La riforma del mercato del lavoro è anche una questione culturale, non solo contrattuale o economica
Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 9,3%, con picchi altissimi per i giovani e per le donne, ed è tornato ai livelli del 2004, ovvero prima che si manifestassero alcuni degli effetti positivi prodotti dalla piena attuazione delle nuove forme di flessibilità “in ingresso” introdotte dalla Riforma Biagi. Nel contesto di una crisi internazionale che sembra non terminare mai, di istituzioni comunitarie preoccupate più di far quadrare i conti che di costruire un nuovo sistema sociale per i popoli che aderiscono all’Unione Europa, di un Italia che ha rischiato il default finanziario e che (essendo sovra-indebitata) non potrà adottare politiche keynesiane di incremento degli investimenti statali, è sempre più necessario attuare una profonda e sostanziale riforma del mercato del lavoro con lo scopo di ridare nuovoslancio all’occupazione, di valorizzare il merito individuale, di superare le note iniquità e distorsioni, restituendo la dignità a coloro che si impegnano seriamente e vogliono cogliere nuove opportunità per costruirsi un futuro migliore.
Gran parte del popolo italiano è d’accordo sulla necessità di intervenire sulle norme che regolano il mercato del lavoro dipendente, ma sono amplissime le divergenze sul come farlo. Tutto sembra ruotare intorno alla “flessibilità”, ovvero alle differenti modalità di gestione del varie fasi che caratterizzano il mondo del lavoro: ciò che dovrebbe rappresentare una risorsa per il Paese, un opportunità per i lavoratori e le imprese, è divenuto un incubo per molti.
L’introduzione di nuove forme di flessibilità “in ingresso”, senza le adeguate coperture previdenziali, ha permesso alle imprese di “assumere” personale con costi più bassi ma ha generato l’interminabile susseguirsi di stage mal o per nulla retribuiti, tirocini professionalizzanti, collaborazioni occasionali e a progetto che stanno piegando i giovani ad un precariato costante. Un precariato che non è solo lavorativo, ma è anche economico e sociale, per il mancato supporto di quelle istituzioni finanziarie che non erogano finanziamenti e mutui se non a fronte di uno stipendio fisso, per l’assenza di ammortizzatori sociali e per la quasi matematica certezza che, alla fine del ciclo lavorativo, la pensione percepita sarà quella minima.
È in corso un tentativo di “irrigidimento” del sistema di ingresso nel mondo del lavoro. Il Governo vorrebbe superare l’uso distorto dei contratti a “termine” accrescendone le spese di gestione per le imprese con l’aumento dei contributi e con l’introduzione di nuove forme assicurative. A questo si affiancherebbe la promozione, attraverso gli incentivi fiscali, dell’apprendistato quale strada prevalente per l’accesso all’agognato contratto a tempo indeterminato. Il risultato di queste azioni sarà un importante innalzamento dei costi di primo impiego, che, a causa dell’ampio cuneo fiscale e contributivo, peserà in modo importante sulle economie delle piccole e medie imprese e non aiuterà i lavoratori a stare meglio. Quindi, seppure queste misure saranno inserite in un pacchetto strutturato di interventi, rischiano di essere insufficienti e spingere i datori di lavoro a scegliere altre strade: un incentivo reale per le imprese sarebbe la contemporanea riduzione dei carico contributivo, peralmeno cinque anni, qualora i lavoratori siano assunti e stabilizzati con i contratti “tipici”.
Fortunatamente, tra le altre azioni previste, il Governo intenderebbe completare la riforma degli ammortizzatori sociali e degli altri strumenti atti a favorire la ricollocazione di coloro che hanno perso l’occupazione a causa della crisi o del fallimento di una impresa, migliorando così la flessibilità “interna” ad un mondo del lavoro in cui sembradifficilissimo trovare una nuova occasione per un lavoratore “maturo” o per una donna che intenda dedicare parte del suo tempo alla famiglia (anche se quest’ultimo fenomeno si potrebbe arginare con l’istituzione della“paternità” obbligatoria).
