata un pò a tutti, dichiarazioni, comunicati, commemorazioni.
 Noi ci sentiamo di ricordare, nel ricordo apolitico dell'evento stragista, solo le parole pesate dell’arcivescovo, ordinario militare, mons. Vincenzo Pelvi che oggi ha presieduto una celebrazione eucaristica a Roma presso la Basilica di Santa Maria in Aracaoeli, parole che mettono d'accordo tutti : "I caduti in missione di pace - ha detto - non moriranno mai". 

Loro, vittime di una guerra non italiana, la pace l'hanno trovata sicuramente, il Medio Oriente purtroppo, difficilmente migliorerà la sua posizione. Morti per chi? Morti per cosa? L'eco di queste domane è quasi più forte del dolore dei familiari.

9 anni dopo..


Su questo catrame nero più nero che c'è

Una guerra di altri si è schiantata su me



12.11.03 - 12.11.2012
IN MEMORIA DEI CADUTI DI NASSIRIYA


venerdì 9 novembre 2012

A Ventitre anni della caduta del muro di Berlino


Il 9 Novembre del 1989 è una data fissa nel cuore e nella mente di tutti.A Berlino veniva definitivamente abbattuto il muro della vergogna che separava da anni la città e tutta l'Europa. Cadde il muro e caddero i sogni di chi voleva un'europa bolscevica.Oggi muri ce ne sono ancora tanti: quello della crisi economica,quello dell'usurocrazia e della prepotenza bancaria,quello del precariato,quello della droga,quello del disimpegno,quello di un'Europa che esiste solo in virtù d numeri e della cartomoneta.Quei muri dobbiamo abbatterli noi. Sono i nostri muri. 
Ventitrè anni fa crollava quello del comunismo,domani dovranno crollare quello dell'omologazione e delle ingiustizie sociali.

Oltre ogni Muro..

Il 9 novembre 1989 crollava l'Europa dei muri
ADESSO DEMOLIAMO QUELLA DEI BANCHIERI


giovedì 8 novembre 2012

Quella ricetta di Mussolini che salvò l'Italia dalla crisi


tratto da ilgiornale.it
Esce oggi in tutta Italia il nuovo libro di Bruno Vespa «Il Palazzo e la piazza. Crisi, consenso e protesta da Mussolini a Beppe Grillo» (Mondadori-Rai Eri, 444 pagine, 19 euro). Il saggio dell'anchorman e conduttore di Porta a porta è una cavalcata attraverso le crisi economiche italiane e internazionali, dalla crisi del 1929 a quella attuale, che pesa di più sull'umore popolare per i clamorosi casi di corruzione politica che hanno fatto esplodere astensionismo e voto di protesta anche nelle recenti elezioni siciliane.



