Gli anniversari degli eccidi più feroci diventavano, in quegli anni allucinanti, altrettanti regolari appuntamenti con la morte. Era già successo a Milano, con Enrico Pedenovi ucciso ad un anno dalla morte di Sergio Ramelli. Così, anche il 10 gennaio 1979, ad un anno dalla strage di via Acca Larentia, per Roma è una giornata di terrore e per i camerati un'altra giornata di lutto. Lo scenario è quello della repressione: ogni manifestazione è vietata, tutte le sezioni sono blindate e i responsabili "diffidati". La sinistra mobilitata in presidi armati contro "le provocazioni".
I giovani di destra impediti a manifestare si ritrovano in cortei spontanei che cercano di convergere su via Acca Larentia. La Questura interviene, come sempre quando si tratta di manifestazioni di destra, in maniera pesantissima. Ne nascono scontri, tafferugli, inseguimenti. Durante uno di questi uno studente del Fronte, Alberto Giaquinto, 17 anni, viene colpito alla testa da un proiettile esploso, a distanza ravvicinata, da un agente in borghese: Alessio Speranza. E qui inizia il giallo infamante che, chi ha vissuto quegli anni, ricorderà benissimo.
La sera il telegiornale della Rai enfatizza gli scontri, esattamente con la stessa energia con la quale minimizzava le violenze di sinistra, dando ampio risalto alle immagini di un'insegna della Democrazia Cristiana bruciata... Quindi riferisce che "uno degli assaltatori" della sezione DC, armato di pistola, era stato affrontato da un agente di polizia che lo aveva colpito, ovviamente per legittima difesa. Le parole del commentatore sono accompagnate da un filmato del luogo in cui Giaquinto è stato colpito e la telecamera si sofferma anche su una pistola di grosso calibro lasciata a terra. "Questa è l'arma che impugnava il missino" affermano i solerti giornalisti cui non sembra vero di poter additare al pubblico la "violenza fascista".
Ma quella non era la verità. Giaquinto non era armato e non stava assalendo nessuno. Per anni la famiglia, gli avvocati, il partito, nonostante le potenti omertà e le coperture conniventi, denunciarono i responsabili di quello che appariva un autentico omicidio. Solo al processo, alcuni anni dopo, venne fuori la verità. Si scoprì che, contrariamente a quanto affermato nei verbali, Alberto Giaquinto non era stato colpito alla fronte, bensì alla nuca, quindi mentre fuggiva e non mentre attaccava. Ma soprattutto che fine aveva fatto la famosa pistola, mostrata nel filmato del telegiornale, quella che secondo la polizia Giaquinto impugnava? Sparita. Mai esistita. In realtà era stata messa lì, a terra, da un funzionario della Digos, per far ricadere le colpe sul giovane missino.
A tale proposito vi è anche la testimonianza di un militante di Democrazia Proletaria, che assistette all'omicidio: "Poi ho sentito lo sparo ed ho visto un ragazzo a terra. Stava morendo, ma quei tipi hanno allontanato tutti i cittadini che volevano portargli soccorso; lo hanno lasciato sul selciato per più di venti minuti scosso come da brividi di freddo. Ricordo come tremasse quel corpo. Non aveva pistole né vicino né lontano da lui, quel ragazzo non aveva fatto niente per morire così!".
La vicenda si è conclusa con una mite condanna dell'agente killer e dei funzionari complici. Rimane comunque emblematica delle responsabilità degli organi dello Stato nel creare una "strategia del terrore" a senso unico, rivolta sempre e solo contro la destra, per compiacere il nuovo padrone: il PCI.
L'IDEALE,LA LOTTA,LA VOGLIA DI CAMBIARE...ERAVATE IN POCHI,ORA SIAMO LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI.