venerdì 28 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
venerdì 21 dicembre 2012
Secolo d'Italia.Oggi l'ultima copia cartacea dello storico quotidiano
di Marcello de Angelis (da "Secolo d'Italia" di oggi, venerdì 21 dicembre 2012)
Non mi piacciono molto i cambiamenti, sono nostalgico per Dna. Eppure negli ultimi dieci anni ho dovuto ammettere e accettare che il mio mondo di rotative e acidi tipografiche è destinato a sparire come altri pezzi importanti del mio piccolo mondo antico. Già oggi i nostri lettori sul web sono dieci volte superiori a quelli che si spostano per andare in edicola. E lo stesso prodotto, sul web o cartaceo, costa enormemente di meno. Le imprese sono fatte di prodotto e persone che producono.
Per il prodotto costano materiali, realizzazione e trasporto. Poi c’è quello che orrendamente viene definito “costo del lavoro”, le persone. Una filosofia aziendale normale taglia il costo del lavoro per investire sul prodotto. Ma il nostro prodotto non sono la carta e l’inchiostro, ma le idee. E le idee vengono dall’esperienza e dalla sensibilità delle persone e dalla storia, che per noi è comune anche se oggi straordinariamente confusa. Oppure, voglio essere ottimista, semplicemente “plurale” e quindi in divenire verso qualcosa di futuro che ci rivedrà tutti insieme. la mattina, ormai, persino io appena sveglio accendo il computer e mi leggo i quotidiani e le rassegne stmpa “on line”.
Quindi, anche questa volta, ho alzato le mani e mi sono arreso alla modernità e – forse – anche alla comodità se non addirittura alla pigrizia. Per molti di voi è lo stesso e per moltissimi altri lo sarà a breve. Che il Secolo sia uno strumento di informazione o di testimonianza una cosa è certa: il suo messaggio deve raggiungere più persone possibile, il più velocemente e a minor costo. Quindi, da gennaio, sarà “on line”. La battaglia continua, con altri mezzi.
mercoledì 19 dicembre 2012
NASCE InformAzione / Cultura • Politica • Società
Un giornale che ha come missione l'imminenza del binomio forte e corposo dell'informare agendo. C'è un fondo di pensiero gentiliano nell'accostare l'azione al pensiero e renderli unici cosìcome questo giornale vuole essere, la sintesi del nostro pensiero, le tesi della nostra azione, l'antitesi del sistema a cui ci rivolgiamo.
Informare per formare, per agire e per pensare. La condizione della cultura, della storia e della sua ecoluzione. Ecco perchè informazione. Ecco perchè Azione. Insieme.
Corpo e mente. Penna e spada.
http://www.facebook.com/pages/Informazione-Milazzo/445092822217199?fref=ts
Informare per formare, per agire e per pensare. La condizione della cultura, della storia e della sua ecoluzione. Ecco perchè informazione. Ecco perchè Azione. Insieme.
Corpo e mente. Penna e spada.
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SOLSTIZIO D'INVERNO
L'anno volge al termine, le ore di luce si riducono sempre più; la vita non cessa, ma sembra ripiegare su se stessa, perdere slancio. E' un tempo di raccoglimento. Come la terra arata e seminata si richiude sul solco proteggendo il seme dal gelo, anche noi suoi figli ci stringiamo, o dovremmo stringerci, gli uni agli altri; nel tepore delle nostre case e delle nostre comunità, nell'intimo dei raporti più stretti e vivi. Noi e il nostro sangue, linfa e seme futuro. Tornerà il Sole, non promessa ma atto vitale. Nel Solstizio d'inverno la notte stenderà il suo manto sull'intero universo e parrà sprofondarlo nel buio, ma dopo una lotta antica quanto vana, dovrà cedere ancora una volta al Sole Invitcto. In quella notte, noi, non spettatori muti, non piccoli frammenti di tempo in balia del fato, ma legionari serrati a coorte combatteremo la sacra battaglia. I nostri fuochi accesi si uniranno come una moltitudine di schiere ed il Sole vittorioso ci troverà ancora una volta al suo fianco.
Oggi è tempo d'attesa, vigilia d'arme, veglia notturna! Aspettiamo e prepariamo il corpo e lo spirito non mortificando la carne, ma esaltando la mente e il cuore nel fiero e formidabile calore della nostra fratellanza. Noi affiliamo le spade, riborchiamo gli scudi, rinanelliamo gli usberghi. Noi ci guardiamo con fiducia negli occhi limpidissimi della nostra amicizia. Dividiamo la briciola e il calice passiamo di mano in mano. Sereni e forti. Verrà la notte fatidica e la battaglia. Poi canteremo ed urleremo la nostra gioia e danzeremo fra i fuochi morenti mentre l'alba infrange ad oriente.
il ciclope
lunedì 17 dicembre 2012
ESCLUSIVO!! Gli atti della corte dei conti confermano che il dissesto è tutta una montatura!
E' da un paio di mesi ormai che tentiamo di far capire alla gente,il perchè questo dissesto è una bufala montata ad arte.Figlio di invenzioni,di vendetta e ritorsioni politiche.Ma perchè dobbiamo essere noi a pagare i capricci di questi politicanti?
Il deliberato della corte dei conti si basa solo ed esclusivamente sulle dichiarazioni rese dall'assessore Midili e dal segretario generale(ah per inciso il quinto in due anni,qualcosa vorrà pur dire).
L'amministrazione non ha adottato le misure correttive,così come richiesto,atte a superare le criticità economiche.
Il dissesto è dovuto al fatto che ,sindaco e soci,non hanno adempiuto alle misure correttive così come la corte dei conti aveva richiesto.Inoltre non sono state mai trasmesse alla corte,nonostante i ripetuti solleciti,le relazioni dell'organo di revisione sul bilancio di previsione dell'esercizio 2011 e sul rendiconto della gestione dell'esercizio 2010.
DI SEGUITO RIPORTIAMO GLI ATTI DELLA CORTE DEI CONTI.
E VOI CI VOLETE FAR CREDERE CHE QUESTO NON E' UN DISSESTO MONTATO AD ARTE???
SVEGLIA MILAZZO!!!
domenica 16 dicembre 2012
Muri in camica nera
A cavallo degli anni trenta tutta Italia si trasformò in un muro da affrescare. Oggi, settant’anni dopo la caduta di Mussolini, i motti fascisti riemergono dall’oblio, straordinaria testimonianza di storia minore dell’Italia. Questo libro tratta della genesi di questa straordinaria forma di propaganda, dalla selezione dei motti estrapolati dai discorsi del Duce fino alla stesura sull’intonaco e alle tecniche di realizzazione.
Il tema si presta a speculazioni politiche ed è suscettibile di contestazioni polemiche, gli abbiamo dato un taglio leggero ma professionale, scevro da ogni contaminazione nostalgica. Claudio Marsilio spiega nel libro “Muri in camicia nera” (Albertelli Editore) le ragioni della sua opera.
Romano, classe 1969, Claudio Marsilio è un architetto specializzato nella tutela del patrimonio. Da alcuni anni le vecchie scritte murarie del Ventennio, della guerra civile e dei primi mesi di vita della Repubblica Italiana sono al centro della sua attenzione.
Un lavoro realizzato da uno studioso che di quei murales neri ha voluto ricostruire passato, funzione e sopravvivenza nel corso dei decenni.
Circoscritto per facilità di ricerca alla Regione Abruzzo (per motivi che l’autore indica nel capitolo introduttivo) il testo spazia dallo studio di tale strumento politico d’indottrinamento dele masse all’analisi dei documenti storici dell’Archivio Centrale dello Stato e d’Abruzzo, senza tralasciare la campagna per la defascistizzazione dell’Italia e le scritte vergate sui muri per il referendum Monarchia-repubblica o delle Classi in partenza per il militare o la Guerra. Il libro è largamente dotato di fotografie originali che ritraggono i motti sopravvissuti sulle facciate delle case oltre a monumenti, targhe commemorative e quant’altro resistito fino ai giorni nostri dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono più di 400 foto tra scritte, lapidi, monumenti sia del Ventennio che della guerra civile e del referendum del 2 Giugno 1946.
Può sembrare semplice, ma per un’effige mussoliniana sopravvivere per 80 anni a logorio degli edifici, abbattimenti, tentativi di cancellazione è di per sé un piccolo record.
Quale il senso di conservare e di catalogare quelle forme di propaganda? studio che tratta dell’argomento non in modo apologetico, bensì con l’occhio critico di chi scopre, analizza ed invita a preservare testimonianze di un passato recente, che ancora esercita sulla nostra società, sul nostro pensiero, sulla storiografia contemporanea divisa da 20 anni non ancora completamente noti e conosciuto fin alle loro radici. Una storia a immagini alla quale Marsilio ha voluto dare un taglio leggero ma professionale e scevro da contaminazioni nostalgiche.
da secoloditalia.it
Il tema si presta a speculazioni politiche ed è suscettibile di contestazioni polemiche, gli abbiamo dato un taglio leggero ma professionale, scevro da ogni contaminazione nostalgica. Claudio Marsilio spiega nel libro “Muri in camicia nera” (Albertelli Editore) le ragioni della sua opera.
Romano, classe 1969, Claudio Marsilio è un architetto specializzato nella tutela del patrimonio. Da alcuni anni le vecchie scritte murarie del Ventennio, della guerra civile e dei primi mesi di vita della Repubblica Italiana sono al centro della sua attenzione.
Un lavoro realizzato da uno studioso che di quei murales neri ha voluto ricostruire passato, funzione e sopravvivenza nel corso dei decenni.
