mercoledì 3 agosto 2011

La strage di Bologna non è fascista!


di Gian Paolo Pellizzaro, da Area

Chi ha paura della verità sulla strage di Bologna? Chi vuole ancora insabbiare e depistare, a venticinque anni di distanza dal più grave attentato che la storia italiana ricordi? Chi tira i fili di questa ennesima manipolazione della verità? Quali sono gli interessi ancora attivi che qualcuno sente minacciati?
Interrogativi, questi, sui quali converrebbe riflettere perché - dai minuti successivi alla presentazione della nostra inchiesta (vedi box a pag. 17) - si è alzato un fuoco di sbarramento, all’interno di una spaventosa rissa mediatica, scandita da prese di posizione, illazioni, insinuazioni, accuse e minacce di calibro pesantissimo, sparate per nascondere fatti e circostanze con un’impenetrabile cortina fumogena. Tanti commenti, parole, insulti. Ma mai alcun elemento, non una circostanza è stata contrapposta per confutare il quadro dei fatti da noi presentato. Sono intervenuti un po’ tutti, i professionisti della parola, e con un solo obiettivo: demolire, sul nascere, ogni tentativo di chiarimento, serio, documentato e coerente sull’attentato del 2 agosto 1980.

I Guardiani della Verità
Il tempo è passato, ma il furore bianco dell’ideologia e l’odio politico sono ancora lì, intatti, a guardia dei tanti (falsi) misteri d’Italia. Misteri che, per un ristretto circolo di irriducibili che credono di essere i Guardiani della Verità, devono restare tali, altrimenti perderebbero il loro potenziale ricattatorio e il loro valore di merce di scambio per i soliti equilibri di potere. Rileggendo con un po’ di distacco gli interventi delle scorse settimane sulla strage di Bologna emerge, con limpida evidenza, un dato: gran parte di coloro che hanno sparato a zero su questa ricostruzione lo hanno fatto sul sentito dire, senza conoscere con esattezza e correttezza i termini della questione, evitando - di buon grado - di entrare nel merito. Il risultato finale è stato un chiassoso e irritante guazzabuglio, alimentato per intorbidare il più possibile le acque, proprio per evitare che qualcuno potesse, finalmente, vederci chiaro in questa tragica pagina di storia. Un gran polverone d’inizi agosto, con un roboante dispendio di paroloni, urla e schiamazzi, proprio quando la comunità nazionale si apprestava a commemorare i 25 anni da quella carneficina. Una carneficina che ha avuto, come risposta in termini di verità processuale, una serie di condanne fondate sul nulla, frutto di un teorema politico che rappresenta un insulto alla logica e all’intelligenza.

La lettera di Cossiga
Ma, come dicono gli anglosassoni, one bridge at the time, un ponte (cioè, un problema) alla volta. Il lavoro che abbiamo presentato ha, in primo luogo, ottenuto un risultato straordinario nell’ottica di una puntuale, accurata e attendibile ricostruzione della vicenda. Il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio dei ministri, informato in anticipo degli esiti dell’inchiesta sulla strage di Bologna, ha scritto una lettera di tre pagine all’on. Enzo Fragalà, quale promotore dell’iniziativa e membro della Commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin. La missiva è stata letta il 20 luglio, nel corso della conferenza stampa a Montecitorio. Ecco alcuni dei passaggi più significativi della lettera di Cossiga, il quale si rammaricava di non poter partecipare all’importante conferenza stampa, per motivi di salute: “Ho letto le carte da te inviatemi e le ho integrate con i miei ricordi, che vengo ad esporre, rinviando per le date alle carte stesse. Premetto che non ho mai ritenuto la Francesca Mambro e Giusva Fioravanti responsabili dell’eccidio di Bologna. L’ultima, assai debole sentenza di condanna è da ascriversi - scrive il senatore Cossiga - alle condizioni ambientali, politiche ed emotive della città in cui è stata pronunziata, nonché alle teorie allora largamente imperanti nella sinistra e nella collegata “magistratura militante”: essere funzione della giustizia quella di partecipare “alla lotta” e che quello che per le finalità politiche della lotta “avrebbe dovuto essere”, “era” o “era stato”, perché è l’ideale che invera il fatto, ed il fatto che contraddice l’ideale semplicemente non “è” o “non è stato”, perché la “rivoluzione”, politica, ideologica o solo culturale è la “verità” aldifuori della “rivoluzione”. Tutte teorie affascinanti anche se fuorvianti, che con le loro origini giacobine e leniniste sono largamente filtrate nella “ideologia di lotta” della “magistratura militante”. Passiamo ai ricordi”.