Infine, come sta avvenendo con cicli periodici di dieci anni, il Governo avrebbe l’intenzione di accrescere la flessibilità “in uscita” e di rimodulare la disciplina dei licenziamenti (che non riguarda solo l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), considerata quasi un “totem” da molti e troppo rigida dal sistema imprenditoriale e dagli investitori stranieri. Paradossalmente, il timore di “non poter” licenziare diviene uno spauracchio per i datori di lavoro (come sostenuto da importanti sindacalisti) che, per un effetto perverso, scoraggia le assunzioni ed alimental’uso di quelle forme troppo diffuse di precarietà insana ed un dualismo degenerativo: “ci sono alcuni troppo tutelati e molti altri sono privi di tutele”.
Tutto ciò ha scatenato le proteste dei sindacati – che una volta tanto sono stati d’accordo su un argomento – e le minacce di uno sciopero generale e di un referendum abrogativo, nonché un ampio dibattito con i partiti della maggioranza “atipica” che sostiene il Governo. Il cuore della discussione riguarda i casi nei quali il giudice dovrà intervenire per valutare la sussistenza della giusta causa nel licenziamento individuale (discriminatorio, per motivi disciplinari o economici) e quale tipologia di decisione potrà assumere (reintegro o consistente indennizzo economico) qualora riscontri l’assenza di giustificato motivo e renda nulla o inefficace la decisione dell’azienda.
Abbiamo un’unica speranza di non veder naufragare, nella palude parlamentare, una riforma improcrastinabile. Sino alla definitiva approvazione della Legge, i partiti politici dovranno mediare con l’Esecutivo e con tutte le parti interessate per evitare il conflitto sociale, per chiarire i confini delle diverse tipologie di licenziamento e delle decisioni che il giudice potrà adottare, per costruire una soluzione equilibrata e condivisibile. Spetta a loro il compito di raggiungere rapidamente un nuovo ed equo compromesso che preveda un sistema di protezioni essenziali e garanzie reali per i lavoratori e per la loro dignità, delle nuove e più chiare modalità di gestione deilicenziamenti per motivi disciplinari ed economici come richiesto dai datori di lavoro per il settore privato e dai cittadini per il settore pubblico, ma anche la certezza delle regole ed un più rapido sistema di risoluzione delle controversie lavorative – come richiesto dai mercati – in modo da attrarre l’investimento di nuovi capitali, anche da parte di partner internazionali.
In ogni caso, la riforma del mercato del lavoro non potrà limitarsi a disciplinare le varie tipologie contrattuali e a ridurre l’enorme cuneo fiscale e contributivo, ma dovrà essere “complessiva”, producendo, nel lungo periodo, il più importante degli effetti: una nuova visione culturale caratterizzata dal superamento dell’idea del diritto al “posto fisso”, che è ben diverso dal diritto per tutti ad avere un lavoro, e dell’opinione diffusa che è inutile impegnarsi sul proprio lavoro perché questo non produce effetti concreti per il singolo.
Tutto ciò potrà accadere se la riforma riguarderà contemporaneamente i lavoratori dipendenti, gli autonomi ed i professionisti; accrescerà la flessibilità “buona” e le opportunità individuali di mobilità sociale; sosterrà gliinvestimenti dei piccoli imprenditori che producono nuovo lavoro; valorizzerà l’impegno del singolo con il consolidamento della detassazione dei premi e degli straordinari, il rafforzamento di meccanismi premiali da determinare nell’ambito della contrattazione aziendale (con i paletti “minimi” fissati dalla contrattazione collettiva nazionale) e la partecipazione agli utili dell’impresa. Ed, in questo contesto, nessuno - soprattutto gliassenteisti e gli “sfaticati” nel pubblico impiego - dovrà essere più considerato irremovibile e per tutti – compresi gli amministratori ed i dirigenti – dovrà essere ripristinata l’idea di piena responsabilità individuale, implosa sotto i colpi di distorte politiche sindacali e del tentativo di “socializzare” le decisioni.
Questo è il migliore percorso, forse l’unico, per favorire la competitività dell’Italia e l’aumento della produttività, per attrarre nuovi investimenti da oltre confine, per arginare il crescente fenomeno di delocalizzazione di attività economiche verso l’Est Europa ed i Paesi emergenti.
di Gian Luca Bianchi