Ne pubblichiamo un ampio brano dedicato all'operato del Duce.
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Poiché è stata la crisi del 2011-12 a suggerire l’idea di questo libro, e a fronte delle difficoltà incontrate dal go­verno Monti nel taglio della spesa pubblica, può essere interessante vedere come se la cavò Mussolini nell’altra Grande Crisi del secolo scorso. Come ogni regime dittatoriale, il fascismo spendeva grosse cifre per la difesa:all’inizio della crisi es­se rappresentavano il 32 per cento del bilancio statale, contro il 14 de­gli stanziamenti per opere pubbli­che. Ora, negli anni successivi al 1931, il bilancio della Difesa fu ta­gliato del 20 per cento, mentre lo stanziamento per opere pubbli­che fu quasi raddoppiato. («Nei primi dieci anni del mio governo­ - amava puntualizzare il Duce- si è speso in opere pubbliche più di quanto abbiano speso i governi li­berali nei primi sessant’anni dal­l’Unità d’Italia»). Il bilancio della polizia, altra po­sta strategica del regime, fu decur­tato del 30 per cento, come quello della Giustizia, mentre gli stanzia­menti per le Colonie furono ridot­ti quasi del 50 per cento. Colpisce, invece, che non sia stato tagliato di una sola lira il bilancio della Pubblica istruzione. Nonostante la scuola fosse uno dei settori sui quali Mussolini puntava mag­giormente (famoso lo slogan «Libro e moschet­to »), l’istruzione non fu mai veramente «fascistiz­zata », perché tra gli stessi in­segnanti fascisti erano pochi quelli che accettavano di svuotare la scuola della sua funzione culturale appiatten­dosi completamente sulle esi­genze del regime. Furono ridotti del 20 per cento anche i servizi fi­nanziari, malgrado i robusti inter­venti per salvare banche e impre­se. Nella prima metà degli anni Trenta il bilancio dello Stato oscil­lò tra i 19 e i 21 miliardi di lire. Nel­l’esercizio finanziario 1930-31 il disavanzo fu limitato al 2,5 per cento, ma dall’anno successivo passò via via dal 20 al 35, per ridi­scendere al 10 nel biennio 1934-35 .
Per farvi fronte, non volendo ri­nunciare alla parità aurea nono­stante la svalutazione del dollaro e della sterli­na, Mussolini fu costretto in cin­que anni a di­mezzare le ri­serve d’oro della Banca d’Italia. Gli inasprimenti fiscali raggiun­sero il picco nel 1934 con l’aggravio delle imposte sugli scambi e sulle successioni. Fu lì che il Du­ce disse «basta», con una frase che suonerebbe ancor oggi di notevo­le buonsenso: «La pres­sione fiscale è giunta al suo limite estremo e biso­gna la­sciare per un po’ di tempo as­solutamente tranquillo il contri­buente italiano e, se sarà possibi­le, bisognerà alleggerirlo, per­ché non ce lo troviamo schiacciato e defunto sotto il pesante far­dello ». (...) La diffusione delle biciclette e delle tramvie ex­traurbane aveva favorito il pendola­rismo tra campagna e città, cosicché si for­mò una potenziale nuova classe lavoratrice che i sindaca­ti cercarono di arginare, difenden­do gli operai urbani. I sindacati fa­scisti chiesero la riduzione del­l’orario lavorativo settimanale a 40 ore a parità di salario: l’Italia fu il primo paese al mondo a intro­durre tale misura fin dal 1934, una scelta così avanzata che è ancora in vigore quasi ottant’anni dopo. (…)
Nel 1933 il regime modificò radi­calmente il sistema assicurativo pubblico creando l’Istituto nazio­na­le fascista della previdenza so­ciale (Infps), dotato di gestione autonoma. Prima della fine del decennio, furono appron­tati diversi ammortizzatori sociali,come l’assicurazio­ne contro la disoccupazio­ne, gli assegni familiari e le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o a ora­rio ridotto. Per compensare i sacri­fici chiesti ai lavoratori e alle loro famiglie con le riduzioni salariali, il regime predispose «una serie di servizi sociali e di possibilità ricre­ative, sportive, culturali, sanita­rie, individuali e collettive, sino al­lora sconosciute o quasi in Italia e che influenzarono largamente il loro atteggiamento verso il fasci­smo e soprattutto quello dei giova­ni che più ne usufruirono». (...) In un paese ancora povero, in cui pochissimi bambini potevano permettersi le vacanze al mare, fu provvidenziale l’istituzione delle colonie estive, i cui ospiti passaro­no da 150mila nel 1930 a 475mila nel 1934. Nel 1926, un anno dopo la sua costituzione, l’Opera nazio­nale dopolavoro contava 280mila iscritti, che un decennio più tardi erano saliti a 2 milioni 780mila, per raggiungere i 5 milioni alla vigi­lia della seconda guerra mondia­le: quasi il 20 per cento dell’intera popolazione italiana. Gli aderenti godevano di alcune forme di assi­stenza sociale integrativa oltre a quella ordinaria, della possibilità di fruire di sconti e agevolazioni e, soprattutto, di partecipare a una lunga serie di attività sportive, ri­creative e culturali.
Agli adulti la tessera del dopolavoro dava dirit­to a forti sconti su ogni tipo di sva­go: dai cinema ai teatri, dai viaggi alle balere, dagli abbonamenti ai giornali alle partite di calcio. Tut­ti, iscritti e non, avevano diritto ­se bisognosi- alla refezione scola­stica, a libri e quaderni gratuiti,al­l’accesso a colonie marine, ai cam­peggi estivi e invernali, all’assi­stenza nei centri antitubercolari. (...) Rexford Tugwell, l’uomo più di sinistra dell’amministrazione americana, pur collocandosi ideo­logicamente agli antipodi del fa­scismo, riconosceva che il regime stava ricostruendo l’Italia «mate­rialmente e in modo sistematico. Mussolini ha senza dubbio gli stes­si oppositori di Roosevelt, ma con­trolla la stampa e così costoro non possono strillare le loro fandonie tutti i giorni. Governa un paese compatto e disciplinato, anche se con risorse insufficienti. Almeno in superficie, sembra aver com­piuto un enorme progresso. Il fa­scismo è la macchina sociale più scorrevole e netta, la più efficiente che io abbia mai visto. E ne sono in­vidioso».