Quel burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi
E qui viene il bello: “Ero presidente del Consiglio dei ministri quando la polizia intercettò un camion con due missili, scortato dal “pacifista non violento” Pifano, dominus di quel circolo culturale della cosiddetta Autonomia - così lo definì il giudice che annullò una ordinanza da me emanata in base alle leggi speciali quali ministro dell’Interno - e cioè il cosiddetto covo di via dei Volsci. Il Sismi mi passò un’informativa che si affermava originata dalla “stazione” di Beirut, alias dal colonnello dei carabinieri Giovannone, l’“uomo” di Aldo Moro, secondo la quale una determinata organizzazione della resistenza palestinese, l’Fplp, rivendicava la proprietà dei due missili, non destinati all’Italia. In realtà non fu difficile a me e al sottosegretario alle informazioni e alla sicurezza, on. Mazzola, comprendere che i dirigenti del Sismi ci nascondevano qualcosa”.
Ecco il perno di tutta la questione: “Vi fu un burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi, ed alla fine mi fu detta la verità e mi fu esibito un documento trasmesso dalla nostra “stazione”: un telegramma del capo dell’Fplp a me indirizzato in cui, con il tono di chi si sente offeso per l’atto che ritiene compiuto in violazione di precedenti accordi, mi contestava il sequestro dei due missili e ne richiedeva la restituzione, insieme alla liberazione del “compagno” Pifano! Si trattava, evidentemente, di uno dei fatti legati all’accordo, mai dimostrato per tabulas, ma notorio, stipulato sulla parola tra la resistenza e il terrorismo palestinese da una parte e dal governo italiano dall’altra, quando era per la prima volta presidente del Consiglio dei ministri l’on. Aldo Moro, al fine di tenere l’Italia al riparo dagli atti terroristici di quelle organizzazioni”.

La fedeltà dei servizi agli “accordi Moro”
E ancora: “La totale fedeltà e conseguente riservatezza che i collaboratori sia del ministro degli Esteri sia del Sifar (poi Sismi) di Aldo Moro nutrivano per lui, impedì sempre a me, benché “autoritariamente curioso”, di sapere alcunché di più preciso sia da ministro dell’Interno che da presidente del Consiglio dei ministri e da presidente della Repubblica.
“Un altro degli episodi legati all’accordo è la distruzione da parte dei servizi segreti israeliani dell’aereo militare Argo 16 [nome in codice del bimotore Dakota Dc3 del servizio segreto militare precipitato nei pressi di Marghera il 23 novembre 1973, provocando la morte dei quattro membri dell’equipaggio: il colonnello dell'Aeronautica, Anano Borreo, il tenente colonnello Mario Grande, i marescialli Francesco Bernardini e Aldo Schiavone, ndr] in dotazione al Sid, come ritorsione alla “esfiltrazione” di cinque terroristi palestinesi arrestati in quanto avevano tentato di abbattere con missili terra-aria un aereo civile israeliano in partenza da Fiumicino. “Esfiltrazione” o “fuga agevolata” operata da agenti del nostro servizio, naturalmente d’accordo con la magistratura che, giustamente, talvolta fa eccezioni al principio dell’esercizio dell’azione penale e della obbligatorietà teorica dei provvedimenti limitativi che dovrebbero discenderne”.

“… esplosivo dai palestinesi”
“Rimane il dubbio grave” prosegue Cossiga, “e fu la prima ipotesi investigativa presa inizialmente in seria considerazione anche dalla Procura della Repubblica di Bologna, che si sia trattato di un atto di terrorismo arabo o della fortuita deflagrazione di una o più valigie di esplosivo trasportato da palestinesi, che si credevano garantiti dall’“accordo Moro”. Questo spiega perché ufficiali del Sismi, ente sempre fedele all’accordo e leale verso perfino la memoria di Aldo Moro, tentarono il depistaggio verso esponenti, credo, neonazisti del terrorismo tedesco, e per questo furono condannati.
“Le carte raccolte dalla Commissione Mitrokhin a mio avviso potrebbero costituire valida base per la revisione del processo che portò alla condanna della Mambro e del Fioravanti, difesi presso di me da esponenti della Brigate rosse che teorizzarono il perché i due non potessero essere che innocenti”.

