L’infanzia è il periodo migliore della nostra vita. Siamo spensierati, felici, circondati da tutti i nostri affetti. Viviamo la vita da cuccioli che, ancora al caldo del focolare domestico, scalpitano per uscire fuori e assaporare la vita. Voglio raccontare questa storia – vera, ma taciuta e contestata – di un’infanzia rubata, e voglio farlo senza scadere in disgustose diatribe o accuse politiche. Cercherò anzi di evitarle, per quanto posso. Ci tengo solo a dire che questa storia che spezza il cuore è conservata nei cuori dei parenti di chi l’ha vissuta sulla propria pelle, ed è un po’ meno conservata nei libri di storia, dove si lascia abbondantemente spazio ad altri fatti.
Siamo nel 1945, Giuseppina Ghersi era una studentessa di 13 anni dell'istituto magistrale “Maria Giuseppa Rossello” del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli. La piccola Giuseppina, durante un compito in classe, svolge un tema sulla figura di Benito Mussolini, e il suo elaborato piace talmente tanto che la maestra lo invia al Capo del governo, il quale, attraverso la sua Segreteria Particolare, invia i complimenti all’autrice del tema. Quel compito in classe, scritto con la diligenza e lo zelo di una qualunque bambina di 13 anni vispa, allegra e incline allo studio – costerà a Giuseppina la vita.
Il 25 aprile, alle 17:00, i partigiani garibaldini, appena entrati a Savona, bussano alla porta dei Ghersi chiedendo del «materiale di medicazione» che la famiglia non esita a fornire volentieri. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, vengono fermati da due partigiani armati e condotti al campo di concentramento di Legino, nella zona dell’odierno complesso delle scuole medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello, perché in quel momento è ospite di alcuni amici di famiglia. I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza alcuna accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani, i quali rispondono che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. I genitori, persuasi dalle rassicurazioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola.
L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al campo di concentramento dove comincia la tragedia. È il pomeriggio del 27 aprile 1945: madre e figlia vengono stuprate sotto gli occhi del padre che, bloccato da cinque uomini, viene percosso col calcio di un fucile alla testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi. Non contenti, i partigiani rasano a zero Giuseppina, le imbrattano il viso con la vernice rossa e dopo due giorni di altre torture e angherie, il 30 aprile 1945, pongono finalmente fine al suo triste calvario, con un colpo di pistola alla nuca, gettando il cadavere davanti alle mura del cimitero di Zinola.
Ma un’altra violenza, quella dell’oblio, continua a ferire Giuseppina e la sua famiglia. Per decenni non si è parlato di questa tragedia, e la risposta ai tentativi di far luce sulla vicenda è stata che la bambina fosse una collaborazionista del morente regime fascista. C’è poco o nulla da aggiungere a questa straziante storia, anche perché il cuore è cupo di dolore e rabbia. Un fiore giovane reciso con odio cieco, rozzo, bestiale. Una storia affondata nel dimenticatoio, troppo riconducibile a certi argomenti che rappresentano un tabù e di cui non se ne può e non se ne deve parlare. Il vizio della memoria – e anche il rischio che la memoria corre - è quello di diventare stantia, ripetitiva, farraginosa, come un rituale stanco e svuotato di significato. Con la vicenda di Giuseppina questo pericolo non si corre, perché non ne parla nessuno. È un grido sordo che cade nel vuoto perché non c’è nessuno a fare da eco a questa storia, è una storia scomoda, è una storia che non va raccontata, una storia che insudicia di sangue innocente chi ci ha portato la Liberazione. È una storia che reclama ancora giustizia. Ed è difficile parlarne con lucidità e obiettività, perché è una storia che fa davvero male.
di Francesco Onorato (ilfuturista.it)
venerdì 25 aprile 2014
mercoledì 23 aprile 2014
Una tragedia dal titolo 'cedesi attività'
Gli storici del fenomeno
urbano, come lo scomparso Lewis Mumford, ci hanno insegnato che “le città sono
un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate
le vite degli umani”. Egli si riferiva allo sviluppo lineare
nel tempo, attraverso cui i cuori pulsanti delle città, si incastrano tra
boutique, negozietti, botteghe e artigiani. Questo “ordine naturale” spiega il
fascino di città storiche ghermite di vita e cordialità, un po’ come la
Boutique des Anges, paradiso parigino dell’oggettistica di soggetto angelico in
rue Yvonne-le Tac, o Chat-Bada, regno mondiale dei gattofili in rue des Ecoles.
A Londra, i celebri tabaccai Dunhill di Davies St. o il calzolaio Lobb di St.
James St., ma anche quello sgabuzzino dietro Oxford St. dove trovi ancora una
pezza del tartan, fuori catalogo perché gli antichi telai si sono usurati e
nessuno è più in grado di ricostruirli.