Circoscritto per facilità di ricerca alla Regione Abruzzo (per motivi che l’autore indica nel capitolo introduttivo) il testo spazia dallo studio di tale strumento politico d’indottrinamento dele masse all’analisi dei documenti storici dell’Archivio Centrale dello Stato e d’Abruzzo, senza tralasciare la campagna per la defascistizzazione dell’Italia e le scritte vergate sui muri per il referendum Monarchia-repubblica o delle Classi in partenza per il militare o la Guerra. Il libro è largamente dotato di fotografie originali che ritraggono i motti sopravvissuti sulle facciate delle case oltre a monumenti, targhe commemorative e quant’altro resistito fino ai giorni nostri dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono più di 400 foto tra scritte, lapidi, monumenti sia del Ventennio che della guerra civile e del referendum del 2 Giugno 1946.
Può sembrare semplice, ma per un’effige mussoliniana sopravvivere per 80 anni a logorio degli edifici, abbattimenti, tentativi di cancellazione è di per sé un piccolo record.
Quale il senso di conservare e di catalogare quelle forme di propaganda? studio che tratta dell’argomento non in modo apologetico, bensì con l’occhio critico di chi scopre, analizza ed invita a preservare testimonianze di un passato recente, che ancora esercita sulla nostra società, sul nostro pensiero, sulla storiografia contemporanea divisa da 20 anni non ancora completamente noti e conosciuto fin alle loro radici. Una storia a immagini alla quale Marsilio ha voluto dare un taglio leggero ma professionale e scevro da contaminazioni nostalgiche.
da secoloditalia.it
giovedì 13 dicembre 2012
#difendiAMOmilazzo
E' NATO IL COMITATO CITTADINO #difendiAMOmilazzo
DEVI ESSERE TU A DECIDERE LE SORTI DELLA TUA CITTA'
martedì 11 dicembre 2012
Il caso Sallusti, benvenuti a Magistrolandia
Alessandro Sallusti viene querelato dal giudice Tonino Cocilovo, che si ritiene diffamato da un articolo in realtà scritto da Renato Farina sotto lo pseudonimo “Dreyfus”, riguardante la vicenda di una minorenne infraquattordicenne che il tribunale dei minori presieduto da Cocilovo avrebbe “obbligato” ad abortire.
Viene condannato a un anno e 2 mesi più il pagamento di 5000 euro di ammenda e delle spese processuali per il reato di diffamazione a mezzo stampa. In questi casi di solito l'applicazione della sospensione condizionale della pena sarebbe prassi, dal momento che la pena inflitta è inferiore ai due anni e l'imputato è incensurato: nel caso di Sallusti invece, viene rinvenuta una “spiccata capacità a delinquere”, una propensione alla reiterazione di quel tipo di reati tale da non consentire la condizionale. Come sappiamo, il 26 settembre scorso la Cassazione conferma in via definitiva la condanna: la cosa curiosa e penosa è che a motivazione della sentenza ci sarebbe l'omesso controllo su un articolo che Sallusti non ha scritto, e la impossibilità a risalire al reale possessore dello pseudonimo Dreyfus, colui che materialmente ha commesso il reato e che anche i sassi sanno essere il nome di penna di Farina, quindi non si capisce da dove derivi questa “impossibilità”.
Si aprirebbero a questo punto per il direttore le porte del carcere, ma il procuratore di Milano Bruti Liberati, che si è occupato personalmente del caso come se lo spezzare le reni a Sallusti fosse priorità tale da scomodare il sig Bruti in persona, concede i domiciliari al direttore sulla base del decreto svuota-carceri, che consente ai condannati con pena inferiore ai 18 mesi che non costituiscono un pericolo sociale (ma Sallusti non aveva “una spiccata capacità a delinquere?”) di scontare la pena a casa... come a dire: adesso ti abbiamo cazziato, chiedi scusa, fai cuccia e ti concediamo di startene a casetta tua anziché a San Vittore.
Sallusti invece pretende di andare in galera, di non godere di privilegi che non sono consentiti a nessun altro detenuto. Il resto è cronaca degli ultimi giorni: Sallusti “evade” volutamente dai domiciliari recandosi alla redazione del suo quotidiano, qua viene raggiunto dagli agenti della digos che gli notificano, con l'ennesimo colpo di teatro, l'ordinanza di arresto in piena riunione di redazione. Morale di tutta la favola?
- In Italia nel 2012 si va ancora in galera per un articolo di giornale, come in Cina, Uzbekistan, Corea del Nord, Cuba... insomma in tutti questi bei paesi dove, come ben sappiamo, la libertà di espressione è la cosa che sta più a cuore ai governanti.
- Se per mestiere fai il magistrato, laddove vieni diffamato al diffamatore non si fanno sconti, non bastano i soldi di risarcimento ma dev'essere schiaffato nelle patrie galere senza pietà e di corsa, specie se il diffamatore si chiama Alessandro Sallusti e fa il direttore di un quotidiano che non sventola la bandiera del forcaiolismo e il giustizialismo oltranzista: la macchinosa macchina della giustizia italiana diventa di colpo più veloce di una lamborghini,implacabile e letale come un colpo di mannaia in piena testa.
- I nostri formidabili inquirenti non sono stati in grado a quanto sembra di scoprire chi fosse sto giornalista che si firma “Dreyfus”,mentre io e milioni di altri lettori c'eravamo riusciti benissimo senza fare indagini (pensa un po'), quindi il reale colpevole è rimasto impunito condannando un altro al posto suo, nel rispetto palese (come si vede) del principio della personalità della responsabilità penale.
- In aperto contrasto pure dei principi di materialità ed offensività, una persona è stata condannata per un comportamento che non ha realizzato nessuna lesione materiale di un bene giuridico protetto. Il magistrato diffamato dalle infami meschinità di sallusti-farina-dreyfus o chi vi pare a voi, non ci risulta che a seguito dell'articolo sia stato licenziato, degradato, abbia subito danni di alcun genere.
Oltre che una brutta pagina di democrazia come si dice, la vicenda narrata, mi sembra anzitutto una brutta pagina di giurisprudenza: principi elementari di diritto, prassi giudiziali, normative che regolano l'esecuzione penale sono stateadattate per colpire un uomo solo, e il tutto sulla base della loro vergognosa concezione esemplare della sanzione penale: chi tocca un intoccabile, ecco la fine che fa, e ciò serva di lezione ai posteri giornalistici. Colpirne uno per educarne cento, diceva Mao...
di Federico Ponzo
lunedì 10 dicembre 2012
Berlusconi è ancora il “male necessario”?
Quando nel 1994 Silvio Berlusconi decise di “scendere in campo” per fermare l’alleanza progressista guidata da Achille Occhetto tanti interrogativi si aprirono nel centrodestra, soprattutto nel MSI. Nel partito della fiamma, a parte certo facile entusiasmo di quanti sognavano esclusivamente la fuoriuscita dall’isolamento durato un cinquantennio, anche i più critici fecero un ragionamento semplice e lucido:Berlusconi era il “male minore” e soprattutto un “male necessario” per la destra italiana.
Un “male minore” perché caduta la Democristiana Cristiana, che nel bene e nel male era stato un baluardo contro i comunisti, l’opzione berlusconiana era certamente più digeribile rispetto alla concreta possibilità di vedere gli ex comunisti (ripuliti apparentemente dopo il crollo del Muro di Berlino) al governo della nazione. Se la promessa della “rivoluzione liberale” di Berlusconi non era esattamente il sogno dei missini certamente il loro incubo era la continuazione di quel sistema di potere che li aveva esclusi, e perseguitati, dal dopo guerra in poi.
Perché un male? Già nel famoso video in cui Berlusconi annunciava di voler entrare in politica erano chiare le parole d’ordine della sua visione del mondo. Accusava la sinistra di non avere a cuore il mercato, il profitto e l’individuo. A parte qualche vago accenno alla solidarietà ed ai principi cattolici il suo era un vero e proprio richiamo al più estremo liberismo di stampo anglosassone. Oggi possiamo più facilmente comprendere il pericolo di quella sua visione della società e del ruolo della politica. Pensiamo come il “mercato” e la sua totale “libertà” abbiano generato in tutto il mondo un sistema economico mostruoso. Pensiamo al concetto del profitto innalzato, come da ideologia protestante, a valore supremo in spregio a qualsiasi logica di giustizia sociale. Pensiamo all’esaltazione dell’individuo che ha generato quell’individualismo esasperato in chiave anticomunitario. A questo si aggiungeva la consapevolezza della qualità della sottocultura televisiva (commerciale), di cui Berlusconi era portatore, poco compatibile con l’idea di cultura nazionale della destra. Differenze evidenti erano anche sulla visione del partito (che il disfacimento del PDL confermano). Berlusconi, sempre nel famoso video, parlava del suo nuovo partito come “libera organizzazione di elettrici ed elettori”. Non iscritti, militanti e dirigenti cioè una comunità umana e politica, legata da ideali e comune destino, ma rapporto diretto tra il capo (o meglio il padrone) e l’elettore-cliente-spettatore in perfetta logica aziendale. Sappiamo, a 18 anni da quel video, che funzionano molto meglio la vecchie strutture di partito (come ha recentemente dimostrato il PD)…
Si riteneva un “male necessario” perché doveva essere una situazione di passaggio per consentire alla destra di arrivare ad un moderno bipolarismo che la rimettesse in gioco. Berlusconi era anche lo strumento, per quanti provenivano dal ghetto della destra, per abbattere il sistema politico, economico e culturale della prima repubblica tanto odiato. Per comprendere questa posizione basta leggere un passo dell’intervista a Marcello De Angelis nel libro I Ripuliti: “Per noi Berlusconi ha avuto un ruolo strumentale. Scherzando un giorno spiegai ad un ex PCI, deputato alla Camera, che per noi Berlusconi è la dittatura del proletariato, quella situazione teoricamente non auspicabile ma necessaria come passaggio, come momento di transizione, per arrivare all’anno zero”.