“Panzane” che danno fastidio
L’intervento di Cossiga, combinato con i tanti elementi messi a disposizione per ricomporre in modo corretto il mosaico sull’attentato del 2 agosto 1980, ha provocato - come dicevamo in apertura - una serie di interventi tanto violenti quanto inquietanti. Paolo Bolognesi, presidente da anni dell’Associazione di familiari delle vittime della strage, si è scagliato contro “ogni tentativo di manipolazione”, di “occultamento della verità”, bollando i fatti da noi illustrati come “panzane”. Questo signore, con toni così rabbiosi da risultare imbarazzanti, se l’è presa un po’ con tutti, sparando nel mucchio: “Le nuove piste non sono altro che l’insieme di vecchi depistaggi tirati fuori dal presidente Cossiga e dalla Commissione Mitrokhin, una commissione parlamentare che mesta nel torbido per confondere le acque”.
E, rivolgendosi a Cossiga come fosse un avanzo di galera, ha detto che “sarebbe ora che spiegasse come mai si è circondato, nei momenti più delicati della vita politica italiana, di piduisti. Sarebbe ora che rendesse pubblico il motivo della grande attenzione che lo porta, sempre, a sponsorizzare i pluriomicidi Mambro e Fioravanti”. Altre inaudite parole al vetriolo sono state indirizzate al ministro della Giustizia Roberto Castelli per i benefici premiali di cui godono gli esecutori materiali della strage (libertà condizionale, ndr), ma anche all’ex ministro Maurizio Gasparri, reo di “essersi impegnato personalmente per bloccare l’emissione di un francobollo celebrativo del 25° anniversario” e “non a caso ha utilizzato un’intervista per difendere i vecchi camerati Mambro e Fioravanti e perorare atti di clemenza, seguito dal collega di partito Gianni Alemanno”.
Libero Mancuso, oggi presidente della Corte d’Assise di Bologna e collaboratore della Commissione Mitrokhin, ha dichiarato: “Vedendo come oggi ci siano ancora vecchi fantasmi del passato che tentano di creare polveroni per ingannare il Paese” e come si tratti di iniziative fatte “da parte di chi ha avuto responsabilità massime, capiamo che c’è qualcosa di irrisolto che merita di essere conosciuto”. Mancuso, intervenendo ad una conferenza stampa di presentazione di “Politicamente scorretto”, in programma a Casalecchio di Reno dal 21 al 23 ottobre, ha aggiunto che “l’ipotesi della pista libica, rispolverata in questi giorni, era già emersa durante una intervista rilasciata da Cossiga a Paolo Guzzanti (allora giornalista, oggi parlamentare e presidente della Commissione Mitrokhin, ndr). Subito dopo abbiamo sentito Guzzanti ed un altro teste e fu da loro stessi detto che si trattava solo di un pensiero. Non c’era nulla che potesse avvalorare la tesi”. Bene, ma che c’entra la pista libica? Chi ne ha parlato? Che nesso avrebbe con le minacce di ritorsione da parte dell’Fplp e della conseguente operazione compiuta a Bologna dal gruppo Carlos? Un altro cristallino esempio di correttezza nell’esporre fatti e circostanze… “Stupisce” ha replicato Fragalà, “che l’ex pm Mancuso oggi si spinga a parlare di “fantasmi che emergono dal passato” e di “intreccio perverso e oscuro”, rispetto alle nuove circostanze sulla base dei documenti di recente acquisiti dall’organismo parlamentare. Visto che Libero Mancuso è un consulente della Commissione Mitrokhin, dobbiamo ritenere che egli non legga la documentazione che è anche a sua disposizione”.