Bologna, una delle città più antiche
d’Italia ha visto chiudere qualcosa come 556 negozi nel centro storico,
fenomeno causato dal mondialismo, che nei centri commerciali trova la sua
massima espressione. I borghi si svuotano di vita, le piazze rinsecchiscono, i
piccoli imprenditori emigrano altrove, le botteghe, le utensilerie, i piccoli
negozi di abbigliamento spariscono nella “mano invisibile” smithiana o peggio,
nell’usura teorizzata da Pound. Mentre i colossi si ingigantiscono, creando
l’illusione dei posti di lavoro, si rifanno in realtà sulle ossa delle città
storiche che, come enormi balene morte, affondano negli abissi. L’economia che
prima alimentava il tessuto urbano intriso di storie, quartieri, rapporti
umani, finisce nelle tasche nascoste dei grossi finanziatori internazionali
dalle francesi Decathlon o Carrefour fino alla Coop del Ministro Poletti, quello
che ha applicato la “riforma del precariato”, nel senso che ora si è precari
per legge, non per sciagura.
Se il quadro non vi è ancora chiaro o familiare,
basta farsi un giro nella Via Giacomo Medici e contare i fantasmi del
commercio: anche il franchising si è arreso. Piazza Roma, Piazza San Papino, il
Ciantro, sono solo gli ultimi segnali di questa metastasi etica. Bar,
rosticcerie, centri per la telefonia, persino le edicole storiche sono
costrette a spostarsi in questo marasma ottuso, bieco, incivile.
E mentre
Palazzo delle Aquile diviene la sede dei falchi e degli avvoltoi (?!) che si
contendono le poltrone delle prossime amministrative, la città muore lentamente
tra gli spettri e i baroni, come nella tragedia del Macbeth. Quando finirete di
leggere questo pezzo sarà già troppo tardi, persino per gli ultimi baluardi –
vedi Bonina e Cambria – per pensare a una strategia per evitare l’iceberg. Il
requiem risuona intrepido tra le vie del paese sulle note di un pentagramma
unidirezionale che recita: “cessione attività”. E l’ultimo giovane che se ne
va, senza voltarsi indietro, senza capire il perché.
di Francesco Bacone (pseudonimo letterario)
da InformAzione Milazzo del 12.04
giovedì 17 aprile 2014
La Grande Disfatta.Storia di un premio che non ci appartiene.
Sono passati quasi quattro anni da quella estenuante campagna elettorale che ha visto protagonisti diversi “soggetti politici” darsi battaglia senza esclusione di colpi e che ha visto vincitore Carmelo Pino,il sindaco “sfiduciato” del passato tornato alla carica e alla ribalta grazie al decisivo apporto dei soliti noti “cultori” della politica nostrana Esattamente 1455 giorni, giorno più giorno meno, da quel fatidico mese di giugno che nel bene(poco) e nel male(tanto) ha segnato e segnerà la vita della nostra città. Millequattrocento giorni che hanno fatto sprofondare “la penisola del sole” in un opaco grigiore che lentamente fa spegnere la sua naturale bellezza.
La Grande Bellezza, per citare il film di Sorrentino, della nostra città salita alla ribalta della cronaca regionale e nazionale non per le sue qualità artistiche paesaggistiche e culturali, ma per aver ricevuto l’Oscar del Fallimento. Il fallimento del ritorno al passato che ha dato linfa a tutte quelle “mummie” che il popolo sovrano aveva definitivamente archiviato anni fa.
L’Oscar del fallimento politico, programmatico e amministrativo. L’Oscar del peggior attore protagonista, l’Oscar della folle regia, l’Oscar della vendetta politica e della menzogna. Il prestigio di premi unici, consegnati dall’Accademy dell’Ignoranza che annovera tra i suoi giudici sigle prestigiose del calibro del Partito Democratico, la sinistra milazzese e la compagine finiana(che cerca oggi di riciclarsi).
Millequattrocento giorni di piacente programmazione, tra Carmelo Pino e la sinistra, che hanno consegnato alla città il premio della disfatta e della rassegnazione. Anni di compiacente convivenza, che qualcuno oggi, intende rinnegare prendendone le distanze, dopo essere stato membro attivo dell’Accademy dell’orrore. Un anno o poco più separano la nostra città dalle elezioni amministrative che, per una serie di eventi e circostanze, saranno importanti e d’impatto più dell’Oscar di Sorrentino.
Un anno o poco più per ridare alla nostra città la dignità perduta. Per riscoprire l’orgoglio di essere milazzesi e di poter decidere le sorti del nostro paese, di ritornare ad essere la Penisola del Sole e di vincere l’oscar di meravigliosa città quale siamo,per tornale alla ribalta per la nostra “Grande Bellezza” e non per i villani giochetti di palazzo.
di Gabriele Italiano (da InformAzione Milazzo)
mercoledì 16 aprile 2014
“Dissesto,il gigante dai piedi d’argilla” Intervista all'Avvocato Marcello Scurria.
Il ritorno del
consiglio comunale oltre ad aver annullato gli effetti della dichiarazione di
dissesto ha premiato la perseveranza di alcuni consiglieri che, incuranti dei
falsi proclami provenienti dal palazzo, hanno portato avanti il loro ricorso
passando due volte per il Tribunale Amministrativo Regionale, due volte per il
Consiglio di Giustizia Amministrativa. Figura significativa in questo lungo
iter processuale è stata quella dell’avvocato amministrativo Marcello Scurria,
che abbiamo intervistato in qualità di esperto in materia e che
ha assistito legalmente i consiglieri nei ricorsi presentati per
far valere le ragioni degli stessi
opposte a quelle del Sindaco sulla dichiarazione di
fallimento dell’ente.
