venerdì 14 marzo 2014

Il “cuore antico” della tragedia ucraina

È certamente vero che la storia non si ripete mai né come tragedia né come farsa. È altrettanto vero, per riprendere Eraclito, che non è possibile bagnarsi due volte nell’acqua del fiume degli eventi trascorsi a meno di non volersi impegnare in una futile e sviante esercitazione analogica con la quale tentare d’interpretare il presente alla luce dell’esperienza di ciò che fu. Questa regola conosce tuttavia delle eccezioni. Anche la storia conosce delle “costanti”, delle “ripetizioni” e queste sono causate dalla memoria di un popolo e dalla posizione geopolitica di una Nazione che a volte condannano appunto Popoli e Nazioni a un tragico “eterno ritorno” al passato.
Le odierne vicende dell’Ucraina costituiscono un convincente case study di questa eretica legge storica che contraddice i dogmi dello storicismo assoluto. Con il trionfo della “seconda rivoluzione di Kiev” – nella quale sarebbe prudente astenersi per ora dal distinguere con facile manicheismo tra “buoni” e “cattivi” – l’Ucraina abbandona la sfera d’influenza della Federazione Russa e entra a pieno titolo in quella occidentale, domani nell’Ue, dopodomani molto probabilmente nella Nato.
A determinare questo spostamento di campo è stato certo un violento ritorno di fiamma del nazionalismo ucraino, un’antica, mai sopita e sicuramente giustificata russofobia e l’irresistibile attrazione verso il modello di vita politico, culturale, economico delle liberal-democrazie europee e statunitense.
Questi sentimenti, che riguardano però solo le regioni occidentali del Paese e non quelle orientali tuttora fortemente orientate verso Mosca in virtù di fortissimi e legittimi legami storici, economici, linguistici, non riescono a spiegare del tutto quanto accaduto. La “gloriosa notte” del 22-23 febbraio, che ha visto la deposizione e l’ignominiosa fuga del “satrapo” Viktor Yanukovič e il ritorno al potere della discussa “Giovanna d’Arco ucraina” Julija Tymošenko, è stata provocata infatti anche da forti pressioni provenienti dai gabinetti di Washington, Berlino, Varsavia.
La Polonia di Donald Tusk è stata il più strenuo difensore dell’opposizione ucraina e lo Stato che insieme alla Svezia e alle tre Repubbliche baltiche ha spinto di più per un accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Ue. Nel backstage della diplomazia internazionale meno appariscente ma certo più incisiva è stata l’azione di Stati Uniti e Germania.
Emilio GinL’amministrazione Obama si è fortemente spesa per favorire il pieno inserimento dell’Ucraina nel nuovo sistema egemonico politico- militare- economico statunitense che, inaugurando un clima di competizione con Mosca ormai definibile come «nuova Guerra fredda», mira a estendersi dall’Africa settentrionale, all’Egitto, al Medio Oriente, al Caucaso, all’Afghanistan, all’ex-Asia centrale sovietica, in aperta contrapposizione alla vocazione di Grande Potenza euroasiatica rivendicata dalla Russia di Putin. Da parte sua la Germania, in occasione della crisi ucraina, ha assunto in maniera unilaterale la leadership della politica estera dell’Unione europea, costituendo un’asse con Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia, condannando aspramente il presidente eletto Yanukoviĉ per aver rifiutato di stringere relazioni con l’Unione europea e per aver represso la protesta di quei settori della società ucraina che si opponevano a quella decisione.
Sostenendo con vigore la “rivoluzione ucraina”, la Germania della Merkel ha collocato l’ultima tessera del progetto di una grande area di penetrazione economica e politica estesa dall’Oder al Baltico al Danubio, dalla foce del Don al Mar Nero. Di questo nuovo «Grande gioco», l’Ucraina è forse la pedina più considerevole non solo per la ricchezza delle sue risorse minerarie (carbone, minerali di ferro, petrolio, gas naturale) e agricole (soprattutto cereali) e per il possesso di circa 40 mila chilometri di gasdotti che la collegano all’area del Mar Caspio (Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan) ma anche per la cruciale rilevanza della sua posizione geopolitica da cui dipende strettamente la sicurezza nazionale russa.
L’Ucraina è fondamentale per la difesa della Russia. Mosca si trova a soli circa 480 chilometri dal territorio ucraino e i due Paesi condividono un lunghissimo confine, pianeggiante, facilmente percorribile e quindi fatalmente esposto ai rischi di un’aggressione. Se una Potenza ostile, poi, dovesse impadronirsi del corridoio russo tra Ucraina e Kazakistan, al cui centro si colloca la città di Volgograd (che fino al 1961 si chiamò Stalingrado) la Russia sarebbe tagliata fuori dal Caucaso e la sua frontiera meridionale non sarebbe più difendibile. Inoltre, l’Ucraina è padrona di due porti sul Mar Nero, Odessa e Sebastopoli, che sono ancora più importanti per Mosca di quello di Novorossiysk: principale ancoraggio russo su quella distesa acquatica. Privare il regime di Putin dell’utilizzazione commerciale e militare di queste basi militari e commerciali equivarrebbe a minare gravemente l’influenza della Russia nel Mar Nero e tagliarla fuori dall’accesso al Mediterraneo.