Un’alleanza strategica, quella del MSI-AN con Berlusconi, che per la prima volta portava il centro, o almeno buona parte di esso, ad allearsi con la destra piuttosto che con la sinistra come era avvenuto nei 50 anni della prima repubblica.
Va comunque ricordato che Berlusconi ebbe si il merito storico di non aver avuto alcuna pregiudiziale antifascista, nella composizione dell’alleanza nel 1994, ma non fu certamente lui a “sdoganare la destra”. Questo luogo comune va rigettato perché furono gli elettori a sdoganare la destra votando in massa i candidati del MSI (ancora non era nata AN) alle amministrative del 1993. Basta ricordare che a Chieti, Benevento e Latina furono eletto sindaci i candidati del MSI. A Roma e Napoli Fini e Mussolini arrivarono al ballottaggio. A Catania nel febbraio ’94 Nello Musumeci fu eletto Presidente della Provincia. Gli italiani videro nel MSI (e nella Lega) un soggetto politico realmente alternativo al sistema partitocratico crollato dopo Tangentopoli.
Sulla base di queste considerazioni, qui ovviamente semplificate, dal 1994 al 2008 la destra italiana ha accettato la leadership incontrastata di Berlusconi del centrodestra.
Senza voler fare un bilancio definitivo dell’alleanza tra la destra italiana e Berlusconi occorre prendere atto che gran parte delle aspettative non sono state realizzate. Le colpe non sono unicamente di Berlusconi ma soprattutto della classe dirigente di Alleanza Nazionale non all’altezza del compito che la storia le aveva assegnato fin dai primi anni '90.
A parte l’introduzione di un sistema bipolare, seppur notevolmente precario, ed in campo cattolico all'argine posto contro la sinistra relativista non c’è stato un sostanziale cambiamento del Paese e l’azzeramento del vecchio apparato di potere. A fronte di tutto questo con la nascita del PDL, e le varie scissioni, quello che fu il mondo della destra italiana oggi è diviso in almeno tre partiti contrapposti. A peggiorare la situazione è l'amara constatazione che se nel '92-'94 il centrodestra riuscì a cavalcare l'onda della rabbia popolare contro la partitocrazia e la malapolitica oggi sostanzialmente ne siamo travolti. Ad oggi non ho sentito alcun mea culpa da parte dei colonnelli ex AN (a cominciare dal grande stratega Fini).
Non mi pare che la situazione politica del 2012 sia migliore di quella del 1994 per la destra italiana e per tutto il Paese. Ai legittimi dubbi del 1994 si aggiungono le vicende del 2008/2012: il fallimento dell’azione di governo, l’incapacità di tenere unito il PDL, gli scandali sessuali, le sconfitte elettorali, il recente balletto primarie si primarie no, la nuova discesa in campo di Berlusconi.
Per questo mi domando: alle elezioni politiche del 2013 la destra italiana (quello che rimane nel PDL e fuori) deve ancora una volta considerare Berlusconi un “male necessario”? Se per i dirigenti, per i militanti e per gli elettori di destra era legittimo e penso giusto sostenere Berlusconi ininterrottamente in tutte le battaglie elettorali (e senza seguire Fini in FLI) oggi tale appoggio non è scontato.
Non ho una risposta certa. Ho comunque l’impressione che il metodo seguito da Berlusconi di condurre la sua ricandidatura, ignorando la volontà degli organi di partito, renda chiara l’idea del Cavaliere sul futuro del centrodestra italiano. Sembra quasi che Berlusconi non abbia alcuna intenzione di immaginare un futuro per questa area politica senza di lui. Le prime indiscrezioni sulle candidature volute da Berlusconi sono la riproposizione dei metodi usati in Forza Italia, gli stessi che hanno notevolmente abbassato il livello della qualità della classe politica. Persiste in Berlusconi l’idea che la classe politica non si forma all’interno dei partiti ma si cerca tra imprenditori, calciatori, uomini e donne dello spettacolo. Sappiamo dove porta questa logica…
Qualcuno dice che, davanti ad una sicura vittoria della sinistra, con la ricandidatura di Berlusconi il centrodestra potrebbe limitare i danni. In particolare si dice che la destra italiana, magari riorganizzata in una lista alleata alla nuova Forza Italia, riuscirebbe a garantire una pattuglia di parlamentari per costruire il dopo Berlusconi.
Quest’ultima è chiaramente una ipotesi razionale in un momento così difficile. Però alla luce dei recenti tracolli elettorali, e del crescente distacco del nostro elettorato da Berlusconi, è necessaria una più attenta riflessione che non deve escludere scelte diverse. Temo che la nostra gente non ci perdonerà una nuova alleanza nel nome di Berlusconi.
Non sarà forse di grande attualità lo storico motto del MSI "non rinnegare, non restaurare"? Tradotto in termini attuali: non dobbiamo rinnegare (come indegnamente ha fatto Fini) le scelte giuste e sbagliate a fianco di Berlusconi, non possiamo pensare di restaurare un leader da consegnare ormai ai libri di storia.
E' forse il tempo di scelte coraggiose, di tatticismo si muore. E soprattutto si muore senza onore.
di Mauro La Mantia
domenica 9 dicembre 2012
DISSESTO,A CHI SERVE?
Oggi nella sala rotonda del Paladiana di Milazzo si è svolta la conferenza sul dissesto. Hanno partecipato molti consiglieri delle passate amministrazioni ma anche quelli uscenti. Il convegno verteva proprio sulla situazione economica in cui versa la massima istituzione milazzese, di fatti la discussione prendeva in esame le possibilità, ricostruendone l'iter storiografico, attraverso gli interventi dei rappresentanti delle varie forze politiche. Nonostante il dibattito si sia animato sulle diverse possibilità che il consiglio ha, l'abstract è stato univoco nel considerare "sconsiderato" l'eventualità di votare il dissesto.
Sarà mozione di sfiducia? Saranno dimissioni? Sarà la legge 174? Le soluzioni sono tante e di fatto questo convegno ha esercitato un buon risalto mediatico visto i tanti giornalisti presenti in sala. Sicuramente sarà il primo di una lunga serie di incontri.Noi eravamo presenti con una folta delegazione, in rappresentanza del mondo giovanile, ovviamente, contrario soprattutto alle modalità in cui questo dissesto viene dettato. E di diktat bulgaro si è parlato, aldilà delle vendette personali post nomine "dirigenti del terzo piano", nell'esaminare i pochi dati a disposizione messi a disposizione dall'Assessore Midili.
Sembra che non sia stato ascoltato neanche l'invito della Corte dei Conti, a spiegarlo è niente meno che la sinistra milazzese, a procedere al rendiconto e alle misure correttive prima di manifestare le condizioni del dissesto, dunque estrema ratio. Ma il sindaco milazzese, lungi dall'utilizzare il dissesto come un rimedio ultimo alla stregua di una chemioterapia, vuole a tutti i costi dichiarare la morte del comune e condannare il corpo esanime di questo a una lunga agonia in stile piazzale Loreto... ma in molti non ci stanno e il clima è sempre più teso.Il sindaco di Milazzo e i pochi eletti al suo fianco, sono gli unici amministratori in Italia a ritenere il dissesto "La soluzione",testimonianza della totale noncuranza del futuro della nostra città.Il terrorismo bianco di Robespierre/Pino è ormai all'ultimo stadio... ma la ghigliottina si è inceppata.
NOI NON GLIELO PERMETTEREMO!
#difendiAMOmilazzo
venerdì 7 dicembre 2012
IL CAPITANO..
Intendiamo dedicare queste brevi note ad uno degli uomini più rappresentativi del Fronte della Tradizione, come testimoniò Julius Evola che lo conobbe personalmente, cioè Corneliu Zelea Codreanu.
Il Capitano nacque il 13 settembre 1899 a Husi, una piccola città della Moldavia settentrionale romena, immersa in una natura aspra e severa ove il retaggio atavico della stirpe era preservato ben più che nella capitale Bucarest, attratta dalle sirene della modernità e del cosmopolitismo.
Per noi che militiamo su posizioni antagoniste al mondo moderno, è doveroso ricordare la figura del leggendario fondatore della "Legione Arcangelo Michele" (24 giugno 1927), della "Guardia di Ferro" (20 giugno 1930) e del raggruppamento "Tutto per la Patria" (20 marzo 1935).
Inquadrabili fra quei movimenti di rinascita nazionale -sorti un po' dapertutto, nel periodo fra le due guerre mondiali, sull’onda della Rivoluzione Fascista- tali formazioni, oltre che alla salvezza della Romania dal pericolo marxista e dall’usura, intendevano procedere anche al rinnovamento spirituale della stirpe, nonchè alla realizzazione interiore del singolo militante.
Codreanu adottò, infatti, quale uniforme dei legionari, la camicia verde, colore tradizionalmente simbolo di rigenerazione, di vita e di speranza.
Ascesi, mistica del sacrificio, pratica del digiuno, fede nella forza della preghiera, culto delle icone e degli antenati, fedeltà alla monarchia, tutto ciò era riconducibile ad una visione del mondo, tipica della Tradizione Cristiano-Ortodossa, che affonda le sue radici nelle ultime, limpide espressioni dell’ethnos indoeuropeo.
Inoltre, attività lavorative, ricreative e sportive diventavano ulteriori tappe per la fortificazione psichica e fisica del singolo legionario e del Cuib o nido, cellula-base attorno alla quale si articolava la Legione.
Le lunghe escursioni nei boschi, sui monti o nelle località ove si erano svolte importanti battaglie, i bivacchi attorno al fuoco ricollegavano il fenomeno legionario romeno a quei Wandervogel che, in un mondo guglielmino avviato alla dissoluzione, cercavano nella natura incontaminata l’essenza d’una Germania archetipica e primordiale (Sublimata poi nelle trincee o fra le fila dei Corpi Franchi).