Avvocato, quali sono i rimedi che la
legge prevede da adottare per evitare lo stato di dissesto?
Prima del D.L. 174/12, poi convertito con
la L. 213/12, non era prevista alcun alternativa alla dichiarazione di dissesto
finanziario degli Enti locali. Con la c.d. legge salva-comuni, invece, il Legislatore, dopo anni di
silenzio, verosimilmente recependo le fortissime sollecitazioni provenienti
dagli enti territoriali, ha finalmente compreso che il dissesto non risolveva i
problemi finanziari (è lungo l’elenco dei Comuni dissestatinche nonostante le cure continuavano a restare in una
situazione di criticità). Si è compreso, in estrema sintesi che gli Enti locali
non riuscivano a riequilibrare i bilanci facendo fronte, esclusivamente, con le
entrate proprie. Da qui l’idea di del prestito decennale che fa respirare le asfittiche
casse comunali. Un ulteriore segnale positivo, poi, è rappresentato dalla legge
che consente agli Enti locali di far fronte ai propri debiti mediante un mutuo
trentennale con la Cassa depositi e prestiti. In conclusione, seppure sotto forma di prestiti, lo Stato ha finalmente aperto i
rubinetti per consentire agli enti locali di uscire, seppure gradualmente, da
conclamate situazioni di crisi finanziaria.
Il dissesto è stato annullato, l’amministrazione comunale ad oggi non ha revocato i
provvedimenti adottati durante la fase del dissesto(aumento
tariffe,Imu,tasse locali e altro)è legittimo ciò?
Tutti i provvedimenti amministrativi, in
linea di principio, possono essere annullati in autotutela. Credo, per quanto riguarda
questi provvedimenti il Consiglio Comunale, in via preliminare, dovrà
verificare se sussistono le condizioni per aderire nuovamente al piano
decennale di riequilibrio (la deliberazione è stata già approvata nel dicembre
del 2012 ma liter, com’è noto, è stato interrotto dalla
dichiarazione di dissesto ad opera del Commissario prefettizio.
Un ente dichiarato dissestato quale
conseguenze causerà alla comunità?
Le conseguenze sono disciplinate dalla
legge. Tra le tante, quella che Comune che va in dissesto non può contrarre
mutui. L'ente locale non può impegnare per ciascun intervento somme
complessivamente superiori a quelle definitivamente previste nell'ultimo
bilancio approvato, comunque nei limiti delle entrate accertate. I relativi
pagamenti in conto competenza non possono mensilmente superare un dodicesimo
delle rispettive somme impegnabili, con esclusione delle spese non suscettibili
di pagamento frazionato in dodicesimi. Le aliquote e le tariffe di base vengono
innalzate nella misura massima consentita.
Tutti i comuni d’Italia si sono avvalsi della legge
emanata da Monti (salva comuni) lamministrazione comunale ha
preferito dichiarare il dissesto (annullato oggi) quali danni ha
prodotto medio tempore alla comunità?
E' stato perso del tempo prezioso!
La legge antidissesto è la soluzione dei problemi degli Enti
locali in difficoltà. Finalmente lo Stato ha compreso che era inutile far
dichiarare il dissesto agli enti locali. Da circa 10 anni lo Stato impediva di
poter far fronte ai debiti mediante un mutuo ventennale a totale carico dello
Stato. I Comuni e le Province dovevano trovare i soldi vendendo tutto ed
aumentando le tasse al massimo. Un tunnel dal quale difficilmente si usciva!
Alla luce del Dlg 35/13 il comune quale
opportunità ha perso?
Il Comune di Milazzo, per quanto mi è dato
sapere, ha già usufruito dei benefici del DL 35/13. Resta da verificare, tenuto
conto della sospensione della deliberazione di dissesto, se può ulteriormente
integrare la domanda anche per i debiti precedentemente esclusi a causa della
dichiarazione di dissesto. A mio parere è possibile e ciò giustificherebbe la
riapprovazione del piano decennale di riequilibrio (salva-comuni). Quello che
prima doveva essere restituito in dieci anni con il D.L. 35/13 potrà essere
restituito in 30 anni. La soluzione dei problemi.
a cura della redazione di InformAzione Milazzo
Il rogo di Primavalle, tragedia da non dimenticare
Il 16 aprile è una data che dovrebbe essere ricordata, ma in troppi hanno dimenticato. Il 16 aprile 1973, alle 3 di notte, un commando di “Potere operaio” – una delle tante formazioni della sinistra extraparlamentare di quegli anni – composto da Manlio Grillo, Marino Clavo e Achille Lollo entra di soppiatto in una palazzina di via Bibbiena a Roma, quartiere Primavalle. Dopo aver scavalcato il cancelletto d’ingresso, i tre si dirigono verso la soglia di un appartamento. Uno di loro versa circa dieci litri di benzina, un altro tiene inclinato un ripiano in modo che il combustibile filtri all’interno dell’alloggio. Infine, i tre accendono una miccia e scappano. Una vampata, un’esplosione, e quando i famigliari che occupano l’appartamento si svegliano e aprono la porta, il disastro è ormai compiuto. La cubatura del casermone popolare crea un effetto di aspirazione, la tromba delle scale si trasforma in una cappa tirante e l’appartamento in un camino di combustione.
