martedì 29 ottobre 2013

L’ultimo sorriso di Mario Zicchieri

Mario Zicchieri era un ragazzo di sedici anni che fu assassinato 37 anni fa, nel quartiere Prenestino a Roma, da un commando di terroristi vicini alle Brigate Rosse. Oggi avrebbe 53 anni, se quel 29 ottobre fosse scampato all’agguato davanti alla sezione del Msi del popolare quartiere. Per il suo omicidio non è mai stato punito nessuno. I brigatisti rossi Morucci, Seghetti e Maccari, indicati come coinvolti nella vicenda da un pentito nel 1982, sono stati assolti in appello. E così la morte di “Cremino” è rimasta impunita, come per tanti, troppi, giovani attivisti missini degli anni ‘70: Angelo Mancia, Paolo Di Nella, Francesco Cecchin… Erano morti di serie B, hanno accusato in questi anni i familiari di Zicchieri, e non valeva la pena indagare troppo a fondo. Forse è così, perché in quegli anni era vero che uccidere un fascista non era reato. Anzi, per qualcuno, anche un titolo di merito. Sì, perché quegli anni non furono affatto formidabili, ma terribili: quando i terroristi dell’estrema sinistra avevano il loro battesimo del fuoco sparando su inermi ragazzi davanti alle sezioni dei “nemici”, come accadde ad Acca Larentia, in via Zabarella a Padova, al Prenestino, vuol dire che si sono persi di vista tutti i punti di riferimento politici, morali e sociali. 

Era come se una gigantesca ubriacatura si fosse impadronita delle frange estreme della sinistra, che nel suo delirio coinvolgeva anche fasce di giovani tendenzialmente più moderati. Ma allora l’antifascismo era un collante che funzionava sempre, specie se condito col furore quasi religioso di chi crede solo alla sua ragione. E allora attentati, manifestazioni, assalti, agguati, colpi di pistola e di mitra, bombe contro coloro che erano dipinti come l’incarnazione del male, gli esponenti del Msi. E l’odio diventava tanto più cieco quando i militanti missini, come nel caso del quartiere Prenestino, non accennavano a mollare, persistendo nella loro permanenza fisica e nell’attività politica e sociale in una zona che per definizione doveva essere “rossa”. Non piaceva a chi controllava il territorio: i “fascisti” dovevano sparire, soprattutto se stavano facendo un buon lavoro.


E quel giorno i terroristi decisero di colpire: spararono con fucili a canne mozze ai tre giovanissimi che stavano davanti alla sezione di via Gattamelata. Claudio Lombardi era uno di questi giovani, che insieme ai suoi coetanei Mario Zicchieri e Marco Luchetti stava presidiando la sede in attesa che fosse ripristinata la porta blindata fatta saltare in un attentato avvenuto pochi giorni prima. Dentro i locali c’era un operaio che stava ripristinando una grata interna dalla quale ignoti avevano tentato di entrare la notte precedente. «Sì, mi ricordo ancora tutto di quel pomeriggio – racconta Claudio Lombardi in procinto di andare alla commemorazione per Mario che ogni anno si svolge al Prenestino – Eravamo solo noi tre, che stavamo aspettando il fabbro per rimontare il portone. 

Oggi stupisce pensare che per fare attività politica ci fosse bisogno di una porta blindata, ma allora le cose andavano così: ci venivano a cercare per eliminarci fisicamente di notte e di giorno, la sera spesso non potevamo rientrare in casa perché ci aspettavano, la sede era oggetto di attentati frequentissimi – ricorda Lombardi – E non solo la sede veniva colpita, ma anche le case, le automobili, gli esercizi commerciali degli iscritti al Msi o dei frequentatori della sezione, come sa bene il ferramenta all’angolo…». 

Ma quel 29 ottobre, secondo una strategia che secondo Lombardi era pianificata, lo scontro si sarebbe dovuto alzare di livello: «Saranno state le cinque, io ero al centro davanti la porta, Marco Luchetti alla mia destra appoggiato all’ingresso e Mario Zicchieri alla mia sinistra. Arrivò questa 128 chiara e ne scesero due persone che indossavano un trench, con scoppole e occhiali da sole. Scesero, estrassero i fucili e si apprestarono a sparare. Sono vivo soltanto perché ci sottoposero a un fuoco incrociato: ossia ognuno sparava in diagonale, con il risultato che Mario e Marco vennero colpiti in pieno, mentre io mi salvai tuffandomi letteralmente dentro i locali della sezione». 