La prova che non furono i fascisti
Ma la replica più eloquente alle parole di Mancuso è sempre quella di Francesco Cossiga: “In uno stato costituzionale delle libertà e in un vero Stato di diritto in cui esistesse una magistratura decente a 360 gradi, il veterocomunista Libero Mancuso da quel dì non ne avrebbe più fatto parte. Su Libero Mancuso il giudizio definitivo è stato dato da Giovanni Falcone nella sentenza in cui, da giudice istruttore, ha prosciolto Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Certo è che Libero Mancuso è la causa oggettiva e forse, anche involontariamente, volontaria del linciaggio morale fatto da magistrati democratici e dai giuristi democratici contro Giovanni Falcone. Mancuso è uno di quei giuristi democratici allievi del più valoroso Luciano Violante, su cui ha scritto parole definitive l’ex senatore comunista e presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino. Giuristi i quali sono della tesi che la giustizia ha fini etici e storici, e che non è vera giustizia se non ha il fine metapolitico che si identifica con la verità della propria parte politica. E per cui, ciò che è utile al partito sia o sia stato, deve essere stato e deve essere, e per ciò semplicemente è stato ed è”.
“La prova definitiva del fatto che non furono i fascisti (e perché mai avrebbero dovuto esserlo) a effettuare la strage di Bologna” prosegue l’ex capo dello Stato, “è il giudizio di colui che per il povero popolo bolognese è presidente di della Corte d’Assise di quella città. Anche queste cose accadono in Italia: che Libero Mancuso possa diventare presidente di una Corte d’Assise. Per me, democratico e antifascista garantista e per lo Stato di diritto, vale un altro principio: ciò che Libero Mancuso dice non deve essere e non può esser vero e quindi è falso”. Libero Mancuso è stato, dal 1980 al 1994, il pubblico ministero dell’inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna… “Mancuso sappia comunque” conclude Cossiga, “che egli dai tempi dell’imbroglio che fu la causa dell’inizio dell’aggressione morale a Giovanni Falcone gode della mia piena e completa disistima: come uomo e ancor più come magistrato. Quello che spero è che l’ex socialista e oggi forzitaliota leghista vice presidente del Consiglio, Giulio Tremonti, abbia domani [l’intervento del presidente emerito della Repubblica è del 1° agosto scorso, vigilia della manifestazione organizzata a Bologna per commemorare i venticinque anni dalla strage, ndr] il coraggio e l’abilità di lasciare il palco della triste manifestazione per la dolorosa strage di Bologna, resa ancor più triste per le speculazioni politiche che su di essa sono state fatte, allontanando la verità, quando i “professionisti del dolore” inveiranno come sempre contro i mandanti d’assassinio che si chiamano Giulio Andreotti e Francesco Cossiga”.
In effetti, Tremonti, in qualità di rappresentante del governo, è salito sul palco per le commemorazioni di rito ed è stato fatto oggetto, come sempre, dei fischi e delle pernacchie della piazza. Ma, da gentleman qual è, non ha lasciato il palco, limitandosi a dire “che bella piazza…”.

L’alibi del segreto di Stato
Come ogni anno, poi, è stato il momento del tormentone sul segreto di Stato e di tutte le bizzarre teorie per abolirlo, nella speranza di aprire, finalmente, quella fantomatica cassaforte che contiene tutte le verità sui misteri d’Italia. Uno dei primi a rievocare lo spettro del segreto di Stato è stato Giorgio Bocca sulle colonne de La Repubblica. Anche qui, parole in libertà condite al vetriolo “il segreto di Stato di cui da tempo si chiede l’abolizione non consente che si faccia piena luce, censure, depistaggi, deviazioni fatti da apparati dello Stato, muri di gomma ieri come oggi continuano. In più si sono aggiunte le false verità, le confusioni non casuali e le voglie di protagonismo di personaggi come un ex presidente della Repubblica, le ambiguità di commissioni d’inchiesta come la Mitrokhin”. False verità e confusioni non casuali, scrive Bocca, il quale finalmente svela qual è il suo metodo di lavoro: scrivere prima di documentarsi. Uno dei padri del giornalismo italiano… Poi, sempre nello stesso articolo, cita gli elementi di prova che inchioderebbero i fascisti nella strage di Bologna: “Le letture di questi terroristi sono le opere razziste di Evola e del prenazismo di von Salomon, le cronache dei Frei Korps, i volontari che alla fine della Prima guerra mondiale continuano a difendere i confini orientali del Reich. I proscritti di von Salomon e la Rivolta contro il mondo moderno di Evola sono i libri che il filosofo Paolo Signoretti, uno degli indagati per la strage di Bologna, porta nel suo zaino”… peccato che il nome del “filosofo” citato da Bocca sia Paolo Signorelli, e non Signoretti.