La famiglia all’interno dell’alloggio che brucia è composta da papà Mario Mattei, che si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fuggita attraverso la porta di casa portando con sè il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni, e altri quattro figli: Lucia, di 15 anni, si getta da un balconcino ed è afferrata al volo dal padre; Silvia, 19 anni, si butta dalla veranda della cucina e se la cava con due costole e tre vertebre rotte. Ma gli altri due non ce la fanno: Virgilio Mattei, di 22 anni, e Stefano, di soli 10 anni, restano intrappolati tra le fiamme e muoiono carbonizzati. Un quartiere attonito, svegliato dalle fiamme e sceso in strada, assiste dal vivo alla morte dei due fratelli. Persino un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante.
Perché è successo? Mario Mattei è segretario della sezione del Msi di Primavalle. Un “fascista”. E negli anni in cui “Uccidere un fascista non è reato” va punito, anche a costo di stroncare giovani vite in modo crudele.
Quello che succede dopo è anche peggio, se possibile. La macchina perversa del “Soccorso Rosso” si attiva prontamente, sia per proteggere gli assassini, arrestati quasi subito, sia per elaborare tesi innocentiste a dir poco vergognose. Viene pubblicato un libro: “Primavalle, incendio a porte chiuse”, con lo scopo di dimostrare la teoria per l’appunto dell’”incendio a porte chiuse”, ossia che i Mattei si siano bruciati la casa da soli. O sono diffuse tesi ugualmente strampalate sul “regolamento di conti interno tra militanti del Msi”.
Nessuno, negli ambienti della sinistra ma non solo, crede alla colpevolezza dei militanti di Potere Operaio. O si fa finta di non credere. Tant’è che Achille Lollo riceve lettere di stima e solidarietà da leader politici, come Riccardo Lombardi del Psi, e intellettuali come Franca Rame, che il 28 aprile 1973 scrive al “caro Achille” (Lollo) augurando, tra parole intrise di comprensione e affetto, “una brutta fine al giudice Sica”, ossia il giudice che l’ha inquisito. Persino Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e Franca Rame, disegna vignette satiriche di assai dubbio gusto sul rogo di Primavalle.
Poi arriva la giustizia: nel primo grado i tre aguzzini sono assolti per insufficienza di prove, nel secondo condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Preterintenzionale!
Achille Lollo, rilasciato in attesa del processo di appello, fugge in Brasile, dove ancora attualmente è militante attivo del Pt, il partito dei lavoratori di Lula. Manlio Grillo scappa in Nicaragua con la complicità di Oreste Scalzone. Marino Clavo fa perdere le sue tracce.
Ogni 16 aprile, ma non solo, sarebbe bene ricordare che tre assassini non hanno mai pagato per avere ucciso in modo efferato un ragazzo di 22 anni e un bambino di 10. E che gli stessi tre, in nome dell’odio politico e di un’ideologia discutibile, sono stati difesi strenuamente da politici e intellettuali. Uno degli intellettuali di “Soccorso Rosso”, Dario Fo, anch’egli in prima linea nel difendere gli assassini del rogo di Primavalle, anni dopo ha vinto un premio Nobel.
La famiglia all’interno dell’alloggio che brucia è composta da papà Mario Mattei, che si salva gettandosi da una finestra, mamma Annamaria, miracolosamente fuggita attraverso la porta di casa portando con sè il figlio più piccolo, Giampaolo, di soli tre anni, e altri quattro figli: Lucia, di 15 anni, si getta da un balconcino ed è afferrata al volo dal padre; Silvia, 19 anni, si butta dalla veranda della cucina e se la cava con due costole e tre vertebre rotte. Ma gli altri due non ce la fanno: Virgilio Mattei, di 22 anni, e Stefano, di soli 10 anni, restano intrappolati tra le fiamme e muoiono carbonizzati. Un quartiere attonito, svegliato dalle fiamme e sceso in strada, assiste dal vivo alla morte dei due fratelli. Persino un fotografo, Antonio Monteforte, immortala Virgilio appoggiato al davanzale della finestra, agonizzante.
Perché è successo? Mario Mattei è segretario della sezione del Msi di Primavalle. Un “fascista”. E negli anni in cui “Uccidere un fascista non è reato” va punito, anche a costo di stroncare giovani vite in modo crudele.
Quello che succede dopo è anche peggio, se possibile. La macchina perversa del “Soccorso Rosso” si attiva prontamente, sia per proteggere gli assassini, arrestati quasi subito, sia per elaborare tesi innocentiste a dir poco vergognose. Viene pubblicato un libro: “Primavalle, incendio a porte chiuse”, con lo scopo di dimostrare la teoria per l’appunto dell’”incendio a porte chiuse”, ossia che i Mattei si siano bruciati la casa da soli. O sono diffuse tesi ugualmente strampalate sul “regolamento di conti interno tra militanti del Msi”.
