giovedì 31 gennaio 2013

“Ormai la democrazia l’hanno messa in banca”



Massimo Fini, che della critica alla modernità non ne ha fatto di certo rifugio dalle cose del mondo, non ha dubbi: l’implosione dell’Occidente non è il prodotto di un complotto ma l’evoluzione di un sistema che noi stessi abbiamo creato. Altro che bomba intelligente: «Il crollo di questo apparato coinvolgerà anche quelli che credono di governarlo». Per questo, dinanzi alla crisi economica e al caos causato dallo scontro di civiltà, Fini prevede tutt’altro che un exit strategy. Ma uno scenario apocalittico. A meno di una marcia indietro responsabile ma scarsamente probabile in quanto «i nostri reggitori se ne sbattono del collasso e sperano che il “cavallo” faccia qualche passo. Tanto, sperano, moriranno prima della fine e toccherà ad altri pagare il conto…».


La dittatura dello spread. Si può definire figlia di un “disegno”?

È una dinamica normale che dipende, però, da una situazione totalmente anormale. C’è un modello di sviluppo occidentale – ma che ormai ha coinvolto anche la Russia, l’India e la Cina – che è arrivato al suo limite perché si basa sulla crescita esponenziale che esiste in matematica e non in natura. Lo vedo come una macchina molto potente che è partita a metà del XVIII secolo, che adesso si trova davanti a un muro ma pretende di proseguire e dà di gas. È la mitologia della crescita quando crescere non si può più.

Il fatto che in Italia sia stato commissariato un governo legittimo, eletto, è un fatto normale?

Legittimamente eletto dal popolo! Voi credete ancora alla democrazia? Mi meraviglio. La democrazia è un sistema tarocco dove noi ogni cinque anni andiamo a legittimare coloro che poi “non” ci governano. Non vedo complotti, vedo una situazione molto peggiore perché se si pensa a un complotto lo si può anche sventare. Ma questa è la logica della globalizzazione che non comincia adesso ma con la Rivoluzione industriale. È chiaro che nessun Paese è più padrone di se stesso. 

Il governo tecnico ha sdoganato ciò che prima si denunciava solo nei circuiti indipendenti: i “poteri” che suppliscono alla democrazia?

Era un argomento tabù ma la realtà era quella. Chi domina nel sistema è il denaro e in primo luogo le banche. Diciamo che è venuto più alla luce del sole ma c’era assolutamente anche prima. Siamo vittime del sistema che abbiamo creato, anche quelli che credono di guidare la cosa sono in realtà solo le mosche cocchiere. Siamo vittime di un meccanismo perverso, paranoico del “produci, consuma, crepa”. Questo è il nocciolo di fondo: che poi governi Obama o Monti siamo tutti nella stessa barca. Una barca che affonda. 

La sovranità nazionale non ha più senso?

La questione non è la perdita di sovranità, perché questa è avvenuta molto tempo prima. Naturalmente per tutto un periodo certe questioni sono state mascherate, perché i paesi occidentali hanno rapinato i paesi del Terzo mondo e quindi sembrava che aumentasse la ricchezza di questi paesi. In realtà aumentava a danno degli altri. Oggi c’è una competizione spietata tra Stati e adesso ce ne accorgiamo anche noi: ma non ho nessuna pena per la sorte del popolo italiano e degli altri occidentali. Se la sono cercata, non si sono opposti, non hanno capito che cos’è in fondo la globalizzazione.

C’è chi propone una nuova “Bretton Woods” come rimedio.

L’autarchia fascista, l’autarchia degli anni ’30 era un modo ragionevole per tenersi da questo circolo mortale che è quello dei mercati. Noi oggi da chi dipendiamo? Neanche da delle banche. Ma da un meccanismo anonimo chiamato mercato che è peggio di qualunque dittatura: perché un dittatore puoi sperare di abbatterlo, questo è un meccanismo che si autoprotegge. La reazione della leadership mondiali alla crisi è stata, immettendo nuovo denaro, come drogare il cavallo già dopato sperando che faccia ancora qualche passo. Fare una nuova Bretton Woods o non farla è un’ipotesi perfettamente irrilevante.

Come mai un’analisi del genere viene spesso banalizzata additandola come “complottismo”?

Perché non si vuole ammettere di non aver capito un cazzo. E allora il complotto è il modo migliore per rimuovere questo fatto. Mi sono talmente stancato che il mio interesse principale oggi si chiama Afghanistan. 

È l’unico antidoto?

Ci sono alcune correnti di pensiero americane come il bioregionalismo, il neocomunitarismo che parlano di un ritorno graduale e ragionato, limitato a forme di autoconsumo e di autoproduzione che passano necessariamente per il recupero della terra e il ridimensionamento drastico dell’apparato industriale e finanziario. Il discorso di fondo sarebbe riportare l’uomo al centro e spedire economia e tecnologia nella parte marginale che hanno sempre avuto. Per questo scelgo l’Afghanistan, perché è composto da uomini che hanno vissuto e vivono avendo in testa altri valori.

 da secoloditalia.it

mercoledì 30 gennaio 2013

Bloody Sunday,ai martiri d'Irlanda!


Domenica 30 gennaio 1972, quarant’anni fa, i soldati del Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico uccisero tredici persone e ne ferirono a morte un’altra durante una manifestazione per i diritti civili a Derry, in Irlanda del Nord. I manifestanti protestavano contro una legge speciale emanata dal governo irlandese unionista – cioè favorevole all’appartenenza dell’Irlanda al Regno Unito, contrariamente agli indipendentisti – secondo cui bastava l’approvazione del ministero degli Interni dell’Irlanda del Nord per arrestare gli oppositori senza processo e a tempo indefinito. I paracadutisti avevano l’ordine di disperdere la folla, ma improvvisamente iniziarono a spararle contro colpendo 26 persone, di cui cinque alla schiena mentre cercavano di scappare. In seguito i soldati raccontarono di aver sentito colpi d’arma da fuoco provenienti dai manifestanti, ma le loro dichiarazioni furono contraddette da quelle di molti testimoni che dichiararono di non aver visto armi tra i partecipanti al corteo.

La strage acuì enormemente il clima di tensione tra gli unionisti e gli indipendentisti, nato alla fine degli anni Sessanta in Irlanda del Nord. In particolare il Bloody Sunday favorì l’ascesa dei terroristi separatisti dell’IRA, che ottenero grande sostegno da parte della popolazione. Una prima inchiesta, aperta nelle settimane seguenti dall’allora primo ministro britannico Edward Heath, prosciolse le autorità e i soldati britannici da ogni colpa, ma venne in seguito considerata un insabbiamento di quanto accaduto.

Nel gennaio del 1998 l’allora premier Tony Blair annunciò l’apertura di una nuova inchiesta – affidata a Lord Saville of Newdigate – basata su nuove prove e testimonianze. Le indagini durarono dodici anni e costarono 250 milioni di euro. Il rapporto, lungo 5mila pagine, è stato presentato il 15 giugno del 2010 e ha stabilito che tutte le persone uccise erano disarmate, tranne un ragazzino, Gerard Donaghey, che probabilmente aveva con sé alcune bombe carta. Nessun manifestante aveva aggredito in alcun modo i soldati, che spararono dunque per primi senza alcuna provocazione e senza neanche avvisare la folla. Dopo la pubblicazione del rapporto il primo ministro britannico David Cameron si è scusato pubblicamente con le persone uccise e i loro familiari per il comportamento del Regno Unito, dicendo che «l’attacco dei soldati ai manifestanti è stato ingiustificato e ingiustificabile» e che «nessuno dei morti e dei feriti poteva essere considerato una minaccia».
Le famiglie delle vittime, che poterono scorrere il rapporto qualche ora prima della pubblicazione ufficiale, annunciarono che quella del gennaio 2011 sarebbe stata l’ultima marcia per ricordare ilBloody Sunday, un evento che si teneva ogni anno a Derry l’ultima domenica di gennaio per chiedere giustizia e verità sull’accaduto. Non tutte le famiglie delle vittime furono d’accordo con la decisione e ieri alcune di loro hanno partecipato a una marcia in ricordo della strage, insieme ad altre tremila persone. La maggior parte delle famiglie invece si è limitate a partecipare a una funzione commemorativa davanti al monumento del Bloody Sunday a Derry.
ilpost.it




lunedì 28 gennaio 2013

La Rai celebra l’architettura fascista ma in pochi se ne accorgono.