E continua: «Mentre ero per terra sentii sette od otto boati fortissimi, i colpi dei fucili, poi entrò Marco massacrato di pallettoni, perdeva moltissimo sangue, tanto che un poliziotto in borghese si sfilò la cintura per fermare l’emorragia alle gambe. Io uscii, in stato di choc, vidi Mario per terra colpito al basso ventre, mi chinai su di lui, gli presi la mano… ricordo solo, e lo ricorderò per tutta la vita, che sorrideva e scuoteva la testa come per dire “no, no”… Forse voleva rassicurarmi che stava bene, che non gli avevano fatto niente, non saprei dirlo. Ricordo solo quel sorriso dolce…». 

Lombardi fermò immediatamente una macchina che passava per fare condurre i feriti all’ospedale. In capo a pochi minuti sul posto si radunarono centinaia di missini, tra cui lo stesso segretario della sezione Luigi D’Addio, forse il vero bersaglio dell’attentato, come è stato scritto in questi anni, ma nessuno potrà mai dirlo. «Eravamo tutto sconvolti», conclude. Dopo l’omicidio ci furono scontri, sia con la vicina sezione del Pci sia con la polizia, e la tensione rimase altissima per molti giorni nel quartiere.
Negli anni successivi la famiglia di Mario lottò con tutte le sue forze per conoscere la verità, per avere giustizia, ma mai chiedendo vendetta né odiando, nonostante le successive persecuzioni cui furono sottoposte la madre, che perse il posto di lavoro, e le giovani sorelle, che avevano 12 e 13 anni, che in seguito a questo dovettero addirittura cambiare scuola. Ma a oggi non c’è ancora chiarezza su questo e su altri omicidi politici, nonostanti  numerosi appelli della mamma agli esponenti delle Brigate Rosse affinché rivelassero una buona volta la verità su quella stagione di sangue e di odio. Erano morti di serie B i missini.

 Si sarebbero dovuti attendere 36 anni, ossia il 2011, prima che un’amministrazione, quella del sindaco Alemanno, decidesse di dedicare un giardino a Mario Zicchieri, al Pigneto, a meno di 200 metri da dove fu ammazzato. «Mario – aggiunge il suo antico amico – andava in palestra, era uno scout, frequentava la chiesa del Pigneto, si impegnava per gli altri, aveva il senso della comunità…». Ma soprattutto aveva 16 anni.

(da secoloditalia.it del 29/10/2012)

venerdì 25 ottobre 2013

Ernst Jünger, la vita lunga un secolo di un ribelle metafisico


Una vita lunga un secolo quella di Ernst Jünger, morto il 17 febbraio del 1998 poco prima di compiere 103 anni. Una vita interessante per un biografo attento come Heimo Schwilk (autore, anche, di una biografia di Hermann Hesse) perché Jünger è stato uomo d’azione e di lettere, scrittore e filosofo, “prussiano” e anarchico, tedesco e ribelle, e in fin dei conti testimone della complessità del Novecento. Un personaggio su cui fare una scommessa: i tempi neomistici che seguiranno all’attuale periodo di crisi dovranno per forza riscoprire Ernst Jünger. Ecco come Schwilk profetizza questo ritorno d’interesse: “La certezza jüngeriana della salvezza, la sua mistica dell’illuminazione profana indotta dalla flora e dalla fauna, la stereoscopia come fulminante compresenza di immanenza e trascendenza… tutto ciò non può non incontrare, prima o poi, l’interesse di una gioventù pronta a dedicare la propria attenzione ad un autore che ha sempre cercato di cogliere il meraviglioso, nel corso delle sue ‘escursioni nel bosco’ e dei suoi viaggi nel mondo”.
Le settecento pagine di Ernst Jünger, una vita lunga un secolo(Effatà editrice), si strutturano come una biografia classica, che segue un ordine cronologico e non tematico, e utilizza direttamente gli scritti jüngeriani (in particolare lettere e diari) per seguire il cammino del suo autore dai “ludi africani” fino al centesimo compleanno, in cui riceve tra i tanti anche gli auguri di François Mitterrand: “Jünger è un antico romano, orgoglioso e retto, imperturbabile”. A Wilflingen il vegliardo, passeggiando nei boschi, riflette sempre sugli stessi temi: Nietzsche, il titanismo, Spengler, la decadenza, il nichilismo e la metafisica, il futuro di distruzione del mondo, e ancora la spiritualità (il 26 settembre del 1996 si converte al cattolicesimo) e lo stupore per le aporìe dell’esistenza. Tutti temi che Jünger incontra già nell’infanzia, impegnato nelle escursioni con i Vandervogel o nei giochi attorno alla palude con il fratello Friedrich Georg o nella lettura notturna dell’Orlando Furioso ( a scuola era un allievo svogliato e distratto).
 È la tensione verso l’Oltre, in definitiva, che attira il suo spirito e lo rende così acuto, nello scandagliare la vita (passione che va di pari passo con quella per l’entomologia),  e che trasforma il suo sguardo in quello di un “illuminato”. E la sua vita è un “passaggio al bosco” da cui si esce rinfrancati, con le capacità visive aumentate dall’intensità dello sguardo interiore. “Chi va a trovare il vegliardo legge nei suoi occhi, disturbati da un velo acquoso, il cosiddetto corpo vitreo, che ne intensifica il tipico sguardo assente, che guarda ‘dentro’, cioè vede se stesso come in uno specchio. I movimenti del corpo, dei singoli arti, sono sotto controllo: Jünger stringe con forza la mano al visitatore. Si muove svelto, snello e magro com’è, a volte invece il suo passo è un po’ esitante, più cauto, e Liseolotte Jünger, che anche lei ha i suoi ottantuno anni, lo aiuta e lo sostiene oltre la soglia e per le scale”.
di Annalisa Terranova (secoloditalia.it)

mercoledì 23 ottobre 2013

Gli omosessuali, minoranza protetta ma intollerante

Gli omosessuali stanno diventando una minoranza – sempre che in questa società sia ancora tale -estremamente intollerante. Discriminati da sempre, oggi non lo sono più, occupano posizioni di potere in ogni settore e di alcuni, come quello della moda, hanno il monopolio. In Parlamento si discute se varare una legge che consenta loro di sposarsi. Com'è giusto che sia. 
Se due persone dello stesso sesso sono legate affettivamente o comunque convivono perchè non devono poter rendere giuridica la loro situazione? (Anche se una linea del genere, bisogna saperlo, puo' portare molto lontano. Esistono, come nell'anticipatore e splendido film di Truffaut, 'Jules et Jim', anche i 'triangoli' dove due uomini convivono con la stessa donna, la amano, ne sono riamati, mentre fra loro esiste una profonda amicizia. Perchè anche questa situazione, se i protagonisti lo desiderano, non dovrebbe essere regolata giuridicamente? Assisteremo quindi, in futuro, a matrimoni collettivi, fra eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali legati fra loro da amorosi sensi?). Gli omosessuali sono quindi cittadini a pari diritti, questo è pacifico. Ma non possono pretendere di averne più degli altri. 
Giorni fa Guido Barilla, patron dell'omonima azienda (quella, per intenderci, del 'Mulino Bianco') ha dichiarato in un'intervista che per lanciare i suoi prodotti non farà mai «uno spot con una famiglia gay, non per mancanza di rispetto ma perchè non la penso come loro». Apriti cielo. Sono insorti i gruppi omosessuali, Dario Fo, Claudio Magris. Ma qui il sessismo non c'entra nulla, è una questione commerciale. Il target del 'Mulino Bianco' è la famigliola tradizionale, pulitina, ordinatina, perfettina che tante volte è stata presa in giro per la sua banalità («cose da 'Mulino Bianco'»). 
Ma anche la banalità della normalità ha diritto di esistere, non meno dell'omosessualità, della bisessualità, della transessualità. Mi pare che Fulvio Scaglione di Famiglia Cristianaabbia centrato il punto: «La legge sull'omofobia è diventata, nella pratica e nella mente di molti, una legge contro l'eterofilia. C'è un industriale che a quanto pare non puo' fare pubblicità come vuole e per chi vuole». L'intolleranza degli omosessuali nei confronti di chiunque non li condivida si aggancia infatti anche alla recente legge sull'omofobia che si inserisce nella più ampia legge Mancino che punisce l'istigazione all'odio razziale, l'antisemitismo, la xenofobia. L'omofobia viene definita «come condotta basata sul pregiudizio e l'avversione nei confronti delle persone omosessuali, analoghe al razzismo, alla xenofobia, all'antisemitismo e al sessismo che si manifestano nella sfera pubblica e privata in forme diverse quali discorsi intrisi di odio».
 L'odio, come l'amore, la gelosia, l'invidia (motore quest'ultima, sia detto per incidens, del consumismo e quindi alla base del sistema liberista) è un sentimento e quindi, come tale, incomprimibile. Nessun regime, neanche il più totalitario, si era mai spinto fino a questo punto: a mettere le manette ai sentimenti (alle azioni e alle idee ovviamente, ma non ai sentimenti). In democrazia dovrebbero essere penalmente perseguite solo le azioni. Io ho il diritto di odiare chi mi pare. Ma se gli torco anche solo un capello devo finire dritto e di filato al gabbio. Se andiamo avanti di questo passo sul piano del 'politically correct' finirà che non potremo più dir nulla, solo parafrasare la Gazzetta Ufficiale. In ogni caso se oggi uno non appartiene a qualche minoranza protetta ma fa parte di quei quattro gatti della maggioranza è spacciato.
di Massimo Fini