"La domenica e tutti i giorni di festa i cuiburi di ogni categoria devono mettersi in marcia. Noi non conosciamo la nostra terra. Alcuni non conoscono nemmeno il villaggio vicino. Nei giorni di festa, sotto la pioggia o col bel tempo, d’inverno o d’estate, dobbiamo uscire in mezzo alla natura. La terra romena deve diventare una specie di formicaio in cui si incontrino, su tutte le strade, migliaia di cuiburi che marciano verso ogni direzione. All’ora della funzione religiosa, ci si fermi nella chiesa che si trova sul cammino. Ci si fermi dai camerati dei villaggi vicini. La marcia è salutare. La marcia ristora e ridà vigore ai nervi e allo spirito. Ma sopratutto la marcia è il simbolo dell’azione, dell’esplorazione, della conquista legionaria" ("Il Capo di Cuib", Edizioni di Ar, Padova 1981).
Corneliu Zelea Codreanu attribuiva poi notevole importanza al canto, quale fattore di salute spirituale e di coesione del gruppo.
Ed allora, canti legionari di battaglia e vecchie canzoni dei soldati e dei contadini, dedicate alle gesta degli antichi eroi ed al lavoro dei campi, accompagnavano ovunque le camice verdi.
La creazione di mense ed ostelli a prezzi politici per i legionari -ognuno dei quali doveva considerarsi un "viandante della rivoluzione"- dimostrano una volta di più l’importanza attribuita da Codreanu alla gioventù, intesa come quella particolare predisposizione dell’anima alla purezza, all’avventura ed all’intransigenza, malgrado le avversità della vita ed il naturale decadimento fisico.
Il legionario, anche se incanutito, è sempre giovane poichè interiormente non si è mai allontanato da quella sorgente di vita che è l’adesione ai principi atemporali della Tradizione.
Emblematiche le parole del comandante legionario Ion Motza, caduto poi eroicamente nella guerra di Spagna: "Lo spirito delle fiabe dell’infanzia e delle battaglie epiche del nostro passato vive nella gioventù. Essa sente che nulla può dare alla vita bellezza e incanto se non lo slancio eroico e l’amore per un ideale. Questa purezza di sentire, dalla quale si leva la generosità del giovane per la conquista eroica della vittoria, questo vigoroso e splendido slancio verso l’ideale lo proteggono dall’angusta prigione dell’individualismo materialista e lo rendono atto ad essere integrato nella comunità" ("L’uomo nuovo", Edizioni di Ar, Padova1978).
Bellissimo, inoltre, il saluto legionario, sull’attenti con la mano destra posata sul cuore, a raccogliere la propria saldezza interiore, e poi subito slanciata nel saluto romano, verso le forze della Luce.
"Il Paese va in rovina per mancanza di uomini, non per mancanza di programmi. E’ questa la nostra convinzione. Dobbiamo quindi non elaborare nuovi programmi ma allevare uomini, uomini nuovi...Di conseguenza la Legione Arcangelo Michele sarà una scuola e un esercito più che un partito politico" ("Per i legionari", Edizioni di Ar, Padova 1984), volendoci insegnare il Capitano come solo dopo aver sottomesso il nemico interiore, cioè il proprio ego, nella cosiddetta Grande Guerra, si possa poi aver ragione di quello esterno, nella lotta politica propriamente intesa o Piccola Guerra.
Ancora validissime sono le sei leggi fondamentali del Cuib, di seguito elencate:
"1) La legge della disciplina: sii legionario disciplinato, perchè solo in questo modo sarai vittorioso. Segui il tuo capo nella buona e nella cattiva sorte.
2).La legge del lavoro: lavora. Lavora ogni giorno. Lavora con amore. Ricompensa del lavoro ti sia non il guadagno, ma la soddisfazione di aver posto un mattone per la gloria della Legione e per il fiorire della Romania.
3) La legge del silenzio: parla poco. Parla quando occorre. Di’ quanto occorre. La tua oratoria è l’oratoria dell’azione. Tu opera, lascia che siano gli altri a parlare.
4) La legge dell’educazione: devi diventare un altro. Un eroe. La tua scuola, compila tutta nel Cuib. Conosci bene la Legione.
5) La legge dell’aiuto reciproco: aiuta il tuo fratello a cui è successa una disgrazia. Non abbandonarlo.
6) La legge dell’onore: percorri soltanto le vie indicate dall’onore. Lotta e non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell’infamia: Piuttosto che vincere per mezzo di un’infamia, meglio cadere lottando sulla strada dell’onore" ("Il Capo di Cuib").
Decine di migliaia di giovani accorsero sotto le bandiere della rivoluzione nazionale romena, sconvolgendo i piani delle centrali bolsceviche e del grande capitale finanziario, allarmate dai successi anche elettorali della Legione.
Purtroppo, per un insieme sciagurato di circostanze, le istituzioni che avrebbero avuto il dovere di favorire il movimento legionario -e cioè la Chiesa Ortodossa e la Monarchia- disertarono tale compito.
L’alto clero tenne una posizione furbesca ed attendista, mentre il Re Carol II, circuito dall’amante e da consiglieri al soldo di forze straniere, avversò duramente Codreanu (A ciò non fu estranea una politica estera tedesca più legata a schemi sciovinistici che ad una visione europea e rivoluzionaria d’ ampio respiro, come quella dell’Italia Fascista).
Il movimento legionario, vittima delle provocazioni di un regime e di una polizia segreta -la famigerata Oculta- che non esitarono a ricorrere ad una vera e propria "strategia della tensione", cadde in un vortice quasi samsarico di violenze e di vendette.
Malgrado tutto -come possiamo leggere su "Raido", n°16, solstizio d’estate 1999- "i legionari quando dovevano vendicare il tradimento o le persecuzioni dei propri camerati, arrivando anche all’assassinio di qualche aguzzino, si costituivano poichè, ferventi religiosi, sapevano che quell’azione doveva essere espiata con la carcerazione ed in ultimo con il giudizio di Dio".
Dopo innumerevoli persecuzioni, processi ed incarcerazioni (Non a caso, fra i simboli della Legione v’erano le grate del carcere), il Capitano e tredici Camerati, durante un finto tentativo di fuga, vennero assassinati, la notte fra il 29 ed il 30 novembre 1938 nella foresta di Jilava, da alcuni gendarmi prezzolati dal nemico.
L’ordine fu dato da quelle stesse forze cosmopolite ed antinazionali che, tuttora, si ostinano a denominare Rumenia -e non Romania- la terra dei daci e dei legionari di Traiano, per svilirne i millenari legami con Roma e con il mondo indoeuropeo.
Del resto, stante l’inarrestabile avanzare dell’età oscura, un uomo cavalleresco ed eroico come Codreanu non poteva che essere "colui che doveva morire", come egregiamente definito da Cesare Mazza.
Ora, a prescindere da quanto strettamente attinente alla situazione romena dell’epoca, gli insegnamenti del Capitano e degli altri comandanti legionari offrono validissimi punti di riferimento ed elementi di riflessione per chi, come noi, si pone su posizioni metapolitiche.
Specialmente i libri di Codreanu possono essere considerati una sorta di manuali d’istruzione per una corretta formazione del giovane legionario e l’attività d’una comunità militante inserita organicamente in un più vasto progetto nazional-rivoluzionario, quale "zona libera" in un mondo di rovine (A nostro avviso, nel concetto di Cuib si possono rinvenire taluni echi del Ribelle jungeriano e dell’idea comunitaria delle saghe di Tolkjen).
Nel concludere, vogliamo ricordare come l’attuale Romania, uscita dal plumbeo regime comunista e poi caduta nelle spire del liberalcapitalismo, veda di nuovo i legionari percorrere quei sentieri dell’Onore e della Riscossa indicati un tempo da Corneliu Zelea Codreanu.
Andrea Monastra
Il Capitano nacque il 13 settembre 1899 a Husi, una piccola città della Moldavia settentrionale romena, immersa in una natura aspra e severa ove il retaggio atavico della stirpe era preservato ben più che nella capitale Bucarest, attratta dalle sirene della modernità e del cosmopolitismo.
Per noi che militiamo su posizioni antagoniste al mondo moderno, è doveroso ricordare la figura del leggendario fondatore della "Legione Arcangelo Michele" (24 giugno 1927), della "Guardia di Ferro" (20 giugno 1930) e del raggruppamento "Tutto per la Patria" (20 marzo 1935).
Inquadrabili fra quei movimenti di rinascita nazionale -sorti un po' dapertutto, nel periodo fra le due guerre mondiali, sull’onda della Rivoluzione Fascista- tali formazioni, oltre che alla salvezza della Romania dal pericolo marxista e dall’usura, intendevano procedere anche al rinnovamento spirituale della stirpe, nonchè alla realizzazione interiore del singolo militante.
Codreanu adottò, infatti, quale uniforme dei legionari, la camicia verde, colore tradizionalmente simbolo di rigenerazione, di vita e di speranza.
Ascesi, mistica del sacrificio, pratica del digiuno, fede nella forza della preghiera, culto delle icone e degli antenati, fedeltà alla monarchia, tutto ciò era riconducibile ad una visione del mondo, tipica della Tradizione Cristiano-Ortodossa, che affonda le sue radici nelle ultime, limpide espressioni dell’ethnos indoeuropeo.
Inoltre, attività lavorative, ricreative e sportive diventavano ulteriori tappe per la fortificazione psichica e fisica del singolo legionario e del Cuib o nido, cellula-base attorno alla quale si articolava la Legione.