Cia, neofascisti, massoni e servizi deviati
Ma il vero paradosso lo ha rappresentato e messo in scena da leader dell’Unione, Romano Prodi, il quale ha rilanciato l’idea di eliminare il segreto di Stato per far luce sulle stragi e sui misteri d’Italia. Anche qui, l’intervento di Cossiga, ancora una volta chiamato indirettamente in causa durante la manifestazione di Bologna del 2 agosto, è stato eloquente: “Dopo aver sentito che egli ritiene, insieme ai professionisti del dolore, che i governi precedenti al suo abbiano posto il segreto di Stato a notizie relative alla strage di Bologna, e che se opposto fosse stato, egli che per disgrazia del Paese è stato presidente del Consiglio avrebbe potuto toglierlo, debbo qualificarlo come un perfetto cialtrone”. La questione, d’altra parte, era stata già definita nell’agosto del 1998 dallo stesso senatore Giovanni Pellegrino, all’epoca presidente della Commissione stragi, il quale spiegò che sia su Ustica sia sulla strage di Bologna la Commissione da lui presieduta non si è mai trovata di fronte all’imposizione del segreto di Stato.
Per Valter Bielli, capo gruppo Ds in Commissione Mitrokhin, “la Commissione vuol far passare l’idea che la destra non ha mai avuto nulla a che fare con le stragi, e che i neofascisti come Mambro e Fioravanti non c’entrano con Bologna”. In una intervista sull’argomento pubblicata dal settimanale Avvenimenti e raccolta dal giornalista Giulietto Chiesa, anche lui con un passato da collaboratore della Commissione Mitrokhin, Bielli afferma che sarebbe in atto “un tentativo di accreditare una pista, quella palestinese, già battuta da chi indagò sulla strage di Bologna e poi abbandonata perché priva di ogni riscontro, per scagionare neofascisti, massoni e servizi deviati”. Sempre secondo il deputato diessino, “dalle loro ricostruzioni è scomparsa la Cia e il suo ruolo nella storia del nostro Paese. Ma, soprattutto, è stata cancellata la P2”. È il 20 luglio quando le agenzie battono le anticipazioni dell’intervista di Bielli su Avvenimenti: lo stesso giorno della conferenza stampa di Area a Montecitorio. Timing perfetto. Bielli ha, infine, annunciato “una relazione documentata sulla questione” che sarà presentata a settembre “al fine di fare chiarezza e smentire insinuazioni e false piste”.
Bene, passiamo ai fatti.

