lunedì 10 settembre 2012
Lucio e quei «boschi di braccia tese»
Sono passati quattordici anni da quel 9 settembre 1998 quando, da Milano dove era ricoverato per una grave forma di tumore, giungeva la notizia della morte di Lucio Battisti. Da quel momento l’Italia del boom economico postbellico perdeva per sempre la sua voce più vera e innocente. Era la fine di “un’avventura”, come recita il titolo di uno dei suoi più celebri successi. Il riccioluto cantautore reatino infatti, in coppia col paroliere Mogol, reinventò praticamente da zero la canzone moderna italiana. Tuttavia, ispirato dal demone del pentagramma, lui s’era sempre tenuto alla larga da ogni irreggimentazione politica. Non poteva immaginare che fu proprio quella sua intransigente purezza, quella sua spiazzante, disarmante trasparenza, a procurargli i guai peggiori. Impazzavano infatti gli anni dell’impegno, quelli dell’ideologia eretta a sistema selettivo e discriminante. Era l’epoca in cui anche vestire, parlare o mangiare - figuriamoci i gusti musicali - rappresentavano, volontariamente o meno, una precisa scelta di schieramento.
E quella sua indipendenza, quella sua autonomia, quel suo stile da anarca dello spirito non gli vennero perdonati. Infatti, per tutti i cervelli «preda di facili entusiasmi e ideologie alla moda» Battisti diventava verboten. Troppo intimista, poco rivoluzionario, anzi, palesemente reazionario, quindi sicuramente di destra, se non fascista tout court. Tanto che, come ricordarono un giorno i cabarettisti Gino e Michele, «a Radio Popolare era il 1976 – faticammo non poco a imporre qualche suo pezzo nelle nostre trasmissioni». E ancora 18 anni dopo, il 21 marzo 1994 - durante il “Concerto per vincere” di piazza San Giovanni organizzato a Roma dai progressisti - nel momento in cui Luca Barbarossa provava a far echeggiare nell’aria le prime note della “Canzone del sole”, dalla folla partirono fischi e invettive, mentre “La Stampa” arrivò a titolare: «Che gaffe: Barbarossa canta il nero Battisti». Come raccontò una volta Paolo Limiti durante uno speciale di Raidue andato in onda il 22 giugno 1997, una foto, scattata chissà quando, da chissà chi, chissà quanti anni prima, aveva sorpreso la star col braccio destro teso. Ma non si trattava di un saluto romano, bensì dell’ordine d’attacco per i violini nell’esecuzione de “I giardini di Marzo”. E poi quel brano sospetto della “Collina dei ciliegi”: «…Planando sopra boschi di braccia tese». Dario Fo arrivava persino a organizzare letture pubbliche dei brani di Battisti stigmatizzandone «l’eccesso di licealità e di crepuscolarismo e la totale assenza di realismo di classe».
Un atteggiamento, quello blasé degli italici salotti vermigli, rammentato con amarezza anche da Gianni Borgna, storico della musica leggera, il quale ricorda infatti che «quando uscirono i suoi primi dischi destinati a entrare nel mito, più di un critico progressista alzò il sopracciglio. Mentre i ragazzi impazzivano per lui e passavano giornate intere a ripetere i versi di “Mi ritorni in mente” e a strimpellare sulla chitarra gli accordi di “Emozioni”, ci fu chi non esitò a tacciare i suoi brani di qualunquismo».
E la linguista (?) Patrizia Violi non fu da meno: «Battisti piace perché incarna la categoria del moderno, perché propone surrogati scadenti di comportamenti emancipati, andando così incontro ai gusti del ceto medio». Insomma si viveva immersi in un pantano d’intolleranza e di conformismo tale che - ha aggiunto Borgna - «qualunque testo parlasse d’amore e non di lotta veniva guardato con estrema diffidenza, tanto più se aveva successo e raggiungeva le più alte vette dell’odiatissima Hit Parade». E in quel clima – come ha raccontato il musicologo Gianfranco Salvatore – «fu la stampa soprattutto a montare una sorta di didascalica contrapposizione fra gente come Venditti o De Gregori da una parte e Mogol-Battisti dall’altra. Gli uni campioni di “una certo discorso” e del bel sol dell’avvenire, gli altri, che il sole lo mettevano in canzone per solleticare istinti piccolo-borghesi se non addirittura fascistoidi».
Lucio Battisti. Uno fuori del coro.
Angelo Spaziano