Il vento non fischia e per ora non infuria la bufera ma prima che scoppi la rossa primavera qualche protesta dei partigiani dell’Anpi, a Viale Mazzini, arriverà. I professionisti della polemica antifascista, i radar dell’indignazione, i satellitari della mobilitazione democratica per ora tacciono, forse perché in quello strano orario mattutino in cui s’è consumato lo strappo al “politcally correct” della tv di Stato i presìdi antifascisti, i popoli viola, quelli del Fatto, del Manifesto, i garanti della sinistra in Vigilanza, dormivano. Ignari dell’elogio del genio fascista che andava in onda  non all’Istituto Luce ma sulla sinistrissima Rai Tre. 

Pochi italiani, data la collocazione, si sono accorti che martedì metà mattinata nel palinsesto è comparsa una freschissima puntata della “Storia siamo noi” di Minoli interamente dedicata alla celebrazione dell’Eur, il quartiere che Benito Mussolini fece realizzare nel 1935 per ospitare l’esposizione universale prevista sette anni dopo. In quasi un’ora di trasmissione il documentario di Rai Educational ha celebrato con immagini e testimonianze univoche la creatività rivoluzionaria dell’architettura fascista, con una carrellata di immagini sul quartiere dell’utopia “che ha ispirato studi e progetti in tutto il mondo” e che si proietta, come da titolo della puntata, in un’affascinante dimensione urbanistica futura, moderna. Giovanni Minoli, si sa, è bravo, ma certo non è uno di destra, anzi. 

Però nella puntata sull’Eur ha fatto parlare un po’ tutti, storici urbanisti, architetti, noti e meno noti, rappresentativi di tutte le aree politiche, fino al rosso Massimiliano Fucksas, che lavora orgogliosamente alla sua visionaria “nuvola” all’interno di quel quadro geometricamente così geniale, a detta di tutti gli intervistati. «Oggi l’Eur è il quartiere più bello di Roma,  se venite qui, nel centro delle costruzioni fasciste, avrete l’impressione di essere fuori dal tempo…», spiega Emilio Gentile, storico di scuola “defeliciana”. «Un posto magico», lo definisce anche un altro architetto di fama internazionale, Giuseppe Pasquali, come anche Giusepe Muratore, secondo cui il quartiere di ispirazione fascista non è a Roma, «è Roma». 

Poi arriva Andrea Cortellessa, critico letterario, che cita i grandi registi che trovarono ispirazione nella “città bianca” , da Federico Fellini a Michelangelo Antonioni, geni della rappresentazione fiabesca che trovarono alle porte della capitale il luogo ideale per giocare con le immagini. Si torna in studio, dove c’è Minoli che parla dell’Eur come di un “set dalle straordinarie potenzialità”, di un’architettura datata anni  Trenta “ma che è perfetta per immaginare gli interventi del futuro”, prima che riparli Fucksas, l’architetto di sinistra che nell’Eur ha immaginato il proprio capolavoro sospeso e impalpabile, di cui il sindaco di centrodestra, Gianni Alemanno, è stato fin dall’inizio grande sponsor. 

Ma l’Eur, prosegue il documentario, è anche il terreno ideale per una programmazione tecnologica di una città avveneristica, attraversata da gallerie ideali per il cablaggio, per progetti di energia ecosostenibile, per quella idea di città nella città che animava Mussolini e che oggi, all’insaputa dei partigiani, dei tecnici montiani e forse dello stesso direttore di rete, Alberto Vianello, ha conquistato la Rai e qualche migliaio di fortuiti telespettatori che per caso,  martedì mattina, hanno casualmente acceso la televisione premendo il pulsante sbagliato.

di Luca Maurelli - Secolo d'Italia

domenica 27 gennaio 2013

Oggi ho un buon motivo per ricordare.


Ci sono tanti motivi per ricordare. Spesso velati da altri motivi. L'Olocausto è una strage senza tempo. L'annientamento umano, non ha mai una precisa connotazione politica. La storia è piena di genocidi. Dalla Vandea ai Pogrom ai Gulag alle Foibe.Per restare nella storia moderna altrimenti potremmo anche accennare alla strage degli indiani nativi o degli aborigeni australiani. Suonano sempre lontane queste storie, in senso spaziale e temporale. Un po' come l'Olocausto, ricordato in tutto il mondo. Altri genocidi lo sono meno poiché non c'è una comunità con cui potersi identificare nel massacro. I francesi sono francesi, mica tutti vandeani, toccar loro la rivoluzione, l'unica guerra che hanno vinto, quella contro sé stessi, è un tabù. Sono un tabù i campi di concentramento di Stalin così come il fatto che fino a 30-40 fa nel cuore degli Stati Uniti vi fossero autobus per “negri” e autobus per bianchi. C'è poi ilbloody Sunday dei soldati britannici ai danni dei cattolici irlandesi. E via via stragi a noi più vicine, di cui però stranamente nessuno parla.

Ci hanno educato a ricordare attraverso film, immagini, paragrafi e paragrafi di libri di storia. Come un ossessione alla memoria. Paura di non ricordare o paura nel ricordare? Ho aspettato solo questo momento per accennare alla situazione palestinese.

Funziona così. Dopo l'Olocausto toccava che questi signori “liberatori”, parliamo di Mister Alcolisti anonimi, l'uomo che sussurrava alle bombe atomiche e il mangia bambini di turno, trovassero una soluzione per i tanti esuli ebrei. Si saranno detti “qui no, qui c'è il deserto, qui ci serve, lì è mio lì è tuo toh! Ecco! Una terra di contadini che si affaccia sul mediterraneo! Quelli stanno lì solo da tremila anni!” Pianti il seme del male e aspetti che cresce. 3 guerre, milioni di morti, il Settembre Nero, Nasser, Arafat, Hamas, e tutto il resto... la polvere sotto il tappeto prima o poi ti uccide.

Ma la verità è anche peggio degli slogan. Parliamo di vere e proprie colonie, di recinti, di McDonald che sorgono dietro baracche, uomini che vivono in reggie sopra uomini costretti al degrado totale della dignità. Non si chiamano campi di concentramento. Non è l'Olocausto. Non è una strage. Non è vendetta. Non è conosciuta. Eppure oggi ricordare, deve far valere il dovere di sbagliare di nuovo. Eppure in Palestina oggi, si continua a morire mentre si va a fare la spesa. Lì dove alcuni uomini hanno comprato la libertà di altri. Nessuno farà un film, nessuno li ricorderà a scuola, nessuno ne parlerà su RaiUno. Eppure l'Olocausto continua e Israele ne è responsabile. Un buon motivo per ricordarlo...



Santi Cautela
casaggimilazzo.blogspot.com 27.01.2012

mercoledì 23 gennaio 2013

L’avanguardia artistica italiana e la nascita del Novecento.