mercoledì 7 novembre 2012

Tra coerenza e tradimento



Schiacciato dalla folla su una balaustra all'ingresso della chiesa di San Marco a Roma, ho visto sfilare tutta la destra italiana, quella nostalgica, quella moderata e quella radicale, ai funerali di Pino Rauti. È stato un documentario dal vivo di un mondo ferito e non suoni strano quel «vivo» riferito a un funerale. 

Da qualche anno le manifestazioni più vive e riuscite della destra sono i funerali. Non c'è solo l'antica familiarità del mondo missino con i riti nostalgici per i caduti, con l'estetica mortuaria. C'è la percezione comune di un mondo che volge alla fine. Quella ferita ha ripreso a sanguinare alla vista di Fini, contestato con feroce durezza: voglio pensare che Fini non abbia voluto - almeno stavolta - disertare e rendere onore a un leader, pur sapendo di andare incontro al pubblico vituperio. Non era il momento e il luogo per contestare Fini, ma va compresa la rabbia e la delusione di quel mondo ferito e ipersensibile ai tradimenti.

Ma lasciamo i Fini che passano e tentiamo un bilancio del rautismo. Rauti tentò la folle impresa di far politica a colpi di idee e visioni del mondo. Trasferì la nostalgia del piccolo mondo missino dalla Repubblica Sociale al Sacro Romano Impero, immettendo il fascismo nel più maestoso fiume della Tradizione, con la T maiuscola. Sognò l'Europa in pieno nazionalismo missino, lanciò il comunitarismo in pieno cameratismo, scoprì l'ecologia in piena ideologia e istigò alla lettura giovani militanti, sottraendoli al puro attivismo e alla retorica patriottarda. A lui si avvicinò l'ala colta giovanile che non si accontentava dei saluti romani e del tricolore, leggeva Evola e lo preferiva a Gentile, faceva i campi hobbit e riteneva il liberal-capitalismo il nemico principale. Rauti esortò a leggere e pensare un ambiente versato nell'azione, nell'etica della sconfitta e nell'estetica del risentimento. «Veniamo da lontano» fu il suo motto. Aveva la lungimiranza ideale dei grandi miopi e la scarsa dimestichezza pratica. Le sue lenti spesse lo resero un alieno per la destra militante. Rauti perse la sua aura di ayatollah intellettuale quando perse le diottrie, dopo un'operazione agli occhi. È come se si fosse secolarizzato, spogliandosi delle sue lenti.