Quei due tedeschi a Bologna il 2 agosto
Il 1° agosto 1980, Thomas Kram, militante di spicco della Cellule rivoluzionarie e inserito nel quadro di vertice del gruppo Carlos prende alloggio poco dopo la mezzanotte nell’Albergo Centrale di Bologna, per poi sparire dalla circolazione la mattina del 2 agosto: il giorno dell’attentato. La segnalazione della presenza di Kram a Bologna alla vigilia dell’attentato venne fatta nel marzo del 2001 dal capo della Polizia Gianni De Gennaro alla Questura di Bologna la quale, attraverso una puntuale investigazione da parte della locale Digos, riuscì a ritrovare anche il registro delle presenze dell’Albergo Centrale con la registrazione del nome e dei dati anagrafici del terrorista tedesco.
L’iniziativa del capo della Polizia faceva seguito ad una richiesta di collaborazione giudiziaria internazionale avanzata dalla Procura generale di Germania la quale - nel dicembre del 2000 - aveva spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Thomas Kram, qualificato negli atti giudiziari come grande esperto di esplosivi. Secondo le autorità tedesche, infatti, il militante delle Cellule rivoluzionarie si nascondeva nel nostro Paese ed era in contatto con altri elementi di primo piano del terrorismo internazionale. Da informazioni della polizia tedesca, Kram era in stretto contatto soprattutto con Christa-Margot Fröhlich, l’altra esponente delle Cellule rivoluzionarie legata a doppio filo al gruppo Carlos.
Come ha rivelato Enzo Raisi, deputato di An di Bologna in un’intervista al Secolo d’Italia del 3 agosto scorso, un dipendente dell’Hotel Jolly di Bologna, situato proprio di fronte alla stazione, riconobbe nelle fotografie della terrorista tedesca, arrestata il 18 giugno del 1982 all’aeroporto di Fiumicino con una valigia carica di esplosivo, poi risultato compatibile con quello utilizzato per l’attentato alla stazione centrale di Bologna, la giovane donna che conobbe nel pomeriggio del 1° agosto proprio all’Hotel Jolly e che rivide la mattina del giorno seguente. La donna, a detta di questo testimone che fece mettere a verbale i suoi ricordi dalla polizia, poco dopo l’esplosione la sentì parlare al telefono in tedesco con toni euforici. E in un secondo momento, rivolgendosi a lui in un italiano stentato, voleva sapere che danni aveva subito il treno colpito dall’onda d’urto. La tedesca avrebbe fatto riferimento anche ad una valigia lasciata al deposito bagagli della stazione. Se fosse confermata questa circostanza, soprattutto se fosse confermata la versione fornita agli inquirenti da questo signore dell’Hotel Jolly, si potrebbe dire risolta la meccanica dell’attentato.
Prove inconfutabili
“A distanza di tanti anni, l’unica cosa di cui l’Italia ha bisogno è la verità e se sarà confermato che quel giorno alla stazione c’erano due terroristi tedeschi legati al gruppo sanguinario e violento di Carlos” ha commentato l’avvocato Alessandro Pellegrini del Foro di Bologna, difensore di Luigi Ciavardini (vedi box in alto), Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, “allora questa è la prima, vera e inconfutabile prova che dimostra la presenza di terroristi a Bologna quel 2 agosto di 25 anni fa e che finalmente dimostra che Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini non erano lì”. E aggiunge: “Non ho ancora avuto modo di leggere ed esaminare la documentazione in questione che ora è stata acquisita dalla Commissione Mitrokhin e in cui sarebbe dimostrata la presenza dei due terroristi a Bologna, attraverso la scheda di registrazione in un albergo della città, ma se questa cosa fosse vera allora si può parlare di conseguenze veramente rilevanti dal punto di vista probatorio. Se ciò che è contenuto in quella documentazione sarà confermato” ribadisce Pellegrini, “non si potrà certo parlare di pura casualità riguardo la presenza dei terroristi quel giorno, in quelle ore, e allora la magistratura italiana dovrà prendere atto degli errori commessi e comportarsi di conseguenza”.
Sul punto è intervenuto anche il senatore Lucio Malan, vice presidente del gruppo di Forza Italia al Senato e membro della Commissione Mitrokhin, il quale ha affermato che “alla ripresa dei lavori parlamentari, la Commissione dovrà decidere cosa fare dei documenti in nostro possesso che riguardano la strage di Bologna del 2 agosto 1980”. A fronte della “scarsa consistenza dell’impianto accusatorio che ha portato alla condanna dei presunti colpevoli, emerge un insieme di fatti e indizi che vanno in tutt’altra direzione, dai servizi segreti della Germania comunista, dal palestinese filosovietico George Habbash, al terrorista Carlos. Qui non si tratta di difendere la reputazione di Mambro e Fioravanti, che di altri crimini hanno ammesso la responsabilità, ma di sapere la verità e perché in così tanti hanno lavorato per nasconderla. In sede di commemorazioni, la verità dovrebbe essere più interessante di ogni altra cosa. Purtroppo quanto sta emergendo è scomodo a troppi, specialmente di questi tempi”.