Cosa significa libertà d’espressione? Erano quindi i pittori della prima metà del Novecento, liberi di immettere nelle loro opere ciò che più gli premeva?
Il noto movimento chiamato “Futurismo”, nacque nella prima decade del Ventesimo secolo. Fu istituito nel 1909, quando Filippo Tommaso Marinetti scrisse su “le Figaro” il Manifesto del movimento avanguardista, a cui seguirono il Manifesto dei pittori futuristi, e il manifesto tecnico della scultura futurista.
Il movimento abbracciava tutte le discipline artistiche, dalla letteratura alla musica, dalla pittura all’architettura; i suoi esponenti urlavano con l’arte le proprie emozioni e le denuncie sociali e politiche mediante le sue libere forme d’espressione. Benché il termine libertà sia una nobile definizione osservando un’opera d’arte, esso dovrebbe far riflettere. Cosa significa libertà d’espressione? Erano quindi i pittori della prima metà del Novecento, liberi di immettere nelle loro opere ciò che più gli premeva?
Gli anni Trenta hanno rappresentato un’epoca che ha profondamente cambiato la storia Italiana; sia nella politica che nell’arte. È di maggiore interesse per questo studio analizzare quindi la sottile relazione che esiste tra di esse.
Infatti, se ci si avvicina ai temi affrontati durante il ventennio Fascista, la maggior parte degli artisti aveva l’obbligo di raffigurare situazioni aventi una dimensione sociale, popolare, che potessero essere comprese dall’intero popolo. La comunicazione governativa dell’epoca influenzò enormemente i modi d’espressione.
Dal punto di vista tecnico, la composizione spaziale delle opere d’arte è meticolosa e ben organizzata. La raffigurazione dell’uomo rimane il centro degli studi canonici dell’estetica contro ogni sperimentalizzazione che avvolge il volgare e lo stravagante.
 Le opere prodotte dall’inizio del Novecento alla seconda Guerra Mondiale sono caratterizzate da un’immensa creatività. L’Uomo, al centro degli studi, rappresentava la modernità. Era il creatore di un’arte fortemente ispirata dal passato ma allo stesso tempo, e con forza, proiettata verso il futuro.
Con la sua velocità, il Futurismo ha alimentato in quegli anni l’arte, la nascita del design, l’architettura razionale, la scultura marmorea, così come la musica e la letteratura: ha acceso le porte ad un Novecento che concettualmente ed idealmente si è staccato dal secolo che lo procedeva, slanciandosi verso un’altra mentalità ed un altro modo di essere.
di Sofia Caputo 

martedì 22 gennaio 2013

Il Fuoco..

Il fuoco ci attende conservato come un tesoro in cui arde il verde legno dei nostri giovani anni. Dopo la rapida corsa, per mille scoperte, affascinati da nobili case, da pietre antiche, al termine della verde strada, il fuoco ci attende, splendente come oro. Mentre brucia la nostra vita tra scintille, che gli occhi riflettono, come stelle nella notte, il fuoco ci attende, caldo e vivo e forte. E le nostre mani rivivranno, in tutte queste mani tese, l’amicizia nei nostri cuori arde come una fiamma. Il fuoco ci attende conservato come un tesoro.


sabato 19 gennaio 2013

IN RICORDO DI JAN PALACH, MARTIRE EUROPEO.


Il 19 gennaio del 1969 muore a Praga lo studente Jan Palach. Si era dato fuoco tre giorni prima per protestare contro l'invasione dei carri armati sovietici e per la libertà. Oggi è un simbolo per tutta L'Europa.
''Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (un organo di informazione comunista ndr). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà''.
Così fu. Così accadde, quella sera del 16 gennaio 1969, quando lo studente di filosofia Jan Palach, si diede fuoco in Piazza San Venceslao. Fino a pochi mesi prima si era entusiasmato ed aveva assistito alla stagione riformista del suo paese, chiamata la ''Primavera di Praga''. Nel giro di pochi mesi, però, quest'esperienza fu repressa militarmente dalle truppe dell'Unione Sovietica e delle nazioni che aderivano al Patto di Varsavia. Un'intera generazione aveva visto così infrangersi il sogno di una Patria diversa, costruita da un socialismo differente, da una comunità più propensa al dissenso ed al pluralismo. Ma Jan aveva deciso di non arrendersi, di gridare ai sui connazionali ed al mondo che la Cecoslovacchia non era un luogo di morte senza futuro, ma una luce di speranza per l'umanità e l'Europa.
Quella luce si accese, nel tardo pomeriggio di quel 16 gennaio di 44 anni fa. Jan Palach si fermò ai piedi della scalinata del Museo Nazionale, cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Rimase lucido durante la sua agonia. Durò tre giorni. Spirò non prima di aver rilasciato una commuovente intervista in una nazione colpita e impressionata dal suo gesto. Al suo funerale, il 25 gennaio, parteciparono 600mila persone. Nella consapevolezza della sua azione. Jan Palach aveva deciso di non bruciare con sé, nel drammatico rogo, gli articoli che rappresentavano i suoi pensieri e i suoi ideali. Sono rimasti a noi, come testimonianza di una giovane vita che sognava di camminare in una società più libera.
Il suo sacrificio fu da subito considerato dagli anticomunisti di tutta Europa un atto eroico. Altri sette studenti, tra cui Jan Zajíc, seguirono il suo esempio e si tolsero la vita, nel silenzio degli organi d'informazione.
Ricordando il suo decesso Adamo cantò: '"C'è chi muore in primavera come un lampo, come una torcia, sbarrando la strada per un istante ai carri armati...".' Quell'istante ha allargato i suoi spazi sino a diventare eterno. I carri armati non ci sono più, non minacciano più case, persone e città. Quel giovane diPraga, invece, è rimasto tra noi. Gli europei non lo hanno più dimenticato.
di Fabrizio Giusti

venerdì 18 gennaio 2013

EUROPA DEI POPOLI, ULTIMA POSSIBILITÀ PER EVITARE IL DISASTRO




L’Europa sta vivendo una crisi senza precedenti, le cui conseguenze potrebbero condurre a scenari molto preoccupanti. La risposta che le istituzioni hanno dato a questa crisi è stato un accentramento dei poteri verso Bruxelles, ma i burocrati non eletti che costituiscono l’anima del potere europeo vivono a migliaia di chilometri di distanza dai problemi locali e sono facilmente influenzabili da grandi gruppi organizzati quali le lobby bancarie.

La conseguenza è stata un uso smodato delle leve finanziarie senza preoccuparsi degli effetti sull’economia reale. Purtroppo questa cura è peggiore del male, equivalente a quei salassi che i medici medievali praticavano ai pazienti e che si concludevano inevitabilmente con la morte del malato. Non ci potrà essere un risanamento finanziario se le aziende avranno smesso di produrre, e se gli unici ad avere ancora un lavoro saranno i dipendenti pubblici.
La vera soluzione alla crisi è rimettere al centro di tutto le persone e le loro attività, e far sì che la finanza sia al servizio della produzione e non viceversa. Un simile obiettivo non potrà mai essere raggiunto dall’Europa attuale, centralizzata, ingessata dalla moneta unica e sommersa dalla burocrazia. L’unica possibilità è invertire la rotta e creare una Europa federalista costituita da nazioni autonome, una vera e propria Europa dei popoli come era stata intesa dai padri fondatori.

In Italia abbiamo esperienza del disastro che sta accadendo in Europa perché lo abbiamo vissuto in prima persona su scala più piccola. L’accentramento dei poteri a Roma e decine di anni di programmi di aiuti massicci al sud non hanno prodotto altro che corruzione e clientelismo, e quando è mancato il motore dello sviluppo globale il sistema è entrato in una crisi irreversibile.
La soluzione, come per tutte le nazioni le cui regioni non sono economicamente omogenee, è il federalismo con una forte autonomia fiscale e politica. I diversi popoli che costituiscono l’Europa sono la sua vera ricchezza, che va sfruttata rendendo ogni popolo autonomo e autodeterminato, con un livello federale non invadente che possa coordinare i progetti di area vasta. Le dimensioni relativamente ridotte delle macro regioni omogenee consentiranno ai cittadini di avere un forte controllo sui politici che vengono eletti: non a caso l’unico modello istituzionale veramente di successo in Italia è quello dei Comuni con l’elezione diretta del Sindaco.

Purtroppo l’euroburocrate Monti ha avuto come prima preoccupazione quella di cancellare in tutta fretta la breve parentesi delle leggi federaliste che erano state faticosamente passate in questa legislatura. Le sue politiche e le politiche dei suoi referenti europei si stanno rivelando un vero e proprio disastro: speriamo che conducano alla sua defenestrazione a furor di popolo e a una inversione di tendenza, facendo arrivare un federalismo in chiave Europea ancora più forte e deciso di quello che è stato cancellato. E’ l’ultima possibilità di salvezza: l’alternativa è l’entrata nel novello medioevo che si sta affacciando sul nostro continente.

da europadeipopoli.com

martedì 15 gennaio 2013

Work in progress!


Francesca Salvador, l’imprenditrice sovranista che spiazza Santoro e il Cavaliere



Francesca se ne sta là, appollaiata sul trespolo sfigato di Servizio Pubblico, diventando una sorpresa bella e vera dell’evento televisivo dell’anno. Francesca di cognome fa Salvador, vive e lavora a Vittorio Veneto, provincia di Treviso. In quella che un tempo era la parte più ricca e produttiva del paese.  Se ne sta lì, in attesa, mentre Santoro e Berlusconi giocano ad intrecciare i rispettivi cateteri lunghi una trentina d’anni di pantomima collettiva e milionaria; Travaglio fa il Travaglio. Berlusconi il Berlusconi. Le due Santoro’s Angel giocano a fare le giornaliste all’americana, confermando  quanto sia rara la coscienza di sé in una donna che si crede intelligente.

Mi si perdoni la battuta maschilista, ma serve ad introdurre Francesca. L’imprenditrice veneta che, dopo un’ora e quaranta da spettatrice di un grottesco processo del Lunedì applicato alla politica, viene chiamata in causa: per il Biscardi in questione il suo intervento dovrebbe infastidire Berlusconi. Sì, lo spiazza. Ma in verità infastidisce tutto e tutti, gettando ospiti, spettatori e ascoltatori sul cemento duro della responsabilità. E Francesca dice una cosa santa, bella, enorme, magnifica: “E’ una questione di volontà politica”. Volontà politica. Per cosa? Per tornare liberi. Padroni a casa nostra. Padroni della nostra moneta. Per strapparla ai banchieri privati che oggi strozzano e, letteralmente, uccidono la nostra economia.

Francesca è tranquilla e brava. Non si perde in fregnacce su Germania e Merkel. Va al cuore del problema. “Signor Berlusconi, lei sapeva che Mario Monti era un uomo della Trilateral e della Goldman Sachs”. Sì, l’uomo dell’amministrazione controllata dell’azienda Italia. Berlusconi trasecola, ma si agitano un po’ tutti. Anche a casa. Fa male sentirsi dare degli schiavi. La risposta, ovviamente, è la canonica: la Bce deve diventare banche garante. Francesca non si scompone, sorride: ha capito che senza una chiara volontà politica il banchiere non rinuncerà al controllo sistematico sull’economia italiana. Continuerà a privarla di liquidità, le farà licenziare i suoi collaboratori, la obbligherà a chiedere un prestito per pagare l’Imu su casa e capannoni. Fino a quando non sarà costretta a perdere tutto.

Francesca questo non lo vuole. Vuole altro. Se ne frega dell’Euro, della libertà e della pace che l’Ue garantirebbe dal dopoguerra ad oggi: la sviolinata liberale del Cav e Santoro non la tocca. Lei ha coscienza di sé, sa chi è il suo nemico. Fuori dall’Euro. Ora. Sovranità monetaria. Ora. Immissione di liquidità a sostegno del lavoro e delle nuove generazioni. Ora. Non è più tempo di cateteri. E’ tempo di politica. Noi stiamo con Francesca Salvador. La sorpresa più bella e vera della trasmissione dell’anno.

lunedì 14 gennaio 2013

Cristina Campo, l’infinita ricerca della bellezza


Per Cristina Campo (al secolo Vittoria Guerrini), di cui ricorre oggi il 37esimo anniversario della morte, la tensione verso la bellezza era lo scopo della scrittura. Detto così, potrebbe sembrare una frase fatta, ma nel caso di Cristina Campo – poco apprezzata dalla società letteraria del suo tempo e oggi riscoperta come figura tra le più significative del Novecento – quest’affermazione è tanto vera quanto fu assidua la sua cura dello stile, la ricerca della perfezione, l’attenzione per il simbolo, per tutto un immaginario, dunque, che la trascinava lontano dal quotidiano, dalla corruzione continua che il tempo opera sulle cose e sugli uomini (di qui anche i suoi studi sulle categorie della fiaba e la traduzione delle poesie di John Donne). 

Non a caso la sua personalità è stata accostata a quella di un’altra filosofa inquieta e visionaria, Simone Weil. Era nata a Bologna ma la sua formazione si svolse a Firenze. Gli anni del suo soggiorno fiorentino la fecero entrare in una rete di relazioni intellettuali che ne affinarono l’ingegno (Mario Luzi, Maria Zambrano, Leone Traverso, Gabriella Bemporad). Il periodo romano, dal 1956 in poi,  coincise invece con l’aggravarsi della sua malattia cardiaca che la rese sempre più fragile.

 Condusse una vita appartata al quartiere Aventino, accanto al compagno Elemire Zolla, sotto la protezione della grande chiesa di Sant’Anselmo che la scrittrice frequentava volentieri: «Il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte – questa esistenza infine, quasi di oblati in ritiro – è puro olio soave sull’anima e il corpo». Quelli romani, ha scritto Pietro Citati, «furono anche gli anni della crisi mistica e dei testi più belli che Cristina Campo abbia mai scritto». 

Stabilì intensi sodalizi spirituali anche con personaggi del calibro di Pound, Malaparte e Ernst Bernhard, che le fece conoscere il pensiero di Jung. Contestò la riforma della liturgia decisa dal Concilio Vaticano II e si avvicinò al rito bizantino che le sembrava meglio corrispondere alla sua sete di assoluto, che cercò di soddisfare attraverso l’interesse per la metafisica orientale.  La maggior parte delle opere  della Campo (edite dalla casa editrice Adelphi) fu pubblicata postuma grazie all’affettuosa attenzione dell’amica Margherita Pieracci Harwell.

di Annalisa Terranova,Secolo d'Italia

venerdì 11 gennaio 2013

Milazzo,tributo alla nostra Città!



Milazzo nasce, geologicamente parlando, verso il 400.000 a.C. quando il suo promontorio emerse, come per incanto, dal mare, proprio come la Dea Afrodite, a seguito pare di movimenti tellurici, fino a raggiungere l’elevazione di 88 mt dal livello delle acque, dando l'aspetto caratteristico che tutti conosciamo.
La Piana si formò solo dopo mentre l’uomo compare nel 4.500 a.C.; abita al Capo, all’estrema punta del Promontorio; acquista ossidiana a Lipari e fabbrica utensili. Altri insediamenti umani si ebbero nell’area del Castello e della Piana, ma qui inondazioni tra il 3.500 ed il 2.500 spazzarono tutto.
Milazzo per il suo posizionamento geografico sul mare è divenuto nel corso dei secoli oggetto di guerre e dominazioni. Prima i Greci, poi i Cartaginesi, i Romani, noti per la famosa battaglia di Caio Duilio e di Marco Agrippa successivamente. In questo periodo Mylae godeva di tutti i vantaggi che i cittadini romani avevano sul piano dei diritti civili e fiscali.
Milazzo ha poi subito una dominazione Araba e fu allora che fu costruito il Castello e il suo Maschio per essere poi allargato durante il periodo Normanno-svevo con Federico II. Il Castello si fortificò ulteriormente grazie all'opera degli Aragonesi che costruirono una larga cinta muraria attorno alla cittadella e al Borgo Antico, oggi meta di molti turisti proprio per il valore artistico-storico che rappresenta. Ma la città di Milazzo, nobile spaccato della storia siciliana e italica è soprattutto mare nostrum, così come vollero i romani. Da sempre la pesca e le attività collegate sono la prima caratteristica fondante del territorio milazzese che si sviluppa dal Capo alla Piana e comprende oltre 14 km di costa con 7 fondali diversi. La zona del Carciofo insieme a molte altre spiaggette poco accessibili, sono di interesse subacqueo e biologico per l'importante popolazione sottomarina oltre che per la bellezza estetica di questi luoghi che ogni anno attraggono migliaia di turisti e bagnanti dei comuni limitrofi. Malgrado le scelte politiche sbagliate, oggi il porto di Milazzo rappresenta sicuramente uno dei più importanti afflussi commerciali siciliani e attracchi turistici per le Isole Eolie, arcipelago cui Milazzo è quasi annessa, se il promontorio avesse una "terza" costa rendendolo isolato e isolano.