Nessuno, negli ambienti della sinistra ma non solo, crede alla colpevolezza dei militanti di Potere Operaio. O si fa finta di non credere. Tant’è che Achille Lollo riceve lettere di stima e solidarietà da leader politici, come Riccardo Lombardi del Psi, e intellettuali come Franca Rame, che il 28 aprile 1973 scrive al “caro Achille” (Lollo) augurando, tra parole intrise di comprensione e affetto, “una brutta fine al giudice Sica”, ossia il giudice che l’ha inquisito. Persino Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e Franca Rame, disegna vignette satiriche di assai dubbio gusto sul rogo di Primavalle.
Poi arriva la giustizia: nel primo grado i tre aguzzini sono assolti per insufficienza di prove, nel secondo condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Preterintenzionale!
Achille Lollo, rilasciato in attesa del processo di appello, fugge in Brasile, dove ancora attualmente è militante attivo del Pt, il partito dei lavoratori di Lula. Manlio Grillo scappa in Nicaragua con la complicità di Oreste Scalzone. Marino Clavo fa perdere le sue tracce.
Ogni 16 aprile, ma non solo, sarebbe bene ricordare che tre assassini non hanno mai pagato per avere ucciso in modo efferato un ragazzo di 22 anni e un bambino di 10. E che gli stessi tre, in nome dell’odio politico e di un’ideologia discutibile, sono stati difesi strenuamente da politici e intellettuali. Uno degli intellettuali di “Soccorso Rosso”, Dario Fo, anch’egli in prima linea nel difendere gli assassini del rogo di Primavalle, anni dopo ha vinto un premio Nobel.
di Riccardo Ghezzi (qelsi.it)
martedì 15 aprile 2014
"SMASCHERATI" il CGA conferma: sentenza inappellabile, dissesto annullato
Carnevale è passato da un mese, i coriandoli ed i
festoni sono scomparsi e anche le maschere non si vedono più. Come ogni anno
però una maschera era rimasta per le strade della nostra città anche dopo il
periodo di festa.
Non era una maschera colorata e nemmeno una
maschera fanciullesca pronta a far divertire qualcuno. Era una maschera
pesante, cupa e con un ghigno famelico, un volto che lascia trapelare odio e
rancore. Questa presenza che ormai da 4 anni aleggiava pesantemente sulla
nostra Milazzo è finalmente caduta, smascherando chi astutamente cercava di
portarla a discapito di tutti gli ignari cittadini.
Come un fulmine a ciel sereno, il Consiglio di
Giustizia Amministrativa di Palermo ha emanato un’ordinanza per confermare la
precedente sentenza per la quale il dissesto era inequivocabilmente annullato
insieme a tutti i devastanti effetti da esso portati. Una notizia che ha
provocato in città reazioni contrastanti.
Se da una parte troviamo un consiglio comunale pronto finalmente a
riappropriarsi del proprio posto in aula, dall’altra diversi esponenti
dell’amministrazione hanno inspiegabilmente cercato di rivoltare a proprio
favore la lampante disposizione del CGA cercando con un ultimo disperato colpo
di coda di rimanere avvinghiati alle poltrone che tanto hanno bramato.
Crollano definitivamente le menzogne e le bugie
che avevano sostenuto l’insostenibile castello di carte. Viene cancellata la
scellerata scelta di mandare Milazzo verso un fallimento capace di mettere in
ginocchio le attività commerciali, gravate di sovrattasse impensabili. Corrono
a nascondersi gli ultimi fedelissimi sostenitori del dissesto. Torna nell'ombra
quella sparuta e faziosa minoranza composta da telecronisti sportivi di dubbia
professionalità e professori “diversamente” preparati che avevano avuto il
coraggio di difendere l'operato folle di una giunta che deliberatamente ha
costretto la città sull'orlo del baratro.
Torna a rivedere la luce del sole questa nostra
città ormai da troppo tempo oscurata da questi avvoltoi mascherati da
agnellini, finalmente smascherati senza possibilità di appello. Finisce per
Milazzo un triste e cupo carnevale, fatto di pagliacci e maschere tristi;
finisce nel migliore dei modi per la città che finalmente può strappare via
dalle facce degli avvoltoi queste maschere maledette. Questo triste carrozzone è finalmente smantellato e i saltimbanchi che
ne facevano parte dovranno tornare da dove sono venuti e non mostrare più i
loro volti in città, adesso che quelle maschere che tanto gli erano care sono
state strappate via.
Inizia finalmente per Milazzo il periodo della
rinascita, il momento di rialzare la testa per poter guardare con fierezza
quella luce che per tanto tempo era stata oscurata da chi voleva la nostra
città morta ed asservita alle proprie personali ambizioni.
di Giorgio Italiano
(tratto da InformAzione Milazzo del 12.04.14)
lunedì 14 aprile 2014
E se Ulisse tornasse…
È la storia di quel tale
che per qualche strano motivo torna nella Milazzo che in vita sua, aveva visto
solo una volta. Immaginate Ulisse, tornare a Milazzo, passare dalla grotta di
Polifemo, il suo mostro preferito, vedere che è chiusa e pericolante, come
tutte le strutture attorno, notare come il sicuro pietrisco dello sterrato ha
lasciato il posto alle buche e all’asfalto.