Avanti ragazzi di Buda,Avanti ragazzi di Pest!


Il 23 Ottobre 1956, le scintille di libertà accesesi in Polonia,
infiammano la fiaccola della riscossa ungherese contro la durissima occupazione. Sono generose mani di studenti ad impugnare quella fiaccola.


A quei giovani, con un moto che si propaga spontaneo e fulmineo nella grande metropoli, si affiancano migliaia e migliaia di operai, impiegati, professionisti, anziani e persino bambini.


L'intera Budapest reclama che al Paese vengano restituite la dignità di nazione e l'indipendenza. Con sublime eroismo, il popolo si scaglia a contrastare l'avanzata dei carri armati sovietici: per il popolo d'Ungheria, infiammato dal magnifico Sogno della Libertà, la parola "resa" non ha alcun significato.

I cingoli dei carri armati bolscevichi, non potranno mai più cancellare la parola Libertà, che gli eroici figli d'Ungheria hanno scritto col loro sangue sul suolo della Patria.

martedì 22 ottobre 2013

La vera egemonia è quella di Gentile


Il suo pensiero influenza tuttora la filosofia italiana. Da lui Gramsci imparò l'importanza di organizzare la cultura 

Con Giovanni Gentile finì la grande filosofia italiana. Dopo di lui o non fu grande, o non fu vera filosofia, o non fu italiana. La grande filosofia italiana finì con lui. Dico la filosofia di Vico, e prima di Vico il pensiero di Bruno, Telesio e Campanella, dopo Vico di Rosmini e di Gioberti; ma anche la filosofia di Dante e di Leopardi.