AQVILA MARI IMPOSITA 
SEXTO POMPEO SVPERATO

giovedì 10 gennaio 2013

In ricordo di Alberto Giaquinto e Stefano Cecchetti


Mercoledì 10 gennaio 1979, è passato un anno dalla strage di Acca Larenzia, dove tre ragazzi di vent’anni, militanti del Fronte della Gioventù venivano trucidati.
Ad un anno di distanza i colpevoli sono ancora liberi di colpire impunemente; è contro questo stato di cose che il FdG e il Fuan, le organizzazioni giovanili del Movimento Sociale, hanno organizzato delle manifestazioni di protesta in diversi punti della città; gli animi sono già caldi e la situazione è tesissima, la polizia ha infatti vietato un corteo silenzioso nel centro di Roma. Quartiere Centocelle.
I palazzi fatiscenti rendono la borgata ancora più cupa a triste. Nella zona c’è una sede della D.C., è lì che giovani missini hanno deciso di urlare la loro rabbia, trovando in quella sede il simbolo di tante angherie e ingiustizie.


Finita senza incidenti la manifestazione i ragazzi cominciano ad allontanarsi, solo Alberto ed un altro ragazzo si attardano; sopraggiunge nel frattempo una macchina civile della polizia, una 128 bianca, dalla quale scendono due poliziotti in borghese che cominciano a seguire per qualche metro Alberto ed il suo amico.
Improvvisamente uno dei due, Alessio Speranza, si piega sulle ginocchia, come si fa al tiro a segno, tenendo la pistola a due mani, puntando con calma, spara un colpo che raggiunge Alberto alla testa. Gli agentii spostano la loro macchina, in modo da proiettare i fari su Alberto che sta morendo.


Appare chiaro ed evidente, a tuta la gente che accorre, che Alberto è disarmato.
Dalle testimonianze i due agenti fanno allontanare tutti, facendo rimanere Alberto sull’asfalto per più di venti minuti, tremante e morente. Da subito la versione ufficiale è che il giovane Alberto Giaquinto era armato di una P38 e quindi ha provocato una legittima difesa, dopo la prima versione fatta miseramente cadere, arriva la seconda che afferma che la pistola non c’è, ma ci sono delle munizioni nella sua tasca.
All’ospedale S.Giovanni dove viene trasportato con colpevole e fatale ritardo, Alberto ritrova nella breve ora che gli resta l’amore della famiglia accorsa in preda all’angoscia e all’incredulità.


In quel letto di morte Alberto appare ancora più piccolo e indifeso, lui forte, aitante e autentico inno alla vita,com’era; amava dire che avrebbe avuto tempo per scendere a compromessi, adesso voleva solamente fare quello che sentiva giusto, servire il suo scomodo, pericoloso, difficile ideale.
Torna alla mente la sua cameretta con la libreria ordinata e la scrivania ancora piena di libri, la bandiera tricolore con il simbolo del MSI, in bella evidenza; gli amici delle ore di impegno politico, con cui divideva anche i soldi per fare un volantinaggio o passare lunghi pomeriggi a discutere di problemi reali e attuali. Esattamente alle ore 20:30, due ore e 18 minuti dopo il ferimento, Alberto muore. Nello stesso istante in cui Alberto moriva, la sua casa veniva oltraggiata da una perquisizione senza un ordine scritto, cercando non si sa bene cosa.Aveva 17 anni.


Ma la tragica giornata del 10 gennaio 1979 non è conclusa con gli scontri e con la morte di Giaquinto. Proprio mentre il telegiornale della sera mette in scena la sua parodia della verità, l’altra faccia della strategia del terrore, i comunisti, si muovono per offrire anche il loro contributo all’anniversario di Acca Larentia. Il metodo prescelto è quello già sperimentato per uccidere Zicchieri: sparare da un’auto in corsa. Una tattica vile, che non prevede nessuna possibilità di reazione e bassissimi rischi. Il commando omicida non sceglie neppure le vittime, non compie un “gesto politico simbolico”, come nel caso dell’assalto di via Acca Larentia, colpisce nel mucchio, con un solo obbiettivo: uccidere un fascista. Stefano Cecchetti, 19 anni, simpatizzante del Fronte della gioventù, è con altri amici al bar di Largo Rovani, al quartiere Talenti, un bar di quelli frequentati da giovani di destra, ma certo non solo da loro. Si commentano gli episodi della giornata, c’è rabbia, orrore, dolore per Alberto Giaquinto, anche se nessuno lo conosce di persona: era un camerata ed è stato assassinato. Fa buio e freddo quando i ragazzi escono, non fanno neppure caso ad un’auto che si mette in moto, non vedono neppure le canne delle armi uscire dal finestrino, sentono solo i colpi secchi. Stefano cade a terra senza vita, in un lago di sangue, altri due giovani: Maurizio Battaglia e Alessandro Donatore, di 18 anni, rimangono feriti.L’agguato viene rivendicato dai Compagni Organizzati per il Comunismo, che rimarranno impuniti..

da comunità militante caudina

mercoledì 9 gennaio 2013

Buttafuoco celebra la fedeltà delle idee

Ogni traccia è un tizzone rovente lanciato contro il conformismo negli anni del pensiero liquido, semplificato e striminzito come un tweet. L’omologazione è quella dei benpensanti, dei politicamente corretti, degli occidentalisti, degli indifferenti, dei nostalgici di un passato che non torna. Per sfuggire a questo gioco di incasellamento per mezzo di categorie senescenti, l’unico antidoto è la ricerca della scintilla di verità oltre il canovaccio della propaganda. E da questo lampo si accendono i “Fuochi” (pp.234, euro 14,50, Vallecchi), l’ultimo libro nel quale Pietrangelo Buttafuoco riannoda i fili di un “originario” itinerario esistenziale e politico. Lo sguardo dello scrittore diventa così pietrificante come quello di una Gorgone quando mette in risalto l’arretratezza della Sicilia, dove “l’unica cosa che si può fare è la villeggiatura”, perché l’ambizione di avere spiagge pulite o aeroporti moderni si scontra con l’insensatezza fatalista che diventa mito incapacitante.


Buttafuoco si addentra nella propria terra senza indulgenza. Ricorre alle storie note o poco note. Tratteggia i caratteri di politici naturalmente cinematografici, come Mirello Crisafulli e Totò Cuffaro; rende onore all’imprenditore isolano Sandro Monaco e riconosce nel siciliano “la lingua della politica” come codice di dissimulazione, celebrazione, purché tutto avvenga nel “metalinguaggio”. Poi ci sono i ritratti di testimoni del nostro tempo, da Jorge Haider a Silvio Berlusconi, fino a Mario Vattani, già console italiano a Osaka, profondo conoscitore della paideia dei giapponesi, che non rinuncia alle note ribelli con i Sottofasciasemplice, gruppo musicale che ha rivoluzionato la scena del rock identitario. Paolo Conte diventa l’icona dell’Italia “immune dalla parodia”, la Folgore è una brigata di eroi da preservare oltre ogni retorica, alla quale avvicinarsi attraverso la mediazione di Tomaso Staiti di Cuddia o di Sergio Claudio Perroni. Poi c’è Romano Mussolini e il suo “jazz d’antemarcia”, dal passo sognatore, Oriana Fallaci icona della “destra scimmiesca”, il comunismo e i comunisti come dignitoso contravveleno sulla strada della liberaldemocrazia. Due interviste come veri diamanti: a Norberto Bobbio, che confessa la rimozione “vergognosa” del passato in camicia nera da parte di una intera generazione, e a Eugenio Scalfari, sacerdote “del mestiere della giornata che è il giornalismo”. E tra Giorgio Bocca e la santificazione della Lapa brilla Paolo Isotta, sublime critico musicale del “Corriere della Sera”, “ultimo superstite di tremila anni di civiltà europea prima che l’età della tecnica e della democrazia avesse la meglio”. O Urgen Khan, junker baltico, generale dello zar e principe mongolo immortalato da Hugo Pratt in “Corte Sconta detta Arcana”, che nessuna biografia Adelphi riuscirà a rendere politicamente corretto: capo dell’ultima armata bianca, rifiutò di bendarsi gli occhi quando l’Armata Rossa lo fucilò e prima di essere finito dalle pallottole volle inghiottire, per portare con sé, la Croce di San Giorgio. Tra tutti gli affreschi di una galleria che racchiude l’Italia tra Novecento e Anni Zero, risalta infine Nino Buttafuoco, sindaco di Nissoria, deputato a Roma, a Palermo, a Strasburgo, protagonista dell’operazione “Milazzo”, simbolo del fascismo declinato dal sole di Sicilia: l’omaggio allo ‘zu Nino prende le forme del cuntu con il romanzo epico “Le uova del drago”.
I “Fuochi” sono bussola in forma di giornalismo (“sede della nostra vita sociale/ultima delle periferie”) nell’era del banderuolismo a cui fa da contraltare la coerenza di Beppe Niccolai, Giuseppe Berto, Alberto Burri e Gaetano Tumiati, a cui non potranno mai somigliare gli italiani che si rinnoveranno abiurando il proprio passato. “La fedeltà –scrive Buttafuoco – è stata ridotta a macchietta e la lucerna della dignità è stata tutta prosciugata. Fatto fu che Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino, uomo di grande fascino e di rara eleganza, dopo anni di prigionia in Francia, lacero e smagrito tornò nella sua casa di Catania. Si presentò al cancello della sua nobile dimora e, quando il maggiordomo si precipitò per allontanarlo immaginando di avere a che fare con un questuante, nel riconoscerlo, malgrado gli stracci, commosso gli disse: ‘Eccellenza, ma Vossia proprio a favore degli italiani si doveva mettere?’”.


