Sì, certo: destra e sinistra sono concetti che non hanno più senso. La gente non ne può più eccetera eccetera… L’abbiamo detto da così tanto tempo che ci siamo stufati pure di precisarlo. Insomma lo sappiamo. E abbiamo metabolizzato questa consapevolezza da decenni, quando ancora tanti di quelli che oggi pontificano sulla vecchiezza di queste categorie ci guardavano come marziani, se non addirittura come traditori.
Quel che ci sta a cuore è l’Italia, non solo una parte di essa e tantomeno una parte che non si sa come chiamare perché non ha neanche l’ombra di un’uniformità ideologica. D’altro canto, pretendere di trovare convergenza di vedute tra quanti hanno in qualche modo rappresentato il nostro universo politico è un gioco non solo inutile ma sbagliato: non di destra si dovrebbe parlare, infatti, semmai di “destre”, al plurale. E ognuna ha sempre riunito al suo interno un’ulteriore pluralità di sfumature neanche tanto piccole.
Anche chi - come chi scrive - è nato politicamente in un movimento che rifiutava le categorie destra/sinistra, sa perfettamente che lo stesso rifiuto comprendeva in sé posizioni diversissime e a volte contrapposizioni di non poco conto.
Quello che ha unito (e in qualche modo unisce ancora) il nostro mondo non sono le ricette: sono gli ingredienti, ovvero “il modo” di rapportarsi al mondo. Marzio Tremaglia era riuscito a riassumerne la sostanza con la qualità rarissima della semplicità: «Credo nei valori del radicamento, dell’identità e della libertà; nei valori che nascono dalla tutela della dignità personale. Sono convinto che la vita non può ridursi allo scambio, alla produzione o al mercato, ma necessita di dimensioni più alte e diverse. Penso che l’apertura al Sacro e al Bello non siano solo problemi individuali. Credo in una dimensione tipica della vita che si riassume nel senso dell’onore, nel rispetto fondamentale verso se stessi, nel rifiuto del compromesso sistematico, e nella certezza che esistono beni superiori alla vita e alla libertà per i quali a volte è giusto sacrificare vita e libertà».
Qualcuno ha criticato l’appello di Marcello Veneziani (apparso sul Secolo d’Italia) perché parlava ancora di destra. Altri l’hanno stigmatizzato perché era rivolto a un mondo che non esiste più. Altri ancora hanno risposto che non c’è bisogno di rivoluzioni e che, con qualche aggiustamento, le cose si possono ancora rimettere a posto.
Su Libero, Renato Besana ha raccontato come, insieme a Veneziani, ha pensato di proporre un laboratorio politico dal nome “Itaca” per una nuova rivoluzione conservatrice italiana. Sullo stesso quotidiano, nella sua nuova rubrica, l’editore Freda ha giudicato positivo l’appello cogliendone l’intento di fondo al di là del nome.
Tuttavia, i nomi formano la sostanza e giustamente Marcello de Angelis, oltre ad ospitare sul quotidiano che dirige numerosi interventi stimolati dall’articolo di Veneziani, ha scritto che per chi ha voluto passare le Colonne d’Ercole un ritorno a Itaca non è possibile né auspicabile e la sfida è quella di trovare un continente nuovo.
Si potrebbe pensare che la sintonia venga dalla lunga frequentazione, ma io credo l’esatto contrario: la lunga frequentazione è resa possibile dalla sintonia. È per questo che, senza averne parlato con de Angelis, quando Besana mi ha inviato la bozza dell’appello ho avuto la sua stessa reazione, e nel riferimento al “ritorno a Itaca” ho percepito un senso di nostalgia lontanissimo dalla volontà di assaltare il futuro. Ma quella nostalgia è lontanissima anche dall’intento degli stessi promotori, che è un intento giusto e razionale anche se magari non hanno azzeccato il nome.
Perché è sacrosanta la necessità di rigenerare quel mondo che per semplicità chiamiamo destra. Nessuno vuole tornare indietro, ma avanti così non si può andare.
Gabriele Marconi