Le menzogne di Saleh al Manifesto
E in effetti, quello che sta emergendo è scomodo a molti. Tanto che Abu Anzeh Saleh, il rappresentante dell’Fplp arrestato nel novembre del 1979 per la vicenda del traffico dei lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica di Ortona e che portò in galera anche i tre autonomi romani legati alla resistenza palestinese, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, dopo un quarto di secolo è uscito allo scoperto e ha rilasciato una curiosa intervista al Manifesto e pubblicata giovedì 4 agosto. Altra curiosità, il cittadino giordano di origini palestinesi (che da anni vive a Damasco, in Siria) è riapparso insieme a Pifano, anche lui da anni protetto da un’impenetrabile coltre di silenzio, per smentire ogni coinvolgimento nelle vicende collegate alla strage di Bologna. L’intervista congiunta ha svelato ben poco, se non vaghi accenni ad una visita dei nostri agenti segreti a Saleh in carcere i quali gli avrebbero offerto la “liberazione anticipata”, con l’idea di allontanarlo il prima possibile dall’epicentro di quel pasticcio internazionale. Ma un dato ci ha colpiti: nell’articolo si dice che Saleh sarebbe uscito dal carcere nel 1983, “con i tre autonomi italiani” e che il giordano, nonostante le promesse della nostra intelligence, rifiutò, dicendo che sarebbe uscito dal carcere “solo insieme ai compagni italiani”. Tutto falso.
Condannato in primo grado a sette anni di reclusione per detenzione e porto di armi da guerra, Saleh ottenne effettivamente la liberazione anticipata che, mentendo, ha detto di aver rifiutato. Venne scarcerato dal penitenziario di Rebibbia, infatti, il 14 agosto 1981 per scadenza dei termini di custodia preventiva, mentre gli altri imputati (Pifano, Baumgartner e Nieri) rimasero dietro le sbarre fino al 1983, proprio l’anno in cui il giordano dell’Fplp legato al gruppo Carlos fece perdere le proprie tracce, rendendosi irreperibile alle forze di polizia. Ancora una volta, un maldestro tentativo di occultare la verità. Perché tutte queste menzogne? Ironia della sorte, il titolo dell’intervista a Saleh e Pifano è “La pista palestinese? È frutto solo di invenzioni e bugie”…

Elementi per riaprire il caso
Per Daniele Capezzone, segretario dei Radicali italiani, “in troppi e troppe volte si è scelto di adeguarsi sui teoremi, sulle verità precostituite, sulle presunte “certezze” (per nulla “certe”, peraltro). Mi auguro che tutto questo, prima o poi, finisca. È ora, insomma, che la pietà per le vittime di un crudele attentato e il giusto desiderio di verità si facciano largo. Spero che finisca il linciaggio contro Mambro e Fioravanti: hanno riconosciuto molte colpe, ma non questa. Quel che importa è che tanti fatti (vecchi e nuovi), oltre che tante opinioni autorevoli (una per tutte, quella di Giovanni Pellegrino), suggerirebbero di ricominciare con la ricerca della verità, senza adagiarsi sui teoremi. Quindi non c’è alcun motivo per alimentare una campagna di ostilità e, lo ripeto, di non verità, di cui nessuna persona con la testa sulle spalle avverte l’esigenza. E ci sono invece” conclude Capezzone, “molte ragioni per prendere in esame gli ulteriori elementi di fatto che chiedono (e in un Paese normale imporrebbero) di riaprire il caso”. Come ha accennato Capezzone, Giovanni Pellegrino, oggi presidente della Provincia di Lecce, ha ricordato i dubbi che all’epoca, come presidente della Commissione stragi, provò a sollevare proprio sulla pista nera per la strage di Bologna. Dubbi ai quali “l’Associazione dei familiari delle vittime si oppose. Per loro, così come per molti politici, la necessità di far luce sull’attentato non può e non deve metterne in discussione la matrice neofascista”.
Anche i deputati bolognesi Enzo Raisi di An e Fabio Garagnani di Forza Italia hanno rilanciato, sulla base degli elementi messi a disposizione da Area, la riapertura dell’inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980. “I palestinesi” ha sottolineato Raisi, “avevano a Bologna un deposito di armi e su Bologna, secondo alcune testimonianze, gravitava lo stesso Carlos”. A decidere sull’eventuale revisione del processo deve essere la magistratura - hanno dichiarato i due parlamentari - ma ci sono elementi per riaprire le indagini”.
Da parte sua, Garagnani ha aggiunto che “invece di definire questo il periodo più difficile perché è stata approvata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario, come ha fatto nei giorni scorsi, il procuratore di Bologna Enrico Di Nicola farebbe meglio a motivare la propria volontà di riapertura o di non riapertura dell’inchiesta”. Garagnani si è detto personalmente convinto anche di un “ruolo oscuro” del Kgb: “Il modo migliore per onorare le vittime è cercare la verità sulla strage, una verità sulla quale la cultura preponderante di sinistra ha impedito di far luce”.