Da che parte per la destra? A questa domanda lo scrittore siciliano non si sottrae e sembra tornare ragazzo, ai comizi di Catania di Giorgio Almirante, o mentre canta all’alba del Gianicolo l’Inno a Roma insieme a Vincino, vignettista del “Foglio” con una brevissima militanza a Palermo nella Giovane Italia, negli anni di Paolo Borsellino e Pierluigi Concutelli. Quando la mozione degli affetti cede il passo alla riflessione si arriva al dunque, al bilancio che “il Segretario” non ha mai voluto fare, e all’occasione perduta dalla destra di governo, che in Rai passerà dalla “ricotta di zoccole” alla pratica misera della “sostituzione di figurine”. E allora si viene assaliti dal rammarico, per non aver dato una rotta da seguire a chi voleva entrare “nella viva carne d’Italia”, abbeverandosi alle pagine di “Tabularasa” con gli scritti di Niccolai, Paolo Signorelli e di Antonio Carli, che nel primo editoriale tracciava con nettezza il perimetro di un’antropologia differente: “Chi non comprende il rischio senza interesse, la passione senza vizio, non può capirne le motivazioni”.
da Ilsecoloditalia.it

lunedì 7 gennaio 2013

Acca Larentia: "Troppo sangue sparso sopra ai marciapiedi"



“Osserva dell’alba il primo baglior/che annuncia la fiamma del sol/ ciò che nasce puro più grande vivrà/ e vince l’oscurità”. Cantano questi versi i giovani che, a metà degli anni settanta, si iscrivono al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI. Cantano “il domani appartiene a noi” anche Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, due ragazzi come ce ne sono a decine in quegli anni, diventati martiri loro malgrado. L’avrebbero intonata anche quella sera del 7 gennaio, al concerto de “gli amici del vento”, gruppo alternativo milanese di destra (una vera rarità per l’epoca). Ma non ci sono mai arrivati, uccisi su un marciapiede del quartiere Appio Latino, quando l’aria fredda dell’inverno sa ancora di Natale.Francesco e Franco, insieme Maurizio Lupini, Vincenzo Signeri e Giuseppe D’Audino, stanno chiudendo la sede della sezione di via Acca Larentia. 

Un nome che, per più di duemila anni, ha riportato alla memoria esclusivamente la figura di una donna romana, la madre adottiva di Romolo e Remo. Un nome ricoperto da un alone di mistero, fra mito e leggenda. Questo fino a quel pomeriggio di gennaio del 1978. Sono le 18.23, minuto più, minuto meno. La scrupolosità di risparmiare un po’ ha spinto i cinque ragazzi a spegnere la luce prima ancora di sprangare la porta. Sul tavolino hanno lasciato una nota per avvisare gli altri camerati: “siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco”. Letto con il senno di poi, quel biglietto, sembra uno di quei macabri scherzi che il destino fa, per lasciare una traccia di se in grado di raggelare il sangue di chi resta a piangere i morti. Franco e Francesco guardano dentro, spalle alla strada, gli altri stanno uscendo. Non sanno che sono i loro ultimi istanti di vita. 

Non sanno che i “compagni” hanno già scritto la loro condanna. All’improvviso, sei o sette figure scure, con dei cappelli colorati calcati sugli occhi per nascondere alla bell’e meglio la faccia, compaiono in fondo alla strada. Nessuno capisce cosa stia per succedere. Poi, una raffica di spari. Uno dietro l’altro. Senza motivo. Un urlo. Bigonzetti che cade a terra. Ciavatta lo segue immediatamente dopo. A coprire quell’orrore c’è la notte scura che è calata su Roma.D’Audino, di quella serata di gennaio ricorda molto. Ha raccontato quell’incubo surreale a Luca Telese, in un’intervista per il libro Cuori Neri. “Qualcuno mi tira dentro (la sezione, ndr). Io tiro dentro qualcun altro. La porta, bisogna chiudere la porta! E altri spari. Passi fuori, nuove urla. Poi il buio della sezione che ci avvolge e il silenzio che cade improvviso su di noi”. 

Aggiunge anche un’altra cosa, Giuseppe. “Io ne sono certo: se prima di uscire non avessimo già spento la luce, per l’ossessione della bolletta, sicuramente oggi non sarei vivo”. E che cosa ha significato riaccendere quell’interruttore, lo può capire solo chi era lì, in quel momento. “Io non posso togliermi dagli occhi quell’immagine. Noi eravamo ancora per terra e da sotto la soglia della porta entrava un lago di sangue che si allargava lentamente, come se si stesse avvicinando a noi”. Una scena surreale. Da film.Giuseppe, Mario e Vincenzo (che è stato colpito di striscio) escono per provare a capire che cosa sia successo. Il sangue che hanno visto è quello di Franco. Ha il volto devastato dai proiettili. Irriconoscibile. E quel corpo dilaniato da una inspiegabile follia omicida sarà offerto alla mercè di tutti “grazie” alla foto di un giornalista de “L’Espresso”, che la pubblicherà una settimana dopo l’eccidio. 

A pochi passi da Franco, c’è Francesco. È ancora vivo, lui. Si sforza di parlare, altruista fino in fondo, eroe suo malgrado: “Non pensate a me. Pensate a Franco che sta messo peggio”. Non lo sa, non ha potuto rendersene conto, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Non lo sa, non se ne rende conto, o forse sì, ma sono anche i suoi ultimi respiri. Riesce a solo a sussurrare con un filo di voce: “aiuto, mi brucia tutto, aiuto”. Poi più niente. La corsa disperata in ospedale è inutile. Arriveranno entrambi cadaveri.Viene portato via da un’ambulanza anche Signeri. E la sua foto, sulla barella, mentre tenta di fare il saluto romano (trattenuto con violenza degli infermieri) prima di entrare in Pronto Soccorso, urlando di rabbia, è il simbolo di quelle ore drammatiche e assurde.L’azione verrà rivendicata poco dopo da una sigla semisconosciuta e dal nome che vuol dire tutto e niente: “Nuclei Armati per il contropotere territoriale”, i NACT. 