Dopo Gentile la filosofia rielaborò il lutto della sua stessa morte, dopo averne decretato l'agonia e poi annunciato la sua scomparsa. Dopo Gentile l'idea che la filosofia ricercasse la verità e che anzi la verità stessa sgorgasse dal processo attivo del pensiero, scomparve del tutto: il pensiero della crisi disconobbe la verità e la sua ricerca.Dopo Gentile il pensiero non ebbe più fiducia in se stesso, si risolse nella razionale o irrazionale disperazione, variamente denominata, o si occupò dell'autopsia di se stesso, dell'analisi e della scomposizione dei saperi. Dopo Gentile la filosofia si occupò di linguaggi e procedure. Si negò alla verità, allo spirito e al pensiero assoluto (...)
Benedetto Croce esercitò nella prima metà del Novecento un'influenza che nemmeno Gentile ebbe nei suoi pur rilevanti ruoli pubblici. Croce fu chiaro e acuto scrittore di estetica e filosofia, lettere e storia, critico arguto e scopritore di autori, opere e talenti; assunse col tempo il ruolo inappuntabile di coscienza critica e maestro di libertà; ma la potenza del pensiero gentiliano non trova pari nel Novecento italiano, solo epigoni. Così Antonio Gramsci, fu acuto ideologo, lucido pensatore politico che ripassò la letteratura e la storia nella padella del marxismo militante, intellettuale di prim'ordine e sociologo della cultura e della storia, traduttore del marx-illuminismo in prassi politica e contesto nazionale. Ma non fu filosofo. O lo fu nel solco di Gentile, traducendo il materialismo di Marx in filosofia della prassi, tramite l'attualismo di Gentile. Gramsci rielaborò l'internazionalismo marxista in una filosofia d'impronta nazionale e popolare, da cui derivò l'italomarxismo. Ma la stessa conversione nazionale del marxismo avvenne all'ombra, rimossa e ingombrante, di Gentile. La filosofia della prassi ebbe in Gentile la matrice romantica e in Gramsci la versione neo-illuminista. La stessa idea gramsciana dell'intellettuale organico in cui coincidono cultura e politica - idea condivisa da Piero Gobetti - trova il suo riferimento più rigoroso in Gentile. E l'idea gramsciana, nucleo centrale del suo pensiero, che la conquista della società passi dalla conquista della cultura, fu anch'essa squisitamente gentiliana, non solo sul piano filosofico ma anche sul piano pratico, se si considera che quel progetto fu perseguito attraverso la riforma della scuola, l'organizzazione della cultura, l'enciclopedia italiana. L'idea gramsciana dell'egemonia culturale si situa tra la teoria e l'esperienza di Gentile e poi di Bottai; e deriva dall'interventismo culturale d'inizio secolo, il cosìddetto idealismo militante, più la lezione rivoluzionaria di Lenin a cui restò fedele.
Del resto, il fatto che Gentile abbia, nonostante l'Interdetto tuttora semi-vigente, figliato una vasta e spesso irriconoscente discendenza filosofica, che non ebbero né Croce né Gramsci né gli altri filosofi italiani del Novecento, dimostra la vitalità del pensiero gentiliano, soprattutto in partibus infidelium. Croce ebbe vasti estimatori, Gramsci ebbe molti seguaci politici, militanti di partito ed esegeti ideologici; ma né l'un né l'altro ebbero significativi filosofi che ne proseguirono e ne innovarono la teoria, e non solo perché ambedue non avevano cattedre e istituti con relativi allievi. Ma soprattutto perché l'una fu una grande visione della cultura nella storia e l'altra una grande cultura politica in funzione del Partito-Principe. Il maggior allievo di Gramsci, suo traduttore-traditore in politica, fu lo stesso Togliatti. Di Croce fu vasta l'ammirazione e l'influenza, piccola l'eredità filosofica, minuscola l'eredità politica, in un ramo dell'esile partito liberale. Tra le asprezze reciproche tra i due ne ricordiamo solo una, venata di tenerezza, di Gentile a Croce, del 1942: «Si calmi intanto: diamine, siamo due vecchi ormai, e i giovani ci guardano».
Come in un corpo coerente e tutto proteso all'unità, l'impianto teorico dell'attualismo si annoda alla filosofia civile, anzi si unisce nel nome di quella filosofia dell'identità che è l'impronta principale, e forse l'illusione maggiore, di Gentile. L'identità di pensiero e storia ha una matrice non solo idealistica e mazziniana, ma anche marxiana. La fecondità del pensiero gentiliano e la sua influenza si espressero in due versanti: la potenza teoretica dell'attualismo, unita a un atto di fiducia nell'assoluto del Pensiero, il cui grembo tutto contiene e risolve, la vita e il mondo, l'educazione e la politica, l'arte e la religione. E, l'altro versante, la forza persuasiva e pervasiva della sua filosofia civile che riannoda la storia e la filosofia italiana, l'arte, la letteratura e la religione, l'etica e l'educazione nazionale, cogliendo una linea coerente e vigorosa che si esprime in opere e atti, eventi storici e frutti spirituali (...)
Dell'idealismo il maggior continuatore-innovatore dell'idealismo hegeliano, non solo in Italia, fu Gentile, erede e originale come fu Plotino rispetto a Platone. Dopo di lui Hegel fu imbalsamato nella galleria dei filosofi estinti. O affisso a testa in giù nelle bacheche del marxismo, come esigeva il rovesciamento hegeliano proclamato dallo stesso Marx. Riconoscendo la forza filosofica del marxismo e cogliendone insieme la sua debolezza, il giovane Gentile capì sia l'imponenza filosofica del marxismo, che avrebbe poi pervaso il secolo, sia il suo inevitabile fallimento storico, perché il materialismo marxista fu soppiantato da un materialismo più coerente e nichilista, dissociato dalla tensione storica e ideale.
Non previde Gentile che quel materialismo globale alla fine avrebbe corroso anche lo spiritualismo politico, sconfitto lo Stato etico e travolto la dimensione nazionale. L'importanza della critica gentiliana a Marx non sfuggì a Lenin. Scrivendo il profilo di Marx, il giovane Gentile, fu l'unico filosofo vivente da lui citato. Lo scritto di Lenin risale al 1915 e fu pubblicato nel 1950 in Italia presso le edizioni di Rinascita. Ma il curatore dell'opera, Palmiro Togliatti, fece sparire il riferimento di Lenin a Gentile. Erano ormai lontani i tempi in cui Togliatti recensiva con attenzione su Ordine Nuovo l'opera gentiliana Guerra e fede (nel 1919); c'erano stati di mezzo la nascita del partito comunista, il fascismo, la guerra mondiale e la guerra civile.
di Marcello Veneziani (ilgiornale.it)