Ulisse e i suoi si stupirebbero,
anche se ora sono invecchiati, anche se la sapienza ha lasciato spazio alla
saggezza, alla pacatezza e alla serenità. Eppure l’eroe di Itaca a rivedere la
sua Milazzo farebbe fatica a trovare pesci nel mare – qualora trovasse acqua
poco inquinata – a riconoscere un tempio alla divinità di Atena, tra le guglie
metalliche della Raffineria. Si fermerebbe a parlare con gli anziani e
scoprirebbe che questa città è amministrata da un collegio di probiviri che
poco hanno a cuore le sorti di Mylae.
Uffici bloccati, zero entrate zero
uscite, uno stallo politico e burocratico che tiene a scacco la vita della
città del Capo. Tra le palme piegate al suolo dai punteruoli rossi, come
l’orgoglio dei cittadini, e le attività commerciali praticamente in dissolvenza
nell’elogio funebre di una Troia in fiamme, il fedele marito di Penelope
riconoscerebbe solo tristezza e povertà. Morta è persino la demos-crazia.
Eppure
quella Milazzo dai dirupi calcarei del capo, tra le insenature pacifiche dei
laghetti di Venere, le splendide vedute della Baronia e del Castello restaurato
dalla passata amministrazione, ha ancora qualcosa che potrebbe ispirare Omero.
Una lirica soffiata nel vento, provenire dalle isole di quel Dio Eolo,
raccontata da millenni di storia che hanno fatto di Milazzo la patria della
cultura messinese. Ulisse padre del libero arbitrio potrebbe chiedersi se,
questa Grande Bellezza, possa trovar pace tra le mura di un vuoto che aleggia
nei silenzi del borgo, nei sussurri della Piana, nella rabbia dei precari.
Nella sua Grecia, culla del mètron e della misura oltre che della ragione, i
tiranni, gli oligarchi, i profittatori e gli usurai, i politici corrotti e i
medici osannati avrebbero certamente trovato punizione al loro ego. Eppure in
questa terra, un tempo dominata da quei figli dimenticati che erano i giganti a
un occhio solo, c’è disperazione. E i giganti sono divenuti uomini piccoli,
lontani dal popolo e vicini al potere tanto da dissolverli come cenere di pire
ardenti. “Ma di chi è la colpa?” Sembra chiedersi Ulisse tra le grigie barbe e
le rughe parlanti. “Chi può farvi scordare il terrore dei Ciclopi??” Poi dal
Palazzo dell’Aquila si leva un sospiro, tra le carte e il fumo, le sentenze e
gli avvisi di garanzia… “di nessuno è la colpa, Ulisse. Tornatene a casa tua se
conservi metà della tua passata sapienza. Questo è il nostro tempo!”
di Santi Cautela
( InformAzione Milazzo del 12.04.14)
domenica 13 aprile 2014
SCARICA INFROMAZIONE.Il giornalino della comunità militante.
leggi gratuitamente on line Informazione Milazzo o scarica gratuitamente la versione in PDF.
Pubblicazione di sabato 12 aprile 2014 http://www.youblisher.com/p/866016-InformAzione-Milazzo-n3/
Pubblicazione di sabato 12 aprile 2014 http://www.youblisher.com/p/866016-InformAzione-Milazzo-n3/
sabato 12 aprile 2014
InformAzione atto terzo!
Tanta la gente che anche oggi si è avvicinata al nostro banchetto per poter leggere una copia di Informazione Milazzo il nostro giornalino arrivato alla sua terza edizione.Abbiamo toccato la cifra record delle 300 copie distribuite (autogestite e autofinanziate) che potrete leggere con calma sul nostro sito o scaricare in pdf dall'apposito link -->http://www.youblisher.com/ p/ 866016-InformAzione-Milazzo -n3/
mercoledì 2 aprile 2014
Giorgio Almirante e la sfida di “vivere da fascisti in una democrazia”
Oggi (24 marzo 2014) nella Sala Capranichetta in piazza Montecitorio, a Roma, nell’anno del centenario della nascita di Giorgio Almirante (1914-1988) si è tenuto il convegno «Giorgio Almirante e la Cisnal». Presente Donna Assunta Almirante, sono intervenuti Gaetano Rasi; il sen. Romano Misserville; Massimo Magliaro, storico capo ufficio stampa di Almirante; il segretario generale UGL Giovanni Centrella; e il professor Roberto Chiarini (docente di Storia contemporanea e Storia dei partiti all’Università statale di Milano).
