sabato 16 giugno 2012

Quella notte a piazza Vescovio. Cecchin, 33 anni senza giustizia


Ma quella nave non è mai affondata, l'ho rivista ieri sera
Con le vele gonfie di vento e il tuo nome sulla bandiera!

Francesco era primavera, Francesco era libertà!







Roma, quartiere Trieste Salario, notte tra il 28 e il 29 maggio 1979. Piazza Vescovio è immersa nel buio e per strada non c’è più nessuno. Solo due persone si attardano in una rapida passeggiata. Sono lo studente del Fronte della Gioventù Francesco Cecchin e la sorella Maria Carla. A un certo punto una Fiat 850 bianca con quattro persone a bordo s’accosta al marciapiede. Poi la macchina si blocca e una voce dall’interno dell’abitacolo grida: «È lui, è lui, prendetelo!». Immediatamente due uomini scesi dall’auto si mettono a correre in direzione dei due giovani. Francesco intuisce il pericolo e rivolto alla sorella grida: «Va via, scappa, corri a chiamare aiuto!». E inizia a correre a perdifiato anche lui, con i due sconosciuti alle calcagna. Maria Carla sta anch’essa per lanciarsi, ma Francesco e gli inseguitori la superano in un baleno, scomparendo dietro l’angolo. S’ode uno schianto, un rumore sordo, e poi più nulla. La ragazza, terrorizzata, ha solo il fiato di gridare: «Francesco, Francesco… Aiuto!». Ma non c’è niente da fare. Francesco viene ritrovato esanime nel terrazzino sottostante via Montebuono, ben quattro metri e mezzo più in basso del marciapiede. Il diciassettenne è ancora vivo, ma privo di conoscenza. Nella mano destra stringe un pacchetto di sigarette, nella sinistra un mazzo di chiavi. Quella che sporge tra le nocche è piegata. Inoltre perde sangue dalla tempia e ha un’emorragia al naso.
 

Dopo diciassette giorni di coma profondo di Francesco rimane solo l’ennesimo necrologio pubblicato sul “Secolo d’Italia”. Per i giornali allineati l’episodio fu “spiegato” prima ancora che qualcuno si prendesse la briga di fare uno straccio d’indagine. Il militante di destra era “inavvertitamente” caduto di sotto. Ma, obiettò qualcuno, se fosse precipitato da solo non avrebbe avuto l’occhio sinistro tumefatto, le labbra e il naso gonfi, un profondo taglio sul collo, uno squarcio sulla tempia, la milza spappolata e lividi dappertutto. E poi perché impugnava ancora il mazzo di chiavi e il pacchetto di sigarette? Come mai un ragazzo di diciassette anni che fa un salto di cinque metri non tenta neppure di attutire la caduta cercando di atterrare con le proprie gambe? Non è che è stato tramortito e gettato a peso morto nel vuoto? Allora è sicuramente rimasto vittima di una faida interna al mondo neofascista, rilanciarono i velinari di regime. 


La storia era sempre la stessa. Per Francesco, studente all’istituto tecnico Mattei, entrare in classe era sempre stato un po’ come entrare nella gabbia dei leoni. Erano più le volte in cui restava fuori dall’aula, bloccato da qualche picchetto organizzato dai soliti farabutti con gli stracci rossi, che quelle in cui riusciva ad accedervi. Il tutto nell’indifferenza delle autorità scolastiche e delle forze dell’ordine. Una vita impossibile. Respinto due volte, decise di trasferirsi al liceo artistico di via Ripetta assecondando la sua innata passione per il disegno. Ma qui, se possibile, le cose peggiorarono ulteriormente. L’artistico infatti rigurgitava di ultras di estrema sinistra, tanto che senza menare le mani non poteva nemmeno avvicinarcisi. La tragedia, insomma, era nell’aria e si verificò puntualmente. Ma qualcuno s’è forse degnato d’indagare su questo ennesimo assassinio? Ma certo, le indagini ci furono, come no. Tuttavia, tanto per rendere l’idea di che aria tirasse, basta dire che l’allibita Maria Carla in questura si sentì apostrofare dai poliziotti: «Tuo fratello se l’è cercata». E che secondo i giudici le disattenzioni degli inquirenti sfiorarono il dolo. Tuttavia, gira che ti rigira, qualche nome venne fuori. Quello del proprietario dell’850 bianca, ad esempio, un noto comunista della zona. E quello di un suo compagno – comunista anch’egli, naturalmente – un personaggio che dopo l’ennesima zuffa per un manifesto stracciato se ne andò profferendo fior di minacce. Qualcosa del tipo: «Tu stai attento perché se poi m’incazzo ti potresti fare male. Vi abbiamo fatto chiudere la sezione di via Migiurtina, vi faremo chiudere anche quella di via Somalia». Sì. A quei tempi i compagni erano onnipotenti, e spadroneggiavano per il quartiere, vezzeggiati e coccolati da mass media, forze dell’ordine, giornalisti e intellettuali éngage. Tanto che ancora oggi, dopo trentatré anni suonati, per lo Stato Francesco Cecchin è stato vittima d’ignoti e della criminalità comune. Eh sì, perché, per chi non lo sapesse, nessuno ha pagato per la sua morte.


Angelo Spaziano - Secolo d'Italia