Le lunghe escursioni nei boschi, sui monti o nelle località ove si erano svolte importanti battaglie, i bivacchi attorno al fuoco ricollegavano il fenomeno legionario romeno a quei Wandervogel che, in un mondo guglielmino avviato alla dissoluzione, cercavano nella natura incontaminata l’essenza d’una Germania archetipica e primordiale (Sublimata poi nelle trincee o fra le fila dei Corpi Franchi).
"La domenica e tutti i giorni di festa i cuiburi di ogni categoria devono mettersi in marcia. Noi non conosciamo la nostra terra. Alcuni non conoscono nemmeno il villaggio vicino. Nei giorni di festa, sotto la pioggia o col bel tempo, d’inverno o d’estate, dobbiamo uscire in mezzo alla natura. La terra romena deve diventare una specie di formicaio in cui si incontrino, su tutte le strade, migliaia di cuiburi che marciano verso ogni direzione. All’ora della funzione religiosa, ci si fermi nella chiesa che si trova sul cammino. Ci si fermi dai camerati dei villaggi vicini. La marcia è salutare. La marcia ristora e ridà vigore ai nervi e allo spirito. Ma sopratutto la marcia è il simbolo dell’azione, dell’esplorazione, della conquista legionaria" ("Il Capo di Cuib", Edizioni di Ar, Padova 1981).
Corneliu Zelea Codreanu attribuiva poi notevole importanza al canto, quale fattore di salute spirituale e di coesione del gruppo.
Ed allora, canti legionari di battaglia e vecchie canzoni dei soldati e dei contadini, dedicate alle gesta degli antichi eroi ed al lavoro dei campi, accompagnavano ovunque le camice verdi.
La creazione di mense ed ostelli a prezzi politici per i legionari -ognuno dei quali doveva considerarsi un "viandante della rivoluzione"- dimostrano una volta di più l’importanza attribuita da Codreanu alla gioventù, intesa come quella particolare predisposizione dell’anima alla purezza, all’avventura ed all’intransigenza, malgrado le avversità della vita ed il naturale decadimento fisico.
Il legionario, anche se incanutito, è sempre giovane poichè interiormente non si è mai allontanato da quella sorgente di vita che è l’adesione ai principi atemporali della Tradizione.
Emblematiche le parole del comandante legionario Ion Motza, caduto poi eroicamente nella guerra di Spagna: "Lo spirito delle fiabe dell’infanzia e delle battaglie epiche del nostro passato vive nella gioventù. Essa sente che nulla può dare alla vita bellezza e incanto se non lo slancio eroico e l’amore per un ideale. Questa purezza di sentire, dalla quale si leva la generosità del giovane per la conquista eroica della vittoria, questo vigoroso e splendido slancio verso l’ideale lo proteggono dall’angusta prigione dell’individualismo materialista e lo rendono atto ad essere integrato nella comunità" ("L’uomo nuovo", Edizioni di Ar, Padova1978).
Bellissimo, inoltre, il saluto legionario, sull’attenti con la mano destra posata sul cuore, a raccogliere la propria saldezza interiore, e poi subito slanciata nel saluto romano, verso le forze della Luce.
"Il Paese va in rovina per mancanza di uomini, non per mancanza di programmi. E’ questa la nostra convinzione. Dobbiamo quindi non elaborare nuovi programmi ma allevare uomini, uomini nuovi...Di conseguenza la Legione Arcangelo Michele sarà una scuola e un esercito più che un partito politico" ("Per i legionari", Edizioni di Ar, Padova 1984), volendoci insegnare il Capitano come solo dopo aver sottomesso il nemico interiore, cioè il proprio ego, nella cosiddetta Grande Guerra, si possa poi aver ragione di quello esterno, nella lotta politica propriamente intesa o Piccola Guerra.
Ancora validissime sono le sei leggi fondamentali del Cuib, di seguito elencate:
"1) La legge della disciplina: sii legionario disciplinato, perchè solo in questo modo sarai vittorioso. Segui il tuo capo nella buona e nella cattiva sorte.
2).La legge del lavoro: lavora. Lavora ogni giorno. Lavora con amore. Ricompensa del lavoro ti sia non il guadagno, ma la soddisfazione di aver posto un mattone per la gloria della Legione e per il fiorire della Romania.
3) La legge del silenzio: parla poco. Parla quando occorre. Di’ quanto occorre. La tua oratoria è l’oratoria dell’azione. Tu opera, lascia che siano gli altri a parlare.
4) La legge dell’educazione: devi diventare un altro. Un eroe. La tua scuola, compila tutta nel Cuib. Conosci bene la Legione.
5) La legge dell’aiuto reciproco: aiuta il tuo fratello a cui è successa una disgrazia. Non abbandonarlo.
6) La legge dell’onore: percorri soltanto le vie indicate dall’onore. Lotta e non essere mai vile. Lascia agli altri le vie dell’infamia: Piuttosto che vincere per mezzo di un’infamia, meglio cadere lottando sulla strada dell’onore" ("Il Capo di Cuib").
Decine di migliaia di giovani accorsero sotto le bandiere della rivoluzione nazionale romena, sconvolgendo i piani delle centrali bolsceviche e del grande capitale finanziario, allarmate dai successi anche elettorali della Legione.
Purtroppo, per un insieme sciagurato di circostanze, le istituzioni che avrebbero avuto il dovere di favorire il movimento legionario -e cioè la Chiesa Ortodossa e la Monarchia- disertarono tale compito.
L’alto clero tenne una posizione furbesca ed attendista, mentre il Re Carol II, circuito dall’amante e da consiglieri al soldo di forze straniere, avversò duramente Codreanu (A ciò non fu estranea una politica estera tedesca più legata a schemi sciovinistici che ad una visione europea e rivoluzionaria d’ ampio respiro, come quella dell’Italia Fascista).
Il movimento legionario, vittima delle provocazioni di un regime e di una polizia segreta -la famigerata Oculta- che non esitarono a ricorrere ad una vera e propria "strategia della tensione", cadde in un vortice quasi samsarico di violenze e di vendette.
Malgrado tutto -come possiamo leggere su "Raido", n°16, solstizio d’estate 1999- "i legionari quando dovevano vendicare il tradimento o le persecuzioni dei propri camerati, arrivando anche all’assassinio di qualche aguzzino, si costituivano poichè, ferventi religiosi, sapevano che quell’azione doveva essere espiata con la carcerazione ed in ultimo con il giudizio di Dio".
Dopo innumerevoli persecuzioni, processi ed incarcerazioni (Non a caso, fra i simboli della Legione v’erano le grate del carcere), il Capitano e tredici Camerati, durante un finto tentativo di fuga, vennero assassinati, la notte fra il 29 ed il 30 novembre 1938 nella foresta di Jilava, da alcuni gendarmi prezzolati dal nemico.
L’ordine fu dato da quelle stesse forze cosmopolite ed antinazionali che, tuttora, si ostinano a denominare Rumenia -e non Romania- la terra dei daci e dei legionari di Traiano, per svilirne i millenari legami con Roma e con il mondo indoeuropeo.
Del resto, stante l’inarrestabile avanzare dell’età oscura, un uomo cavalleresco ed eroico come Codreanu non poteva che essere "colui che doveva morire", come egregiamente definito da Cesare Mazza.
Ora, a prescindere da quanto strettamente attinente alla situazione romena dell’epoca, gli insegnamenti del Capitano e degli altri comandanti legionari offrono validissimi punti di riferimento ed elementi di riflessione per chi, come noi, si pone su posizioni metapolitiche.
Specialmente i libri di Codreanu possono essere considerati una sorta di manuali d’istruzione per una corretta formazione del giovane legionario e l’attività d’una comunità militante inserita organicamente in un più vasto progetto nazional-rivoluzionario, quale "zona libera" in un mondo di rovine (A nostro avviso, nel concetto di Cuib si possono rinvenire taluni echi del Ribelle jungeriano e dell’idea comunitaria delle saghe di Tolkjen).
Nel concludere, vogliamo ricordare come l’attuale Romania, uscita dal plumbeo regime comunista e poi caduta nelle spire del liberalcapitalismo, veda di nuovo i legionari percorrere quei sentieri dell’Onore e della Riscossa indicati un tempo da Corneliu Zelea Codreanu.
Andrea Monastra
http://www.codreanu.ro/
giovedì 6 dicembre 2012
mercoledì 5 dicembre 2012
martedì 4 dicembre 2012
lunedì 3 dicembre 2012
venerdì 30 novembre 2012
giovedì 29 novembre 2012
Gli studenti oltre quel muro
"Avete
votato anche voi dei rappresentanti, occupate insieme a noi!" Sembra la scena di un tempo lontano,
quando i muri dividevano due mondi ideologicamente contrapposti, invece no.
Accade ieri, nel Liceo Classico e Scientifico Impallomeni di Milazzo,
nell'atrio che dà sull'Istituto Industriale. C'è un grosso muro di cemento che
divide gli "umanisti" dai "chimici". I primi sono sulla testa di ponte di una
protesta che va avanti da sabato 24 novembre, data in cui il corteo degli studenti ha contrapposto le idee
rivoluzionarie alle logiche del Governo
dei Burocrati. Giovinezza contro fermezza, dinamite contro muri. Siamo
sempre lì, da una parte i giovani e il loro futuro, dall'altra la casta e il
passato, quello che non cambia e che anzi, peggiora.