È passato circa un quarto di secolo dalla scomparsa di Giorgio Almirante. È passato un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino. È passato un quarto di secolo dal crollo della Prima Repubblica. È passato un quarto di secolo in un primo tempo dalla rifondazione, poi dalla dissoluzione della sua creatura politica: quel Msi con il quale quasi si è identificata la sua vita di leader di partito. È ragionevolmente passato abbastanza tempo, quindi, perché si possa pensare a stendere un bilancio non partigiano, non schiacciato sulla contingenza, ma inserito in una prospettiva di più lungo respiro, della sua figura e della sua opera politica.Il punto di partenza imprescindibile di una riflessione sul ruolo e sul significato della sua esperienza politica non può che essere la constatazione della originalità assoluta della sfida che la destra fu chiamata ad affrontare nel nostro dopoguerra rispetto alle altre democrazie europee. Un’originalità che affonda le sue radici nel profondo della storia nazionale, ancor prima della nascita dello stato unitario, almeno nel Risorgimento.Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in genere in tutti i paesi anglosassoni la destra si è presentata all’appuntamento della democrazia di massa con le carte in regola. È stata sin dall’inizio un attore politico insieme pienamente legittimo e protagonista della dialettica democratica. Anche la Germania, che pure esce nel 1945 da un passato pesantemente segnato dalla compromissione con l’esperienza più pesante del ventennio totalitario entre deux guerres, ha saputo relegare il nostalgismo neonazista nel recinto dell’illegalità; il che lo ha condannato a un’emarginazione cosi netta e scontata da consentire al sistema politico tedesco di animare senza grandi sconquassi una dialettica destra/sinistra proficua per il consolidamento di una «democrazia normale». Nella stessa Francia, che pure ha conosciuto – oltre a un regime collaborazionista con l’occupante nazista – anche molteplici esperienze di destra convintamente nemica dei valori e degli istituti democratici, si è presentata all’indomani della guerra con credenziali a posto tanto da assicurare alla destra un ruolo da protagonista nella Francia della IV e della V Repubblica. Con De Gaulle, infatti, non solo la destra francese si presenta nel dopoguerra repubblicana e democratica, ma addirittura simbolo del riscatto della nazione dal collaborazionismo di Vichy e capofila/portabandiera della democrazia grazie al contributo offerto nella lotta di liberazione nazionale dai nazisti.
Tutt’altro discorso bisogna fare per la destra italiana. All’indomani della guerra e della caduta del fascismo la destra da noi non ha alle spalle nessun antecedente di destra cui riallacciarsi per costruirsi un futuro non solo di peso, adeguato cioè alla dimensione di massa imposta dal suffragio universale maschile e – per la prima volta – anche femminile, ma nemmeno dotato di legittimità nel nuovo quadro politico postbellico. Solo per fare un confronto con il paese ad essa più congeniale, come la Francia, la destra italiana non ha conosciuto nell’800 qualcosa di analogo alla destra tradizionalista, alla destra orleanista o alla destra bonapartista. La costruzione dello Stato nazionale e della stessa Nazione è avvenuta all’insegna e nel nome di un ideale liberaldemocratico che ha individuato nel blocco sociale, nei referenti ideali, nelle formazioni politiche avverse a un liberalismo laico e modernizzatore le vere forze nemiche da isolare prima e da mettere nelle condizione di non nuocere poi, decretando in tal modo nei loro confronti un vero bando di proscrizione.
Il fascismo ha fatto il resto. Assorbendo e risolvendo nella sua esperienza ventennale di dittatura orientata al totalitarismo ogni espressione di destra tradizionalista, conservatrice e modernizzante, ha definitivamente compromesso le sorti future della destra italiana, di qualsiasi destra, della stessa pronunciabilità del suo nome, non parliamo di un sostegno alla sua causa. L’ha condannata così a vivere nel ghetto, senza alleati, senza nemmeno un minimo di capacità collettiva, e senza una prospettiva di un suo rientro a pieno titolo e in tempi ragionevoli, com’è stato invece il caso di tutte le altre destre in Europa occidentale, nel gioco democratico.
Quello di destra è diventato, insomma, uno spazio politico contaminato e, per dei contaminati dalla compromissione col passato regime com’erano i nostalgici del Ventennio, quello spazio è diventato l’unico disponibile. Per un partito – il Msi – che si proponeva di offrire una casa al popolo degli esuli in patria, come è stato efficacemente chiamato, l’occupazione dello spazio della destra, e di una destra illegittima, era insieme una scelta obbligata, un dovere e una condanna.
Una scelta obbligata, perché il bando comminato non consentiva loro altra alternativa. Un dovere, perché un luogo in cui ritrovarsi e preservarsi bisognava pur trovarlo, a meno di non accettare o un ruolo di forza extraparlamentare, con proiezioni magari eversive, o un abbandono tout court di ogni ambizione politica con il conseguente riflusso nel privato. Infine una condanna, perché significava accettare il ghetto rimandando a tempi ragionevolmente lunghi il proprio rientro nella comunità democratica. Si trattava, perciò, per la destra italiana di salvaguardare e perpetuare nei tempi brevi un’identità che per la maggior parte di essi equivaleva alla possibilità di acquisire una cittadinanza politica almeno simbolica e nei tempi lunghi di approfittare di condizioni favorevoli per rompere il cordone sanitario che li relegava nell’illegittimità istituzionale e nell’irrilevanza politica.