Rauti cercò in un primo tempo di trasferire il pensiero impolitico di Julius Evola nella militanza politica del Msi e poi di Ordine nuovo e poi ancora del Msi, in cui rientrò. Subì il carcere per il suo radicalismo ideologico, coinvolto nella strage di Milano; ma ne uscì indenne, eletto a pieni voti in Parlamento nelle elezioni del '72. Poi, alla morte di Evola ma sul filo della sue opere più trasgressive - come Cavalcare la tigre - Rauti intraprese, lui di destra tradizionale e radicale, un percorso inedito che lo portò a vagheggiare «lo sfondamento a sinistra» e l'alleanza rivoluzionaria. L'impresa si condensò soprattutto in una vivace rivista quindicinale, Linea, da cui siamo passati in tanti, ed ebbe un ruolo decisivo nella nascita della cosiddetta Nuova Destra. Era una linea di forte suggestione che apriva nuovi scenari, pur occhieggiando al fascismo sociale e rivoluzionario. E liberava la destra militante dalla sindrome dell'assedio, del ghetto e della guerra civile permanente con la sinistra. Ma la linea rautiana non ebbe interlocutori a sinistra, e trovò scettica ironia a destra; si perse nel fumo astratto di una lotta al liberalcapitalismo che non aveva compagni di strada né strumenti idonei per così titanica impresa. La sua linea fu sconfitta da Almirante che aveva più grande fascino oratorio e sapeva toccare come pochi le corde della nostalgia. Almirante ti guardava negli occhi con i suoi occhi azzurri; lo sguardo di Rauti si perdeva nei vetri dei suoi occhiali. Nessuno dei due poteva dirsi stratega politico: Rauti guardava troppo lontano, Almirante troppo vicino. L'uno faceva della politica una Visione del Mondo piuttosto nebulosa; l'altro faceva della politica un sublime teatro di piazza e di video, una fiammata che durava l'arco di un comizio. L'Ideologo e l'Artista.
Per galvanizzare i militanti Rauti soleva dire che il peggiore dei nostri è meglio del migliore dei «loro»; frase utile per cementare un ambiente diviso, ma falsa e foriera, nelle menti più deboli, di uno stupido settarismo. La sezione non era il tempio di un ordine cavalleresco.
L'audace svolta a sinistra di Rauti avvenne sull'orlo della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Rauti, invece, restò nel Msi capeggiando una corrente di minoranza e di opposizione interna ad Almirante e poi a Fini. La sua casa madre fu per anni in via degli Scipioni in Roma, un centro politico-librario in cui transitavano militanti e lettori. Poi la breve ma infelice esperienza di segretario del Msi, fin troppo cauto, curiosamente schierato a fianco della Nato nella guerra contro Saddam Hussein, lui che rappresentava la destra filopalestinese e antiamericana (mentre Fini, al seguito di Le Pen, andava a trovare il dittatore irakeno). Negli anni seguenti, gli ex rautiani superarono di gran lunga i rautiani e si disseminarono ovunque. Anche larga parte degli odierni finiani provengono dalla corrente rautiana e antifiniana. Le idee che mossero il mondo fu il suo libro più noto (a cui si aggiunse l'imponente Storia del Fascismo scritta con Rutilio Sermonti). Con la nascita di An, Rauti abbandonò il partito e suo genero, Gianni Alemanno, e tentò la vana impresa di rianimare la fiamma tricolore. Finì male, tra diaspore e microscissioni; più che un partitino avrebbe dovuto forse far nascere una Fondazione per formare i giovani e garantire la continuità con le radici sul piano storico e culturale. Passò per nostalgico, lui che ai tempi in cui Fini esaltava il Duce, sosteneva di andare oltre il fascismo. Rivoluzionario sul piano delle idee, Rauti era una persona mite e cortese, con una vita tranquilla, sin da quando era redattore de Il Tempo, attaccato alle sue abitudini domestiche (i più intransigenti camerati gli rimproveravano la pennica pomeridiana e il braccino corto, il familismo e il salotto col cancelletto per interdire l'accesso sui divani al cane volpino). 
Rauti può dirsi l'Ingrao della destra o forse il Bertinotti. Restò a mezz'aria tra la politica e la cultura, ma fece un pezzo di storia della destra, e non la peggiore. La brutta fine della destra - e di Fini in particolare - esalta per contrasto la figura e la statura di personaggi come Pino Rauti. Al loro cospetto, giganteggia. Non solo le sue lenti erano di spessore. Mancò la fortuna, forse il coraggio, non il valore.

di Marcello Veneziani

martedì 6 novembre 2012

FERMA IL MUOS,DIFENDI LA TUA TERRA..



Il Mobile User Objective System (Sistema Oggetto ad Utente Mobile) è un sistema di comunicazioni satellitari (SATCOM) ad altissima frequenza (UHF) ed a banda stretta composto da quattro satelliti e quattro stazioni di terra, una delle quali è in fase di realizzazione in Sicilia, nei pressi di Niscemi. Il programma MUOS, gestito dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti, è ancora nella sua fase di sviluppo e si prevede la messa in orbita dei quattro satelliti tra il 2010 ed il 2013. Ne esistono altri 3 nel mondo ma solo quello in Australia è realmente isolato dal deserto immenso. Mentre gli altri due si trovano in zone strettamente militarizzate. 