Abbiamo ascoltato le motivazioni di Giuseppe Cortese, Aldo Ponticorvo, Felipe De Oliveira, tutti giovanirappresentanti di Istituto allo Scientifico e Giuseppe Isgrò per la Consulta provinciale, e Gabriella Ruggeri per il Classico. Ci accolgono a braccia aperte appena diciamo di essere giornalisti, hanno voce e cori pronti da tirare fuori, per la carta stampata e per le istituzioni "andremo avanti ad oltranza fino a quando non avremo voce in capitolo" le motivazioni sono poi le stesse che hanno spinto gli studenti a protestare a Roma davanti le sedi del Senato lo scorso venerdì. Il precariato, l'antipolitica, i tagli alla scuola. Questa volta però è diverso. Stavolta la politica è messa da parte, così ci è parso. Non ci sono slogan contro, ma solo pro. "Stiamo rispettando la volontà degli studenti - e ci mostrano le aule sopra, rimaste libere, a disposizione di chi vuol fare lezione - e anche dei professori" e quando chiediamo chi li sta appoggiando, l'intento è quello di scoprire tentativi di pressioni "esterne" loro, decisi, rispondono "siamo soli, lo abbiamo voluto noi ma abbiamo tutti contro".
La Preside dell'istituto, Caterina Nicosia, si è subito insospettita cacciandoci nell'atrio fuori. "l'atmosfera come potete vedere è molto tesa, presidi, professori, genitori, polizia. Siamo sorvegliati costantemente". Sembra che un appoggio timido lo abbiano avuto solo dal personale Ata, già depauperato più volte dalla spending review. I ragazzi del classico vantano inoltre di non aver causato disordini di alcun tipo, nonostante siano l'unico istituto milazzese, faro di una protesta sempre più nervosa e a tratti scomoda. In molte aule ci mostrano laboratori di dibattito, corsi, ripetizioni che tentano di coinvolgere soprattutto i professori, serrati nelle proprie stanze, storicamente, avversi a proteste di questo tipo.
Tentiamo di capire se intromissioni politiche ci siano state in questi giorni, ma è il giovane Giuseppe Cortese a specificare come OggiMilazzo abbia travisato il riferimento di una nota inviatagli "Studenti e studentesse di Milazzo, insieme ai compagni e alle compagne di tutta Italia, alzano la voce contro i tagli, la dequalificazione e l'austerity: l'obiettivo è riprendersi le scuole e i luoghi dove gli studenti producono ricchezza ogni giorno." Quel compagni e compagne aveva scatenato diverse domande e perplessità "compagni di classe, si intendeva" conclude il giovane Cortese.
Oggi la protesta si è spostata davanti il Comune. Ci raccontano che oltre 500 studenti sono stati ascoltati dal Sindaco per le relative questioni dei tagli alla scuola. Scuola che, ci dicono, è fatiscente soprattutto laddove mancano strutture adeguate. Al classico, per esempio, i bagni di sopra sono diventati promiscui. Allo Scientifico, invece, istituto corporato sotto il nome di Giovan Battista Impallomeni, giurista milazzese impegnato in diverse riforme, le lezioni continuano regolarmente, ma gli studenti solidarizzano e partecipano numerosi spostandosi da Via Valverde in cerca anche loro di un riscontro.
Una storia divisa da un muro, finita in un grande spazio libero, dove la protesta e la rivoluzione hanno trovato la sintesi nell'ordine, nella cultura e in una grande lezione di politica giovanile "noi, credevamo..."
di Santi Cautela
Abbiamo ascoltato le motivazioni di Giuseppe Cortese, Aldo Ponticorvo, Felipe De Oliveira, tutti giovanirappresentanti di Istituto allo Scientifico e Giuseppe Isgrò per la Consulta provinciale, e Gabriella Ruggeri per il Classico. Ci accolgono a braccia aperte appena diciamo di essere giornalisti, hanno voce e cori pronti da tirare fuori, per la carta stampata e per le istituzioni "andremo avanti ad oltranza fino a quando non avremo voce in capitolo" le motivazioni sono poi le stesse che hanno spinto gli studenti a protestare a Roma davanti le sedi del Senato lo scorso venerdì. Il precariato, l'antipolitica, i tagli alla scuola. Questa volta però è diverso. Stavolta la politica è messa da parte, così ci è parso. Non ci sono slogan contro, ma solo pro. "Stiamo rispettando la volontà degli studenti - e ci mostrano le aule sopra, rimaste libere, a disposizione di chi vuol fare lezione - e anche dei professori" e quando chiediamo chi li sta appoggiando, l'intento è quello di scoprire tentativi di pressioni "esterne" loro, decisi, rispondono "siamo soli, lo abbiamo voluto noi ma abbiamo tutti contro".
La Preside dell'istituto, Caterina Nicosia, si è subito insospettita cacciandoci nell'atrio fuori. "l'atmosfera come potete vedere è molto tesa, presidi, professori, genitori, polizia. Siamo sorvegliati costantemente". Sembra che un appoggio timido lo abbiano avuto solo dal personale Ata, già depauperato più volte dalla spending review. I ragazzi del classico vantano inoltre di non aver causato disordini di alcun tipo, nonostante siano l'unico istituto milazzese, faro di una protesta sempre più nervosa e a tratti scomoda. In molte aule ci mostrano laboratori di dibattito, corsi, ripetizioni che tentano di coinvolgere soprattutto i professori, serrati nelle proprie stanze, storicamente, avversi a proteste di questo tipo.
Tentiamo di capire se intromissioni politiche ci siano state in questi giorni, ma è il giovane Giuseppe Cortese a specificare come OggiMilazzo abbia travisato il riferimento di una nota inviatagli "Studenti e studentesse di Milazzo, insieme ai compagni e alle compagne di tutta Italia, alzano la voce contro i tagli, la dequalificazione e l'austerity: l'obiettivo è riprendersi le scuole e i luoghi dove gli studenti producono ricchezza ogni giorno." Quel compagni e compagne aveva scatenato diverse domande e perplessità "compagni di classe, si intendeva" conclude il giovane Cortese.
Oggi la protesta si è spostata davanti il Comune. Ci raccontano che oltre 500 studenti sono stati ascoltati dal Sindaco per le relative questioni dei tagli alla scuola. Scuola che, ci dicono, è fatiscente soprattutto laddove mancano strutture adeguate. Al classico, per esempio, i bagni di sopra sono diventati promiscui. Allo Scientifico, invece, istituto corporato sotto il nome di Giovan Battista Impallomeni, giurista milazzese impegnato in diverse riforme, le lezioni continuano regolarmente, ma gli studenti solidarizzano e partecipano numerosi spostandosi da Via Valverde in cerca anche loro di un riscontro.
Una storia divisa da un muro, finita in un grande spazio libero, dove la protesta e la rivoluzione hanno trovato la sintesi nell'ordine, nella cultura e in una grande lezione di politica giovanile "noi, credevamo..."
di Santi Cautela
mercoledì 28 novembre 2012
NON PENSARE ALLA VETTA,SALI!
"La strada e’ dura. Il respiro diventa corto. Vi sono dei momenti in cui vorresti gettare questo sacco che ti pesa, lasciarti andare per il pendio e ritornare a quelle case di campagna che fumano laggiu’, filamenti azzurrini sui fondi verdi e grigi dei prati e delle ardesie.(…)Vorresti non pensare più a nulla, cancellare dal pensiero il ricordo degli uomini, e, supino sull’erba, guardare il cielo che passa, sollevato da voli di uccelli. Basta con la stanchezza! Non lasciar cadere il sacco e il bastone! Non asciugarti le ginocchia sanguinanti! Non ascoltare il clamore degli odi, non guardare gli occhi sorridenti della malvagità che nascondono. E’ in alto che devi volgere lo sguardo. Il corpo deve vivere soltanto per queste curve che svoltano - il cuore, sognare soltanto queste vette che tu e gli altri dovete raggiungere.Dimmi sino in fondo il tuo smarrimento. Credevi di trovare gioie immediate nell’ascendere faticosamente il pendio, trascinando nella salita un gregge umano. Spesso, hai sofferto. Talvolta, vieni preso da nausee. Ne avevi bisogno. Dovevi imparare che l’ambizione non appaga, e stanca prima o poi il cuore da lei posseduto. Ora lo sai…"
"Militia", Leon Degrelle
lunedì 26 novembre 2012
Il Machiavelli del '900 contro il potere di tecnici e finanza
L'aveva chiamata san Casciano la sua casa del buen retiro a Plattenberg, il luogo natìo in cui tornò per trascorrere la lunga vecchiaia fino alla morte, all'età di 97 anni, nel 1985. San Casciano, come l'ultima casa-esilio di Niccolò Machiavelli, quando si ritirò dall'attività di Segretario.
Ma Carl Schmitt confidò in un'intervista che aveva battezzato così la sua casa non solo in onore di Machiavelli ma anche perché San Casciano è il santo protettore dei professori uccisi dai loro scolari. Schmitt si identificava in ambedue, nell'autore de Il Principe, nel suo lucido realismo politico e nel suo amore per la romanità; ma anche nel Santo, perché si sentì tradito da molti suoi allievi. Quell'intervista dà il titolo a una raccolta di scritti di Carl Schmitt, curata da Giorgio Agamben e riapparsa da poco (Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, pagg. 314, euro 16,50).
Non è un caso ma un destino che Carl non si chiami Karl. La matrice cattolico-romana e latina è decisiva nella sua biografia intellettuale. La tradizione a cui si richiama Schmitt è lo jus publicum europaeum, di cui «padre è il diritto romano e madre la Chiesa di Roma»; la fede in cui nacque, visse e morì è quella cattolica apostolica romana; «la concezione di Schmitt - notava Hugo Ball - è latina»; la lingua latina era per lui «un piacere, un vero godimento»; un suo saggio chiave è Cattolicesimo romano e forma politica, e l'annesso saggio sulla visibilità della Chiesa. E non solo. La critica di fondo che Schmitt rivolge alla sua Germania è «il sentimento antiromano» che la percorre da secoli e che sostanzia la differenza tra cultura evangelica e cattolica. È una divergenza che spiega molte cose del passato e anche qualcuna del presente. Compresa quell'asprezza intransigente dei tedeschi e di altri popoli di derivazione protestante verso i Paesi mediterranei di formazione greco-latina e cattolico-romana. È quello per Schmitt il vero spread tra tedeschi e latini.