È stato, questo, il compito che Almirante definì con lucidità: «Vivere da fascisti in una democrazia». Ovviamente cambiava molto se l’accento era posto sul «vivere da fascisti» o sul «vivere in una democrazia». Non si può negare che il Msi in generale e il Msi di Almirante in particolare abbia oscillato non poco tra i due estremi. Ora ha puntato soprattutto a difendere la sua identità neofascista, ora ha cercato di cogliere le occasioni offertegli dall’evoluzione del quadro politico per propiziare il suo rientro nel gioco democratico.
Sarebbe lungo in questa sede esaminare un cinquantennio di storia. A bocce ferme e col senno di poi, si può dire che la missione è stata compiuta. Ma solo a metà. La guida di Almirante, senza dubbio il vero leader della destra italiana della Prima Repubblica che con essa si è identificato fino a diventarne la sua stessa icona, è riuscito a guidare il suo popolo nella travagliato passaggio del Mar Rosso fino a farlo approdare (quasi) incolume alla terra promessa. Diversamente, però, da Mosè, nel momento stesso in cui il suo popolo poggiava i piedi finalmente in terra democratica, invece di poter celebrare la missione compiuta con l’annegamento politico dei suoi oppressori, doveva subire il lutto della sua dispersione e della sua diaspora.
Evidentemente il lungo esilio in patria aveva disseccato la fonte della sua creatività politica. L’aria aperta ritrovata risultava inospitale per il vecchio organismo, infragilito da una troppo lunga permanenza (e inattività) nei luoghi della convalescenza dal morbo contratto della nostalgia per un passato senza futuro. (testo anticipato da Il Giornale)
Il fascismo ha fatto il resto. Assorbendo e risolvendo nella sua esperienza ventennale di dittatura orientata al totalitarismo ogni espressione di destra tradizionalista, conservatrice e modernizzante, ha definitivamente compromesso le sorti future della destra italiana, di qualsiasi destra, della stessa pronunciabilità del suo nome, non parliamo di un sostegno alla sua causa. L’ha condannata così a vivere nel ghetto, senza alleati, senza nemmeno un minimo di capacità collettiva, e senza una prospettiva di un suo rientro a pieno titolo e in tempi ragionevoli, com’è stato invece il caso di tutte le altre destre in Europa occidentale, nel gioco democratico.
Quello di destra è diventato, insomma, uno spazio politico contaminato e, per dei contaminati dalla compromissione col passato regime com’erano i nostalgici del Ventennio, quello spazio è diventato l’unico disponibile. Per un partito – il Msi – che si proponeva di offrire una casa al popolo degli esuli in patria, come è stato efficacemente chiamato, l’occupazione dello spazio della destra, e di una destra illegittima, era insieme una scelta obbligata, un dovere e una condanna.
Una scelta obbligata, perché il bando comminato non consentiva loro altra alternativa. Un dovere, perché un luogo in cui ritrovarsi e preservarsi bisognava pur trovarlo, a meno di non accettare o un ruolo di forza extraparlamentare, con proiezioni magari eversive, o un abbandono tout court di ogni ambizione politica con il conseguente riflusso nel privato. Infine una condanna, perché significava accettare il ghetto rimandando a tempi ragionevolmente lunghi il proprio rientro nella comunità democratica. Si trattava, perciò, per la destra italiana di salvaguardare e perpetuare nei tempi brevi un’identità che per la maggior parte di essi equivaleva alla possibilità di acquisire una cittadinanza politica almeno simbolica e nei tempi lunghi di approfittare di condizioni favorevoli per rompere il cordone sanitario che li relegava nell’illegittimità istituzionale e nell’irrilevanza politica.
È stato, questo, il compito che Almirante definì con lucidità: «Vivere da fascisti in una democrazia». Ovviamente cambiava molto se l’accento era posto sul «vivere da fascisti» o sul «vivere in una democrazia». Non si può negare che il Msi in generale e il Msi di Almirante in particolare abbia oscillato non poco tra i due estremi. Ora ha puntato soprattutto a difendere la sua identità neofascista, ora ha cercato di cogliere le occasioni offertegli dall’evoluzione del quadro politico per propiziare il suo rientro nel gioco democratico.
Sarebbe lungo in questa sede esaminare un cinquantennio di storia. A bocce ferme e col senno di poi, si può dire che la missione è stata compiuta. Ma solo a metà. La guida di Almirante, senza dubbio il vero leader della destra italiana della Prima Repubblica che con essa si è identificato fino a diventarne la sua stessa icona, è riuscito a guidare il suo popolo nella travagliato passaggio del Mar Rosso fino a farlo approdare (quasi) incolume alla terra promessa. Diversamente, però, da Mosè, nel momento stesso in cui il suo popolo poggiava i piedi finalmente in terra democratica, invece di poter celebrare la missione compiuta con l’annegamento politico dei suoi oppressori, doveva subire il lutto della sua dispersione e della sua diaspora.
Evidentemente il lungo esilio in patria aveva disseccato la fonte della sua creatività politica. L’aria aperta ritrovata risultava inospitale per il vecchio organismo, infragilito da una troppo lunga permanenza (e inattività) nei luoghi della convalescenza dal morbo contratto della nostalgia per un passato senza futuro. (testo anticipato da Il Giornale)
di Roberto Chiarini (barbadillo.it)
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