Il progetto del Muos siciliano, ribattezzato dal comitato “Terra Nostra” l'eco Muostro, vede la realizzazione di questi enormi padiglioni a pochi chilometri dal comune di Niscemi e dalla provincia di Caltanissetta. Secondo il Politecnico di Torino la struttura presenta serie problematiche per la popolazione residente e soprattutto vi sono diverse lacune nelle relazioni presentate al ministero della difesa attraverso l'Arpa con la garanzia dell'allora Ministro La Russa e del placit del governatore Lombardo. La struttura è quasi completata, mancano i collegamenti e la messa in orbita con gli altri 4 satelliti. Oltre la protesta esiste un fascicolo di indagine della Procura di Caltagirone e diversi esposti anche da parte dell'ex amministrazione di Niscemi. 

Dopo la manifestazione di protesta, vietata dalla questura di Caltanissetta, si è scatenata un'attenta interrogazione parlamentare a tutela del diritto di manifestazione sancito nella costituzione a firma degli onorevoli Catanoso, Frassinetti, Minasso e De Angelis (area Pdl). Nonostante il silenzio dell'europarlamento, la zona è anche di interesse ambientale e faunistico trovandosi immersa in un parco. Ci sono stati anche diversi tentativi di “imbuonirsi” la cittadinanza: per il Dipartimento di Stato basta gemellare un liceo siciliano con una high school d’oltreoceano e il gioco è fatto. Così, lo scorso 15 febbraio, il Public Affairs Office del Consolato generale degli Stati Uniti di Napoli ha inviato una lettera all’Associazione americana degli insegnanti d’italiano (AATI), istituzione fondata in Canada nel 1924 per promuovere lo studio della lingua e della letteratura italiana nei college e nelle università nordamericane. Oggetto, lo sviluppo di un Sister School Program a Niscemi. 

Non solo. Negli ultimi due anni accademici, l’Università di Catania è pure riuscita a strappare 475.000 dollari allo SPAWAR - Space and Naval Warfare Systems Center Pacific, il centro di ricerca spaziale della Marina di guerra statunitense, per programmi top secret nel campo dell’elettronica e delle telecomunicazioni. E allo SPAWAR, guarda caso, fa capo il miliardario programma di realizzazione della rete MUOS… Diverse sono le relazioni tra l'Università di Catania nel suo polo ingegneristico e l'Aeronautica Americana, Sigonella a parte. Gli elementi per protestare sono molteplici, primo tra tutti il silenzio della classe dirigente al riguardo. Sappiamo tutti quanto sia fondamentale la posizione geopolitica della Sicilia visto i recenti sviluppi nel Medio Oriente e la dichiarazione quasi congiunta di Obama e Romney circa l'utilizzo di droni nella guerra in Siria. 

E questi “droni” militari da dove dovrebbero partire?? C'è mezzo arsenale statunitense dislocato tra la Sicilia e la Turchia, in tutto il mediterraneo, sempre più al centro del mondo militare mondiale. Adesso c'è di mezzo la popolazione siciliana, che rischia, nel suo cuore più pulito e naturale, tumori, malformazioni, neoplasie e tutta una serie di patologie connesse e poco studiate, all'inquinamento dovuto a una forte dose di onde elettromagnetiche. Il Muos è tutto questo e molto altro ed è da parte nostra che tocca fare la differenza, per una Sicilia libera, non bastassero già i suoi problemi, adesso ci si mette anche lo zio Tom... scendiamo a protestare, siamo stati la culla della civiltà e della filosofia, come potremmo mai divenire la tomba della libertà?

lunedì 5 novembre 2012

L’incendiario di anime che faceva sognare i giovani


Tra pochi giorni Pino Rauti avrebbe compiuto 86 anni. Con la sua morte un altro pezzo importante, indimenticabile, del mondo della destra italiana viene consegnato alla storia. Rauti ha attraversato il Novecento facendosi contaminare dalle contraddittorie passioni e dalle incendiarie speranze di un secolo che sfidava gli animi più inquieti e avventurosi, gli intelletti più acuti, i giovani più disposti a mettersi in gioco. 