Di gruppi così, di questi tempi, ce ne sono a dozzine. Sparano e ammazzano senza pudore, senza pietà. Gli omicidi hanno uno scopo, però. Sono i cosiddetti “battesimi di sangue” che servono per fare il “salto di qualità” ed entrare nelle Brigate Rosse. È bene non dimenticare mai che, quel 1978, è l’anno che segnerà per sempre la storia d’Italia. È l’anno dell’assassinio di Aldo Moro e le BR sono il gruppo di riferimento fra i nuclei della sinistra extraparlamentare che hanno deciso di votarsi al terrorismo.I NACT, anche se poco conosciuti, sono molto ben organizzati. Hanno uomini (e donne). Hanno armi. Ad Acca Larentia vanno preparati, vogliono ammazzare e sanno come si fa. Alcuni dei 7 che compongono il commando sparano con pistole a canna corta calibro 9, che di solito ha in dotazione l’esercito. 

Ma i colpi che uccidono Franco e Francesco partono da un revolver calibro 38 e da una mitraglietta Skorpion. Un’arma micidiale, in grado di sparare più di venti colpi al secondo. La nota che rivendica i due omicidi, letta a 35 anni di distanza, fa ancora rabbrividire: “Un nucleo armato, dopo un'accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l'ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga”. “Le parole sono pietre”, scriveva Primo Levi ed è bene ripeterle, perché il tempo non ne cancelli il peso e non faccia scomparire il ricordo delle vittime.Sì, le vittime. Franco e Francesco. Due missini ragazzi, con la faccia pulita e la testa ancora china sui libri. Uno -di 19 anni- al primo anno di medicina a “La Sapienza”, l’altro -appena maggiorenne- studente dell’istituto tecnico industriale “Tiziano”. La furia omicida dei NACT li ha strappati via alle famiglie senza nessun motivo. E, come spesso accade, c’è chi non riesce a sopportare di sopravvivere ad un figlio morto così. 

È il caso del padre di Ciavatta, portiere in un condominio di via Deruta, zona Tuscolano. Un uomo del popolo, cui i borghesi (autonominatisi) difensori del proletariato hanno portato via il sangue del suo sangue. Non ha retto, il papà di Francesco, che pochi mesi dopo la strage di Acca Larentia si è suicidato bevendo una bottiglia di acido muriatico.E non è questa l’unica tragedia seguita alla folle azione dei NACT. Sì, perché la morte di Franco e Francesco si portata dietro una scia di sangue, finita solo un anno dopo quel maledetto 7 gennaio del 1978. 

La sera stessa degli omicidi di Ciavatta e Bigonzetti, sull’asfalto di via Acca Larentia cade un altro ragazzo. Stefano Recchioni. Questa volta non sono i “compagni” a sparare. È un carabiniere, Edoardo Sivori. Uno di quelli chiamati per sedare la folla di camerati inferociti che si è radunata davanti alla sezione dell’Appio Latino. Poi, un’altra vittima. Un altro ragazzo. Un altro missino. Un anno dopo. Questa volta a Centocelle. Alberto Giaquinto viene ammazzato come un cane da un poliziotto in borghese, durante i tafferugli scoppiati mentre si sta ricordando quella tragica giornata di gennaio del ’78. Le loro storie, quelle di Stefano e Alberto, meritano di essere raccontate a parte e “il Giornale d’Italia” lo farà, nei prossimi giorni. Queste morti, per mano di uomini dello Stato, non devono essere confuse con l’azione punitiva messa in atto dai terroristi. Vicende diverse, unite da un unico, orribile, fil rouge.

C’è una canzone che ricorda i fatti di Acca Larentia. Tutti, senza distinzione. S’intitola “generazione ‘78” e nel testo ci sono due frasi che racchiudono il nonsenso di quel freddo pomeriggio d’inverno: “Poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri, troppo sangue sparso sopra i marciapiedi e la tua generazione stagliò al vento le bandiere, gonfiò l'aria di vendetta senza lutto, né preghiere.”Questa è la storia di Franco e Francesco. Ed è solo l’inizio…

da Il Giornale d'Italia, di Micol Paglia

venerdì 4 gennaio 2013

La lunga marcia della destra italiana



Vent'anni fa, quando la Destra politica si ritrovò scaraventata sulla ribalta nazionale e in seguito, grazie a Silvio Berlusconi, addirittura alla guida del Paese, furono in pochi a prevedere in quell'insperato successo l'inizio della fine.

Vent'anni dopo, la cronaca registra un pullulare di sigle nate dall'esaurirsi di quella che ne era stata all'inizio il motore immobile, vale a dire il Movimento sociale (Msi), prima ribattezzato Alleanza Nazionale (An) e più tardi sciolto in un più grande contenitore chiamato Polo delle Libertà (Pdl). Allo stato attuale, e come per gemmazione da quest'ultimo, sono da annoverarsi da un lato i Fratelli d'Italia-Centro-destra Nazionale antimontiani, dall'altro il finiano e montiano Futuro e Libertà, a cui va aggiunta la storaciana Destra, priva di rappresentanza parlamentare, anch'essa antimontiana in un orizzonte elettorale in cui il montismo sembra il mantra del berlusconismo: favorevoli ma contrari (sono stati i suoi rappresentanti ad aver sfiduciato il governo), contrari ma favorevoli (lo avrebbero voluto al loro fianco se non alla loro guida...).

Questo pullulare di sigle intorno a un unico oggetto del contendere si lega a ciò che dà il titolo al saggio di Giuseppe Giaccio, ovvero Le metamorfosi della destra (&MyBook, pagg. 149, euro 12), analisi ragionata e tentativo di comprendere quanto e se, metamorfosizzandosi, la Destra abbia trovato un suo anche se molteplice ubi consistam oppure, più semplicemente, si sia polverizzata. Nota l'autore che «da un punto di vista biologico, la metamorfosi è un processo naturale di trasformazione che consente a un organismo di diventare adulto: dalla crisalide alla farfalla. Sappiamo però, grazie a Kafka, che una metamorfosi può essere anche qualcosa di mostruoso: Gregor Sansa, da uomo, diventa scarafaggio».

In politica, si sa, bisogna dar prova di realismo. È in nome del realismo politico che intellettuali-compagni di strada e esponenti di partito con aspirazioni teoriche hanno cercato di motivare le ragioni di una Destra in cammino verso, va da sé, la modernità. Giaccio ne ripercorre puntigliosamente i passi, comprese le vanterie affrettate così come le ricostruzioni di comodo. Sta di fatto che il solvitur ambulando, ovvero il risolvere i problemi attraverso una marcia, a volte storicamente può funzionare, vedi la «marcia su Roma» del fascismo, ma c'è sempre in agguato quel couplet di Mino Maccari che suonava «O Roma/o Orte»... Sotto questo aspetto, il cammino della Destra sembra essere finito su un binario morto o tutt'al più uno scambio in disuso, e questo a prescindere dalla ministeralizzazione capitolina di alcuni suoi leader-macchinisti.

Giaccio si interroga se «non sia proprio il berlusconismo a svelare la verità sulla destra italiana, il suo vero volto». È un interrogativo retorico, non foss'altro perché, come nota egli stesso, la cronaca di questi anni ha registrato la presenza molto attiva dei «berluscones» nella cosiddetta destra-postmissina, ma non dei «finiones» dentro Forza Italia. La «destra nuova» europea dei Sarkozy e dei Cameron che veniva portata a esempio, era insomma «capeggiata da persone che, a cominciare dal primo, avevano conquistato sul terreno, metro per metro, la leadership prima del loro partito e poi del loro Paese», cosa che di Gianfranco Fini non si può proprio dire. La berlusconizzazione della destra portava dunque scritto sin dall'inizio la dissoluzione della seconda, a meno di non dotarla di anticorpi ideologici talmente forti e insieme di una capacità strategica di lunga durata tali da permetterne il rigetto. Sotto questo aspetto, sia la Lega di Bossi e poi di Maroni, sia l'Udc di Casini hanno rivelato quella capacità identitaria che ne ha garantito la sopravvivenza.