Tutto questo spiega perché, nel corso della Grande Guerra, con il trattato di pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918), gli Imperi Centrali pretesero e ottennero il controllo dell’intero territorio ucraino che intanto si era organizzato in Stato autonomo nel marzo del 1917. Rovesciato da un colpo di Stato diretto da Berlino, il governo nazionale ucraino fu sostituito nell’aprile 1918 da uno Stato fantoccio al servizio del Reich guglielmino di cui divenne alleato. Come hanno dimostrato i lavori di Wolfram Dornik con quell’acquisto Austria-Ungheria e Germania non mirarono soltanto a impossessarsi del «granaio dell’Impero zarista», delle importanti industrie pesanti ucraine e di uno sbocco sul Mar Nero ma anche a soprattutto «a tenere un coltello perennemente puntato al cuore della Russia».
Recuperata la sua indipendenza di fatto nel novembre 1918, il fragile Stato ucraino, privo di consenso interno e di legittimazione internazionale, attraversato da fortissimi conflitti intestini di carattere etnico e politico, attanagliato da una grave crisi economica causata dalla disintegrazione dei suoi rapporti con l’apparato produttivo e commerciale russo, si dimostrò incapace di resistere alla guerra di riconquista sovietica. Il 18 marzo 1921 il trattato di Riga, sottoscritto da Varsavia e da Mosca sancì la spartizione dell’Ucraina. La Polonia incorporò la Galizia orientale e la Volinia occidentale già province dell’Impero asburgico e di quello zarista, altre minori regioni furono annesse dalla Cecoslovacchia e dalla Romania mentre il restante territorio ucraino divenne nel 1922 parte dell’Urss. Da questo momento in poi il popolo ucraino condivise la storia dell’Impero comunista e ne subì gli orrori, divenendo vittima della terribile carestia provocata dal regime sovietico tra 1932 e 1933, studiata nell’ottica della diplomazia italiana da Andrea Graziosi. Carestia che provocò milioni di vittime e che passò alla storia con il nome di Holodomor («sterminio per fame»).
Nel 1941, il Terzo Reich conquistò l’Ucraina, impadronendosi delle sue risorse agricole, facendone la base strategica dell’offensiva su Stalingrado e cercando di utilizzarne il territorio per interrompere le linee di approvvigionamento tra la Russia e i giacimenti petroliferi del Caucaso. Come ho dimostrato, insieme a Emilio Gin, nel nostro recente volume (Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945), dal 1942, quando, grazie ai buoni uffici di Italia e Giappone, iniziarono i contatti informali e segreti tra Mosca e Berlino per arrivare a una pace separata, Hitler pose come condizione preliminare all’apertura delle trattative la cessione dell’Ucraina da parte dell’Urss e in alternativa la sua trasformazione in un protettorato congiunto russo-tedesco.
Durante il secondo conflitto mondiale il popolo ucraino non rimase testimone passivo degli avvenimenti che lo coinvolsero drammaticamente. L’Esercito insurrezionale ucraino (Oun-Upa), espressione del movimento nazionalista, antisemita, xenofobo, organizzato da Stepan Bandera, condusse una duplice accanita guerriglia contro la Wehrmacht e l’Armata Rossa, macchiandosi allo stesso tempo di crimini contro l’umanità di cui furono vittime ebrei e polacchi. Nella tarda primavera del 1944, l’Oun-Upa si schierò infine a fianco dell’esercito nazista per contrastare l’avanzata delle forze sovietiche. Molto dell’ideologia del movimento di Bandera rivive, oggi, nei gruppi ucraini d’ispirazione nazional-socialista, come l’Unione Pan-Ucraina Svoboda, che hanno costituito il braccio armato delle manifestazioni di piazza Maidan alle quali si deve la defenestrazione di Yanukovich.
Privata della sua egemonia sull’Ucraina, la Federazione Russa alza la voce, digrigna i denti, mostra i muscoli e passa dalle parole ai fatti. Mosca ha posto in stato d’allerta il suo dispositivo militare sulla frontiera ucraina e ha inviato reparti scelti e colonne di blindati per rafforzare il contingente stanziato nella base di Sebastopoli. Il grande porto sul Mar Nero è divenuto il centro propulsivo della resistenza contro il nuovo corso di Kiev che sta agitando la minaccia di una secessione della Crimea se non addirittura il ricongiungimento di quella regione con la «Grande Madre Russia». Forse, ci auguriamo, non vedremo mai un conflitto russo-ucraino per il controllo della Crimea simile alla «guerra lampo» russo-georgiana del 2008 per il predominio sull’Ossezia del Sud e l’Abcasia. Più consistente è invece l’ipotesi che la “primavera ucraina” del 2014 si trasformi in una guerra civile, esattamente come è accaduto alle “primavere arabe” del 2010-2011.
Si tratterebbe di un conflitto intestino, sicuramente aggravato da antichi odi etnici, che potrebbe portare a un coinvolgimento diretto o indiretto di altri Stati restati invischiati in quello che sta per divenire un nuovo “conflitto balcanico” destinato a cambiare il volto della Russia e dell’Europa. La crisi ucraina ancora in pieno svolgimento contiene comunque, già da ora, un importante insegnamento troppo spesso ignorato. Se il buon andamento delle relazioni internazionali passa anche per il rispetto dell’onore e della dignità nazionale dei singoli Stati (come ha ricordato lo studioso russo-statunitense Andrei Tsygankov in un volume del 2012 dedicato proprio ai secolari rapporti tra Russia e Occidente), occorre dire che Washington e Berlino hanno dimostrato in questi ultimi mesi di non aver appreso questa lezione della storia.

da destra.it