Rauti fu uno di quei giovani: a 16 anni si arruola nella Rsi e alla fine del 1946 partecipa alla fondazione del Movimento sociale. Negli anni Cinquanta fu vicino al pensiero radicale di Julius Evola, fonda il Centro Studi Ordine Nuovo ritenendo di dare continuità a un fascismo di tipo spirituale, quello legato al mito dell’«uomo nuovo». Rientra nel Msi nel 1969 (da dove era uscito con l’avvento alla segreteria di Arturo Michelini) con l’arrivo di Giorgio Almirante al timone del partito. 

È alla metà degli anni Settanta però che Rauti diventa punto di riferimento di un’ampia area giovanile, affascinata dall’idea di nuove parole d’ordine che giungono a contestare la stessa identità di destra del Msi, indicando la strada del dialogo con i nemici dell’altro fronte, da considerare ormai come avversari con cui cercare il confronto e non più lo scontro. Intuizioni che consentirono di strappare molti giovani alla deriva terroristica e offrirono a molti altri un modello alternativo all’attivismo classico. 

Prospettive che troveranno forma nella mozione congressuale Linea Futura (al congresso del Msi del 1977), che rappresentò un esperimento di rottura nella dialettica interna al partito. In questi termini ne parla Marco Tarchi nel suo libro “Dal Msi ad An”: «Il progetto di innovazione politico-organizzativa più radicale è quello di Linea Futura, che denuncia l’insufficienza della strategia di Destra nazionale e si propone di organizzare la protesta meridionale e spingere il partito a contestare il modello di sviluppo neocapitalistico, promuovere iniziative anticonsumistiche, prestare attenzione ai temi ecologici e urbanistici. Le nuove strutture auspicate dai rautiani – continua Tarchi – mirano ad un “partito di quadri, di organizzazione moderna, di militanza politica e sociale, proiettato verso l’esterno”, che deve distinguere tra aderenti e militanti, creare cooperative e comitati di mobilitazione, uscire alla routine con interventi in ambito sociale e puntare su un’offerta politica diretta in primo luogo a giovani e donne, che delinei una controffensiva politica razionale e accantoni nostalgie e ribellismo». 

Un modello movimentista difficilmente conciliabile con il partito-apparato da cui scaturirà la stagione creativa dei Campi Hobbit, uno dei fenomeni più studiati (e più imitati negli anni successivi) che caratterizzarono il mondo giovanile a destra. Quell’esperienza aprì orizzonti inediti per i ventenni di allora, non più costretti nel clichè del militante anticomunista “duro e puro”. La lezione di quei raduni (malvisti dal vertice del Msi) è molto semplice: si poteva incidere nel proprio tempo anche facendo musica, scrivendo poesie, tentando di dar vita a un modello comunitario che potesse rappresentare la naturale evoluzione del “cameratismo” reducistico. Era paradossale che a capo di questi fermenti vi fosse un uomo come Pino Rauti, che aveva combattuto, che aveva creduto nella “milizia” senza compromessi di chi «sta in piedi tra le rovine», che non aveva mai rinnegato il fascismo, un intellettuale raffinato, scrittore e giornalista, poco incline a far maturare le sue sintesi dalle complicità con le platee giovanili. 

Eppure i giovani trovavano nei suoi discorsi un’ampiezza, una profondità, uno stimolo per uscire dal “ghetto”, per dare prospettive persino vincenti a una condizione di minorità politica e culturale che era dura da sopportare. Nei suoi discorsi, soprattutto in quelli, Rauti sapeva toccare le corde giuste. La memoria corre a quelle parole (non a caso fu definito, un «incendiario di anime») più che alle schermaglie congressuali, che lo videro avversario prima di Giorgio Almirante e poi di Gianfranco Fini. Ai giovani Rauti parlava di un fascismo “metafisico”, non quello dei compromessi, dei treni in orario, delle sciagurate leggi razziali, delle leggi liberticide, ma quello che andava incontro al popolo, quello che si chinava sugli ultimi per tentarne il riscatto, quello sociale e socialista. E con quel “fascismo immenso e rosso”, che poteva piacere a destra come a sinistra, che era al di là della destra e della sinistra, declinava alla sua maniera personalissima il motto “non rinnegare non restaurare”. 