Ma Schmitt va oltre e coglie l'incompatibilità tra «il modello di dominio» capitalistico-protestante dei tedeschi e il concetto romano-cattolico di natura, col suo amore per la terra e i suoi prodotti (che Schmitt chiama terrisme). «È impossibile - scrive Schmitt - una riunificazione tra la Chiesa cattolica e l'odierna forma dell'individualismo capitalistico. All'alleanza fra Trono e Altare non seguirà quella di ufficio e altare o fabbrica e altare». È possibile invece che i cattolici si adattino a questo stato di cose. Per Schmitt il cattolicesimo ha il merito d'aver rifiutato di diventare «un piacevole complemento del capitalismo, un istituto sanitario per lenire i dolori della libera concorrenza». Schmitt ravvisa un'antitesi radicale tra l'economicismo, condiviso dai modelli americano, bolscevico e nordeuropeo, e la visione politica e mediterranea del cattolicesimo, derivata dall'imperium romano. Rifiuta pure di riferirsi ai valori perché di derivazione economicista.
Nei saggi e nelle interviste raccolti da Agamben, figura anche un testo che apparve in Italia nel '35, in un'antologia curata da Delio Cantimori col titolo di Principi Politici del Nazionalsocialismo. Peccato che non siano stati più ripubblicati il saggio introduttivo di Cantimori e la prefazione di Arnaldo Volpicelli che sottolineava le divergenze tra fascismo e nazismo, e fra la teoria di Schmitt sull'Amico e il Nemico e l'idealismo di Gentile, a cui egli si ispirava, per il quale il nemico era accolto e risolto nell'amico, ogni alterità era superata nella sintesi totalitaria e «sostanza e meta ideale della politica non è il nazionalismo ma l'internazionalismo». Qui sta, diceva Volpicelli, «la differenza fondamentale e la superiorità categorica del corporativismo fascista sul nazional-socialismo». A proposito di Hitler, Schmitt ricorda che una volta confessò di provare compassione per ogni creatura e aggiunse che forse era buddista. Hitler era gentile nei rapporti personali, nota Schmitt, e non aveva mai visto il mare. Riferendosi al suo ascendente sul pubblico, rileva «la sua dipendenza quasi medianica da esso, dall'approvazione, dall'applauso interiore».
Le interviste percorrono i punti centrali delle opere di Schmitt: la critica al romanticismo che sostituisce Dio e il mondo con l'Io; il Nomos della terra e la contrapposizione con le potenze del mare; la derivazione teologica dei concetti politici; la dialettica amico-nemico; la teoria del partigiano e la sovranità come decisione nello stato d'eccezione; quel decisionismo peraltro estraneo alla sua indole («Ho una peculiare forma di passività. Non riesco a capire come la mia persona abbia acquisito la nomea di decisionista», confessa con autoironia). E poi la sua raffinata passione letteraria, anche in questo erede di Machiavelli.
C'è una ragione di forte attualità del pensiero schmittiano. È la sua doppia previsione della spoliticizzazione che avrebbe portato al dominio mondiale dei tecnici e dell'avvento di guerre umanitarie che sarebbero state più inumane delle guerre classiche, perché condotte nel nome del bene assoluto contro il male assoluto. L'intreccio fra tecnica, economia e principi umanitari è l'amalgama che comanda oggi il mondo. Per assoggettare i popoli, scrive profeticamente nel '32, «basterà addirittura che una nazione non possa pagare i suoi debiti». Schmitt descrive «la cupa religione del tecnicismo» e nota che oggi la guerra più terribile può essere condotta nel nome della pace, l'oppressione più terrificante nel nome della libertà e la disumanità più abbietta nel nome dell'umanità. L'imperialismo dell'economia si servirà dell'alibi etico-umanitario. Il potere, avverte Schmitt, è più forte della volontà umana di potere e tende a sovrastare in modo automatico, impersonale: «non è più l'uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui». Non dunque un complotto ordito da poteri oscuri ma un automatismo indotto da una reazione a catena non più controllata dai soggetti umani. Quella reazione a catena passa dall'incrocio fra tecnica e finanza ed è visibile nell'odierna crisi globale. Da qui la necessità di rifondare la sovranità della politica. E di ripensare al Machiavelli del '900, quel tedesco in odore di romanità che ipotizzava la nascita di un patriottismo europeo. La Grande Politica di Schmitt e il suo nemico: il Tecnico, bardato di etica, a cavallo della finanza.
di Marcello Veneziani
sabato 24 novembre 2012
Così ammutolì Zarathustra. Nietzsche al tempo della crisi
La Tragedia della nascita. Disumano, troppo Disumano. Tramonto. La Triste Scienza. Così ammutolì Zarathustra. Necrologia della morale. Al di sotto del bene e del male. Finis Homo. Gli idoli del crepuscolo. Le lamentazioni di Dioniso. La Volontà impotente.Ho provato a rovesciare i titoli euforici delle opere di Friedrich Nietzsche e non per un gioco pirandelliano che fonda l'umorismo sul sentimento del contrario. Ho immaginato cosa potrebbe scrivere Nietzsche oggi. Un Nietzsche fedele alla promessa di Zarathustra, «tornerò di nuovo»; ma riapparso nell'epoca del nichilismo stanco in cui l'esaltazione cede il passo alla depressione, non scriverebbe sulla nascita della tragedia ma più cupamente sul dolore di venire al mondo. Non cercherebbe di andare oltre l'umano troppo umano, ma constaterebbe il trionfo del disumano. Non scriverebbe Aurora ma Tramonto, né la Gaia scienza ma la Mesta Scienza. Il suo Zarathustra non avrebbe più sermoneggiato ma sarebbe ammutolito perché la parola ha perso senso e valore. E non saluterebbe la nascita, anzi la genealogia, di una morale, ma ne studierebbe la necrologia. Non andrebbe poi al di là del bene e del male davanti allo spettacolo di una società caduta al di sotto del bene e del male. Non saluterebbe il sorgere dell'Oltre-uomo in Ecce Homo, piuttosto scriverebbe della fine dell'uomo. Non descriverebbe il grandioso crepuscolo degli idoli, piuttosto vedrebbe spuntare gli idoli e idoletti del crepuscolo. Non intonerebbe ditirambi entusiastici a Dioniso, ma geremiadi. E infine, non penserebbe di scrivere La Volontà di Potenza ma constaterebbe l'impotenza della volontà nell'eterno perdersi del mondo, più che nell'eterno ritorno.
Chi pensava che Nietzsche rappresentasse l'ultimo gradino del nichilismo nel pensiero occidentale, deve considerare ora la sua parabola ulteriore e discendente: dal nichilismo attivo nietzscheano al nichilismo passivo, dall'euforia pur tragica ed eroica di Zarathustra alla depressione cinica e dissolutiva del presente. Nietzsche reagì alla decadenza; un nuovo Nietzsche ne asseconderebbe il decorso. Alla fine, su Nietzsche ha vinto Leopardi, anzi un leopardismo pratico, impoetico. È la verità del nichilismo.
Chi pensava che Nietzsche rappresentasse l'ultimo gradino del nichilismo nel pensiero occidentale, deve considerare ora la sua parabola ulteriore e discendente: dal nichilismo attivo nietzscheano al nichilismo passivo, dall'euforia pur tragica ed eroica di Zarathustra alla depressione cinica e dissolutiva del presente. Nietzsche reagì alla decadenza; un nuovo Nietzsche ne asseconderebbe il decorso. Alla fine, su Nietzsche ha vinto Leopardi, anzi un leopardismo pratico, impoetico. È la verità del nichilismo.
L'altro giorno, a Piuro, Emanuele Severino ha ricevuto il «Premio Nietzsche», e intorno al premiato e al titolare del premio si è imbastito un seminario con Sossio Giametta, decano dei nicciani, Massimo Donà, Giuseppe Girgenti, Andrea Tagliapietra, Armando Torno ed io. È il secondo seminario organizzato dal circolo culturale La Torre di Chiavenna, fra la Val Bregaglia e Sils-Maria, luogo elettivo di Nietzsche. Severino è forse oggi il filosofo italiano che ha tentato più di ogni altro di andare oltre Nietzsche, partendo dal cortocircuito del pensiero occidentale rispecchiato nel suo pensiero e nella sua vita. Ha cercato di capovolgere l'innocenza del divenire, caposaldo dell'eterno ritorno nietzscheano, nell'eternità dell'essere. E Sossio Giametta, gran traduttore di Nietzsche ha scritto, tra l'altro, un Commento allo Zarathustra (Bruno Mondadori, 2006) che sta all'opera di Nietzsche come il Commento di Miguel de Unamuno sta al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il paragone non è casuale. Zarathustra come Don Chisciotte affronta il mondo dopo la caduta del platonismo. Che nel suo caso è la caduta del cielo in terra e nel caso di don Chisciotte è la caduta del mondo ideale cavalleresco. Ma il primo si rifugia nell'avvenire e perso il cielo e gli dei, cerca di trovare sulla terra l'uomo superiore che erediterà la morte degli dei. Il secondo invece si rifugia nel passato e nelle sue allucinazioni, e persa la lucidità, cerca di abitare il suo sogno nella realtà, con i risultati tragici e grotteschi che conosciamo. La sorte dei loro autori è invece capovolta: Cervantes scarica le follie della vita sul suo personaggio, che impazzisce e muore. Nietzsche salva Zarathustra e lo lascia forte e ardente come il sole, ma carica su di sé la follia della sua profezia, e impazzisce.Tramite Zarathustra, Nietzsche aveva pensato di fondare una nuova religione terrena segnata dall'apparizione del sovrumano. Visione epica ed eroica, euforica e giocosa del destino. Una religione danzante e ridente, contro la religione mortuaria e nereggiante, afflittiva e punitiva del cristianesimo. Qui c'è qualcosa di più della polemica anticristiana, c'è la biografia di Nietzsche: quanto ha pesato su quella luttuosa visione del cristianesimo il ricordo infantile di suo padre pastore luterano morente? I vestiti neri e il lutto familiare degli anni seguenti, la fede come orfanità e vedovanza, la fanciullezza rubata dal dolore. La morte di Dio è forse la trasfigurazione celeste della morte del Padre, il pastore? A quell'età i ricordi si conficcano come chiodi. Ai suoi occhi Dioniso è l'infanzia del mondo che scaccia e riscatta la memoria triste della sua infanzia. Come l'elogio della salute vigorosa è l'esorcismo e il rifugio dalla propria salute cagionevole.