Lo «scioglimento di un equivoco». Così Giaccio, riprendendo il giudizio del finiano Fabio Granata, descrive la confluenza di An nel Pdl e la successiva costruzione della «Destra nuova» di Futuro e Libertà, intesa come una «sfida in campo aperto»... Nel giro di un paio d'anni, e complici le prossime elezioni, da una «confluenza» si è passati a un'altra, sempre in condizioni di minorità e/o di sudditanza, una sorta di commedia degli equivoci che cancella la parola «destra» come antitesi del berlusconismo. E sull'altro versante? Il neo partitino di La Russa-Meloni-Crosetto da un lato, La Destra di Storace dall'altro non si sa se marceranno separati per colpire uniti o uniti per non morire separati, ma in entrambi i casi, e di là dalla buona fede e dai buoni propositi, è difficile vedere in essi un progetto politico in grado di caratterizzarli.

Le metamorfosi della destra è un libro interessante anche per l'analisi di quella che è stata la «Nuova destra» metapolitica, riassumibile nella formula delle nuove sintesi democratiche post-liberali, e di cui Giaccio ha rappresentato uno degli intellettuali più accreditati. In sostanza, proprio dal venir meno dei referenti politici tradizionali, i concetti classici di destra e di sinistra, era possibile un percorso culturale alternativo che cercasse una via d'uscita a quella che sempre più si è andata configurando come la morte della politica. «Sul piano istituzionale, rimane l'architettura di una democrazia sempre meno rappresentativa e sempre più auto-referenziale, un regime partitico post-democratico, che della democrazia conserva le forme esteriori, le ritualità, ma non più la sostanza e che tenta di sopperire a questo deficit con un massiccio ricorso alle tecniche pubblicitarie». Come e se da questo impasse si possa uscire, nessuno è in grado di dirlo, ma provarci resta «la propedeutica morale a ogni rivoluzione possibile».

di Stenio Solinas

giovedì 3 gennaio 2013

Dite solo che siamo!

"Non dite che siamo pochi, e che l'impegno è troppo grande per noi. Dite forse che due o tre ciuffi di nuvole sono pochi in un angolo di cielo d'estate? In un momento si estendono ovunque, guizzano i lampi, scoppiano i tuoni e piove su tutto. Non dite che siamo pochi, dite solo che siamo."


mercoledì 2 gennaio 2013

“Tolkien, Lo hobbit, la chiamata dell’eroe e gli archetipi universali”



“In una caverna sotto terra viveva un hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima”: così inizia il romanzo di John Ronald Reuel Tolkien “Lo hobbit” che costituisce il prologo del mondo mitologico della Compagnia dell’Anello. Dal 13 dicembre prossimo nelle sale ci sarà la prima delle tre pellicole girate dal regista Peter Jackson e dedicate alla trasposizione sul grande schermo di quest’opera. Gianfranco de Turris, scrittore, uno dei massimi esperti di questo genere letterario in Italia e fondatore della trasmissione Argonauta – che su RadioUno stasera (alle 23.35) trasmetterà uno speciale sul libro che narra le avventure di Bilbo Baggins – ritiene “Lo hobbit un’opera che attinge ad archetipi universali possiede una innegabile profondità spirituale”
Torna nelle sale la saga tolkieniana. Un evento cinematografico ma anche una occasione per riaffermare il valore della letteratura “heroic fantasy”?
Il film è un medium più attraente della semplice lettura. E come fu dieci anni fa per il “Signore degli Anelli”, rilancerà l’opera tolkieniana. Di conseguenza lo spettatore e il lettore avranno modo di approfondire il significato, che non è solo pura avventura, presente nell’opera di Tolkien.
Nella produzione del professore di Oxford che valore ha avuto “Lo hobbit”?
E’ nato come una favola che lo scrittore raccontava ai propri figli, pubblicato nel 1937 come libro per ragazzi mentre “Il Signore degli Anelli” è invece un’opera per tutti. Di sicuro “Lo hobbit”, come tutte le favole, ha una profondità ben riconoscibile perché attinge ad archetipi universali.
In Italia fu arrivò nelle librerie nel 1973.
Come accade spesso da noi, prima si scoprì l’opera principale di Tolkien, “Il Signore degli Anelli”, pubblicato nel 1970 da Rusconi – dietro suggerimento di Alfredo Cattabiani, curato da Quirino Principe e introdotto da Elémire Zolla – e solo dopo tre anni Adelphi inserì nel catalogo “Lo hobbit” (adesso è nelle libreria una nuova traduzione edita da Bompiani ndr).
Tutta la storia ruota intorno alla figura di Bilbo Baggins.
E’ vero, ma le avventure di Bilbo seguono lo stesso schema di quelle di Frodo: una chiamata dell’eroe, il viaggio periglioso, il superamento degli ostacoli, il combattimento con il drago e il raggiungimento della sua missione recuperando il tesoro. Infine c’è il ritorno a casa. L’unica differenza con “Il Signore degli Anelli” è questa: mentre ne “Lo hobbit” lo scopo può dirsi raggiunto, nella trilogia Frodo alla fine deve distruggere l’anello ma sull’orlo della Voragine si fa prendere dalla brama di potere. Potrebbe non portare a termine il proprio compito se non ci fosse l’intervento di Gollum, che gli strappa l’anello dal dito e saltando per la gioia mette il piede in fallo e precipita nell’abisso di Orodruin.
Ogni tappa della narrazione della Terra Mezzo offre la possibilità di riflettere sui percorsi dell’animo umano.
Le opere principali di Tolkien sono fiabe moderne, raccolgono il portato profondo della favola tradizionale e la aggiornano alla cultura del proprio tempo. Si basano su mitologie epiche comuni a tutta l’umanità: è questo il motivo per cui hanno avuto un successo planetario, venendo apprezzate anche in paesi ben distanti dalla cultura occidentale. Nel viaggio dei due protagonisti si affrontano problemi spirituali che vengono riattualizzati da quel genio che fu Tolkien.
I rapporti di amicizia e cameratismo sono autentici punti di forza nella comunità degli hobbit. Le “radici profonde” sono una chiave per affrontare le sfide del mondo in ogni tempo?
L’amicizia intesa come una grande radice dell’essere umano sicuramente sì. Tra le grandi radici, che addirittura possiamo far risalire all’Iliade e all’Odissea, possiamo anche includere il senso dell’onore, il voler difendere la propria identità, il mantenimento degli impegni e l’essere soddisfatti della propria missione indipendentemente dall’eventuale ricompensa per il compito assolto.
Come per ogni produzione cinematografica, c’è il rischio “mercificazione” per un mondo ideale che invece predica una Weltanschauung critica di una certa visione materialista?
Tutti i prodotti della modernità corrono questo pericolo. Ma le opere tolkieniane sono state vendute in decine di milioni di copie in tutto il mondo. Esiste già una immensa commercializzazione. Il cinema, come la tv e i media digitali, colpisce l’immaginario più della lettura di un libro, ma non potrà mai svalutare ciò che è incarnato dalle simbologie tradizionali.
Il film incontrerà il bisogno di sacro che nessuna secolarizzazione può cancellare?
Il Signore degli Anelli, pur avendo avuto critiche degli appassionati ultra ortodossi, è stato una bellissima trilogia che ha visualizzato in pieno il mondo della Terra di Mezzo e i suoi valori. Lo hobbit, essendo stato scritto per ragazzi, potrebbe però esser stato prospettato in maniera diversa.
Quando fu presentato il primo film di Peter Jackson, da sinistra arrivarono strali e critiche rivolte alla passione della destra per il mondo tolkieniano. Adesso circoli di sinistra radicale sono impegnati in una sorta di tentativo di “appropriazione” della Compagnia dell’Anello.
Il dibattito su Tolkien tra destra e sinistra è una peculiarità tutta italiana: questa polemica risale agli anni settanta. L’autore de “The Lord of the Rings” fu respinto dalla cultura progressista, ostile ad un’opera “fantastica” e “medievaleggiante”; piacque invece a destra. Gli orientamenti non furono frutto di qualche sottile strategia politica: alcuni giornalisti di destra, che si occupavano di letteratura, ne apprezzarono l’opera senza dietrologie. I campi Hobbit vennero dopo… La sinistra, a partire dagli anni novanta, cominciò un tentativo di recupero di uno scrittore popolarissimo: tutto è possibile, ma non si può forzare la mano né accusare gli altri di strumentalizzazione.
di Michele De Feudis