Là, diceva, stavano le radici, lì stava il senso, lì stava il retroterra da cui si poteva attingere ancora per non autocondannarsi all’inattualità. Quelle parole piacevano e commuovevano, come quando raccontava dell’incontro in Francia con i “falchetti rossi” del Fronte Popolare di Leon Blum, ormai anziani, e li paragonava alle schiere di bamibini derelitti che il fascismo italiano aveva portato nelle colonie marine, per ritemprarli nel corpo e nello spirito. Ma Rauti non sapeva animare solo la memoria. Era uomo capace di sfide intellettuali. La più ardita: lo sfondamento a sinistra. Anticipò la fine del comunismo, una fine che sarebbe avvenuta – diceva – non per le armi americane ma per la diffusione del capitalismo. 

E chi se non chi proveniva da certe radici, (dalla “nostra storia”, sintetizzava) poteva rialzare il vessillo dell’anticapitalismo, denunciare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, opporsi al materialismo che offusca lo spirito e rende le società incapaci di risollevarsi? Su questo terreno, predicava Rauti, con la sinistra si potevano trovare punti di contatto, superando al contempo la paludosa politica democristiana e il logoro antifascismo militante. Un sogno. Una speranza. Un tema che fu tra i più osteggiati e ridicolizzati all’interno del Msi ma che allo stesso tempo, anche attraverso gli articoli del quindicinale “Linea”, aveva modo di ricollegarsi a un filone di autori come Sombart e Max Weber. Un tema capace di scavare nel solco aureo di pensatori trascurati e marginalizzati dalla cultura progressista. Perché bisognava leggere, e tanto, per dialogare con gli avversari, per convincerli, per dimostrare loro che la destra non soffriva di alcun complesso di inferiorità. 

Un invito che Rauti rivolgeva soprattutto alla classe dirigente di un partito che a suo avviso si accontentava di vivacchiare sulle parole d’ordine dell’anticomunismo: «Dovete mettervi a studiare», esortava. Ed era un’esortazione che conteneva anche una pesante critica all’approssimazione di una politica fondata sulla “pesca delle occasioni”. Anche sull’immigrazione, altro tema ruvido per la destra, Rauti seppe indicare la strada difficile ma salutare per uscire dal recinto ottuso della xenofobia e proprio quando conquistò la segreteria del Msi, nel 1990. 

L’immigrato non è un nemico, diceva, ma uno “sradicato”. Un’analisi che diventava aneddotica nei suoi discorsi, come quando raccontava di avere visto a Birmingham un gruppo di bambini di colore che sguazzavano in una pozzanghera: «E io mi chiedevo e mi chiedo: che ci fanno questi bambini sotto il cielo grigio di Birmingham?». Anche loro sfruttati da un Occidente in preda al tramonto spengleriano, ingranaggi di quella logica del profitto che assurgeva, nei suoi discorsi, a vero, reale, «nemico principale». Eccola la lezione più grande: ci vuole l’analisi, oltre all’elmetto. 

E ci vuole l’orgoglio delle radici europee e italiane per non morire schiavi delle mode Usa: «Ricordate: c’è più storia nella piccola Pienza che in tutta Los Angeles». A Fiuggi Rauti si oppose, solo e negletto, alla trasformazione del Msi in An. 

E si condannò lui stesso, politico che aveva sempre saputo guardare più in là di tutti, a rivestire i panni del nostalgico. Ma memorabile rimase la chiusa dell’intervento con cui diede l’addio agli ex camerati: «Trasformerete questo partito in una vecchia baldracca»
di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)

SAN MARTINO A CASAGGì..

DOMENICA 11 NOVEMBRE
LA FESTA DEL VINO NOVELLO
VIA C.COLOMBO 7 - MILAZZO-