Nietzsche torna a danzare ma la musica non è più la sua. Ora che la storia è stritolata nella tenaglia tra la tecnica e la natura, ovvero tra la potenza innescata dall'umano e la rivincita del primordiale o basic istinct, Zarathustra è reclamato a gran voce e ridiscende dai monti. Lo reclamano quanti vedono in lui il profeta della volontà di potenza e del superuomo dell'era tecnologica. E quanti trovano in lui il profeta della natura liberata ed esuberante. Ma la potenza della tecnica non è più controllata dall'artefice, che ne è anzi soggiogato, e procede per suo conto; e la natura, incattivita dalle devastazioni, si rivale sulla civiltà e segna il primato degli impulsi emotivi e degli istinti bestiali sull'equilibrio del saggio vivere secondo natura. Dunque non è l'avvento del sovrumano che profetizzava Nietzsche, ma il dominio dell'automatico e del subumano a occupare la scena e a tradire il canto di Zarathustra.Pur consapevole che la strada di Nietzsche è senza sbocchi, torno sui suoi passi da una vita. Il primo articolo che pubblicai, a diciannove anni, fu dedicato a lui e al suo tempo venturo, che non venne mai, se non in versione rovesciata. Eppure mi ritrovo ancora, dopo svariati anni a parlare di lui e del suo Zarathustra, la bibbia dei miei diciott'anni. L'eterno ritorno di Nietzsche, e la vana speranza che ci si possa salvare da soli aggrappandosi al futuro.
Nietzsche torna a danzare ma la musica non è più la sua. Ora che la storia è stritolata nella tenaglia tra la tecnica e la natura, ovvero tra la potenza innescata dall'umano e la rivincita del primordiale o basic istinct, Zarathustra è reclamato a gran voce e ridiscende dai monti. Lo reclamano quanti vedono in lui il profeta della volontà di potenza e del superuomo dell'era tecnologica. E quanti trovano in lui il profeta della natura liberata ed esuberante. Ma la potenza della tecnica non è più controllata dall'artefice, che ne è anzi soggiogato, e procede per suo conto; e la natura, incattivita dalle devastazioni, si rivale sulla civiltà e segna il primato degli impulsi emotivi e degli istinti bestiali sull'equilibrio del saggio vivere secondo natura. Dunque non è l'avvento del sovrumano che profetizzava Nietzsche, ma il dominio dell'automatico e del subumano a occupare la scena e a tradire il canto di Zarathustra.Pur consapevole che la strada di Nietzsche è senza sbocchi, torno sui suoi passi da una vita. Il primo articolo che pubblicai, a diciannove anni, fu dedicato a lui e al suo tempo venturo, che non venne mai, se non in versione rovesciata. Eppure mi ritrovo ancora, dopo svariati anni a parlare di lui e del suo Zarathustra, la bibbia dei miei diciott'anni. L'eterno ritorno di Nietzsche, e la vana speranza che ci si possa salvare da soli aggrappandosi al futuro.
di Marcello Veneziani
giovedì 22 novembre 2012
Buttafuoco, sul rogo dell'ironia c'è posto per tutti
Buttafuoco è forse il miglior fabbro del giornalismo cattivo. Sin da quando, praticante al Secolo d'Italia a inizio anni '90 firmava un boxino con lo pseudonimo Dragonera. Il direttore Gennaro Malgieri chiudeva il giornale ma non controllava la rubrica. La mattina dopo leggeva attentamente, prendeva carta e penna e cominciava a scrivere biglietti di scuse. Buttafuoco riuscì a farlo litigare con tutti, da donna Assunta agli alti papaveri dell'Msi.
Buttafuoco, pur lanciando frecce infuocate a destra e a sinistra, è più un umorista che un polemista. Usando la tecnica indiretta alla Pirandello: l'apparenza comica lascia intravedere la tragedia. Un esempio: la scena in cui l'autore descrive l'incontro con Gianfranco Fini in una strada di Roma.
Spiega Buttafuoco, ex militante dell'Msi «tradito» da un Fini alla disperata ricerca di legittimazioni centriste: «È riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito - un ambiente, una comunità - che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l'ostracismo e l'indifferenza». Ma nella scena dell'incontro i due non si parlano: Fini è nell'auto blu. Si guardano attraverso il vetro, si riconoscono per l'attimo che basta al giornalista per notare una cravatta che ha il colore del «cane in fuga, bandiera di un'ambizione stritolata».
Molte frecce infuocate in questo libro sono riservate alla sinistra della gente che piace. Ecco Tiziano Terzani. «L'orientalista non si veste da orientale, il latinista non si veste da antico Romano, il grecista non si veste da Aristotele. Con la banalità antioccidentale non si fa orientalismo, ma nobile caricatura, più che orientalisti si fabbricano dei disorientati». Per spiegare il successo di Fabio Fazio, si recupera la fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco: «Al tempo del Mike, la tivù non era ancora diventata il cuscino trapuntato di colte sfumature, quello che è Fazio Fabio, cuscino di pregiate natiche».
E Oriana Fallaci? I due erano divisi da potenti motivazioni ideali. Destra «spirituale», saracena, socialista quella di Buttafuoco, destra illuminista, amica degli Usa, cattolica solo come lascito storico, quella della Fallaci. Dal «coccodrillo» di Buttafuoco per la «nemicona»: «Chi scrive adora Oriana Fallaci, non fosse altro che per un delizioso tormentone cui la sottoponeva Giuliano Ferrara. Chi scrive era al Foglio, giornale, ai tempi, con articoli non firmati. Ogni volta che le capitava sotto il suo attento occhio un pezzo appunto anonimo ma di suo gusto, chiedeva a Giuliano: Chi ha scritto quest'articolo?. E Ferrara, divertito, piano piano le diceva: But', But', Butta'... Buttafuoco. E giù urla: Quello strrronzooo d'un maiaaale!».
Troviamo un Dell'Utri «gatto di marmo imperturbabile e però ironico», un Berlusconi «a cui piace piacere al punto di anteporre il fottere al comandare». E nel ritratto-intervista che Buttafuoco gli dedica, Scalfari comincia con lo spiegare all'autore una mossa imparata da ragazzino, nei balilla: come si fa il saluto romano.
da ilgiornale.it
Buttafuoco, pur lanciando frecce infuocate a destra e a sinistra, è più un umorista che un polemista. Usando la tecnica indiretta alla Pirandello: l'apparenza comica lascia intravedere la tragedia. Un esempio: la scena in cui l'autore descrive l'incontro con Gianfranco Fini in una strada di Roma.
Spiega Buttafuoco, ex militante dell'Msi «tradito» da un Fini alla disperata ricerca di legittimazioni centriste: «È riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito - un ambiente, una comunità - che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l'ostracismo e l'indifferenza». Ma nella scena dell'incontro i due non si parlano: Fini è nell'auto blu. Si guardano attraverso il vetro, si riconoscono per l'attimo che basta al giornalista per notare una cravatta che ha il colore del «cane in fuga, bandiera di un'ambizione stritolata».
Molte frecce infuocate in questo libro sono riservate alla sinistra della gente che piace. Ecco Tiziano Terzani. «L'orientalista non si veste da orientale, il latinista non si veste da antico Romano, il grecista non si veste da Aristotele. Con la banalità antioccidentale non si fa orientalismo, ma nobile caricatura, più che orientalisti si fabbricano dei disorientati». Per spiegare il successo di Fabio Fazio, si recupera la fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco: «Al tempo del Mike, la tivù non era ancora diventata il cuscino trapuntato di colte sfumature, quello che è Fazio Fabio, cuscino di pregiate natiche».
E Oriana Fallaci? I due erano divisi da potenti motivazioni ideali. Destra «spirituale», saracena, socialista quella di Buttafuoco, destra illuminista, amica degli Usa, cattolica solo come lascito storico, quella della Fallaci. Dal «coccodrillo» di Buttafuoco per la «nemicona»: «Chi scrive adora Oriana Fallaci, non fosse altro che per un delizioso tormentone cui la sottoponeva Giuliano Ferrara. Chi scrive era al Foglio, giornale, ai tempi, con articoli non firmati. Ogni volta che le capitava sotto il suo attento occhio un pezzo appunto anonimo ma di suo gusto, chiedeva a Giuliano: Chi ha scritto quest'articolo?. E Ferrara, divertito, piano piano le diceva: But', But', Butta'... Buttafuoco. E giù urla: Quello strrronzooo d'un maiaaale!».
Troviamo un Dell'Utri «gatto di marmo imperturbabile e però ironico», un Berlusconi «a cui piace piacere al punto di anteporre il fottere al comandare». E nel ritratto-intervista che Buttafuoco gli dedica, Scalfari comincia con lo spiegare all'autore una mossa imparata da ragazzino, nei balilla: come si fa il saluto romano.
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