«Sono nato lo stesso giorno dell’anno di Solzenicyn, il che fa di me un sagittario (ascendente cancro). Sono nato a Saint-Symphorien, piccolo agglomerato nella periferia di Tour, in una clinica nella quale apprenderò in seguito essere morto Charles Maurras dieci anni dopo». Intrecci, incastri, genealogie: questa è la presentazione di sé fatta da qualcuno che non ha mai cessato di chiedersi da dove viene. Una ricerca inesausta che oggi celebrerà i suoi primi 70 anni, senza accennare a placarsi. La destra è morta, la sinistra e morta e anche Alain de Benoist comincia a invecchiare, invero molto bene, e con lui più di una generazione di lettori, di militanti e di lettori militanti.
Di questi 70 anni, almeno una cinquantina de Benoist li ha passati a scrivere. E alla fine, paganeggiando qui e niccianeggiando là, sono passati una sessantina di libri, una mole sterminata di articoli, traduzioni in inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, romeno, ungherese, russo, greco, croato, olandese, iraniano. E, soprattutto, italiano. Non senza una punta di veleno, Jean Thiriart parlerà di «incontinenza del calamaio». Il belga – «l’onesto occhialaio di Bruxelles», sibilava a sua volta un indispettito Adriano Romualdi – era un leninista di destra. Ovvio che guardasse in cagnesco i colleghi gramsciani. Sempre di destra, si intende, in entrambi i casi trattandosi comunque di etichetta più subita che voluta, quando non apertamente schifata.
Gramscismo, sì. Un po’ per far casino e un po’ credendoci davvero, a un certo punto, verso la fine degli anni ’60, un gruppo di nazionalisti francesi troppo giovani per aver perso la guerra d’Algeria decise di rifarsi al comunista sardo per vincere la battaglia culturale. Conquistare la società politica dopo aver colonizzato la società civile, quando ancora quest’ultima era un concetto hegeliano e non scalfariano. Fratello maggiore dell’operazione era Dominique Venner, che la guerra d’Algeria l’aveva persa per davvero e poi, in carcere da militante dell’Oas, aveva scritto un libello folgorante per spiegare ai suoi camerati più giovani di mettersi a studiare.
Da lì inizierà un percorso accidentato da guastatore dell’industria culturale europea, prima in lavoro di squadra e poi da battitore libero, con graduale abbandono delle ambizioni gramsciane. Poiché autentico, tuttavia, l’itinerario debenoistiano è fatto di stratificazioni. Non c’è alcuna Fiuggi ideologica, nessun predellino filosofico. C’è lavoro, tanto. L’esito non è necessariamente felice, ma in compenso non ha mai l’impronta del falsario. De Benoist ha scritto di tutto ma non è mai stato un tuttologo. Ha voluto essere il Diderot della destra, creando un’Enciclopedia in cui potessero trovare posto Nietzsche, Spengler, Lorenz, Eysenk, Dumezil, Carrel, Sorel. Un lavoro immane di cui il ponderoso Visto da destra resta a testimonianza. Poi il senso dell’Enciclopedia è venuto meno, mettere la cultura in un circolo (en-kyklos) sia pur virtuoso non ha funzionato più. Meglio aprire i circoli e i recinti. Pierre-André Taguieff ha parlato non a torto di dedroitisation. Francesco Germinario è stato più impreciso ma più lirico inventando semplicemente una “destra degli dei”.
Oggi de Benoist è un signore che ha in casa centinaia di migliaia di libri, che non ha il cellulare e non indossa jeans. L’età lo ha reso meno arrembante e in qualche caso meno brillante ma gli ha donato quella che i francesi chiamano “la tenuta”. La chiarezza del pensiero, degli intenti, dell’etica. Una timidezza di fondo rivendicata con orgoglio, l’adesione a un solo vero partito, quello che Pierre Pascal chiamava “il Partito della stella polare”.
Nella sua autobiografia intellettuale, Mémoire vive, ha raccontato di essere stato prelevato da una trentina di antifascisti, nel 1993, in Germania, e pestato di santa ragione poco prima di parlare a una conferenza all’università. Portato in caserma dalla polizia, de Benoist rimarrà fino alle cinque del mattino a negare di riconoscere i suoi aggressori, anche di fronte a immagini di individui in effetti somiglianti a quelli poco prima incontrati. «Ne ho in effetti riconosciuti diversi, ma non ho detto nulla, ovviamente. Io non collaboro con la polizia».
di Adriano Scianca (articolo uscito sul Foglio di martedì 10 dicembre 2013)