mercoledì 16 ottobre 2013

Il sonno della politica genera iene.


In un film del 1994, “Il branco”, il regista Marco Risi ha raccontato, prendendo spunto da un fatto di cronaca, lo stupro di due turiste tedesche avvenuto in una cittadina della provincia romana. La particolarità della pellicola è data dalla dimensione di surreale ferocia, di straniamento collettivo che a un certo punto assume la sevizia. All’iniziale gruppo di balordi, infatti, si accoda pian piano tutto il paese, in un gorgo infernale di assurdità. Lo stupro assume le dimensioni di una macabra festa paesana: c’è chi porta i panini con la porchetta e onesti padri di famiglia accorrono sul luogo del misfatto, per fare un giro di giostra o anche solo per presenziare all’evento, giocando a chi fa la battuta più crassa, la risata più sguaiata, senza che a nessuno venga in mente di alzare la mano e porre la benché minima obiezione, anzi con la certezza che se questo accadesse la reazione collettiva sarebbe di incredulità e irrisione.
Quello che è accaduto il 15 ottobre 2013 in Italia ha una dimensione simile. In un’allucinata gara a chi la sparava più grossa, a chi mostrava più zelo fanatico, a chi scendeva più in basso, abbiamo visto forze politiche, istituzionali e l’immancabile società civile assaltare un carro funebre. Ripetiamolo: assaltare un carro funebre. Questo dopo giorni di oltraggio al diritto e alla decenza, in cui ogni legge italiana è stata calpestata pur diimpedire funerale e sepoltura a un centenario appena deceduto. In serata, sull’onda di un’isteria collettiva, senza alcuna riflessione a mente fredda, sono stati introdotti anche in Italia i reati d’opinione. L’impressione, a ripensarci il giorno dopo, è che per 24 ore in Italia tutto sia stato possibile. Che se un senatore di Scelta Civica a un certo punto si fosse alzato in piedi e avesse proposto il sacrificio di tutti i primogeniti maschi nessuno, per non sbagliare, l’avrebbe contraddetto.
Le rare eccezioni di una seppur minima rilevanza politica, quelli che alzano la mano e si chiedono se il branco non stia forse esagerando, venendo inevitabilmente presi per scemi, sono per lo più di sinistra. Il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio, per esempio, dopo aver ricordato il nonno ucciso alle Fosse Ardeatine, ha dichiarato che “bisogna avere il coraggio di chiudere con umana pietà le vicende. La vicenda in vita di Priebke è quella che mi ha preoccupato e che io ho combattuto aspramente e senza sconti, da Kappler a Priebke. Non mi interessa l’accanimento su un cadavere. Penso che sia un errore che non fa bene neanche a chi ha in testa i valori della Resistenza e della Repubblica Italiana”. Anche Massimo Cacciari ha dichiarato che “è assurdo che il sindaco gli rifiuti una sepoltura” e che questo “è un dibattito macabro e perfino grottesco: siamo di fronte alla morte di un vecchio. Lo si seppellisca. Qui non è in discussione il pentimento e tantomeno il perdono. Priebke è morto, che Dio ne abbia misericordia”.
Mosche bianche. Ora, poi, abbiamo il reato di negazionismo (grazie anche al Pdl). Chi abbia un po’ di raziocinio capisce perfettamente che il punto non è il fatto storico che mi si impedisce di negare, ma l’impedimento in sé. Il diritto, finché è esistito, si è sempre basato sulla fredda oggettività formale: si tutelano le opinioni in sé, si garantisce il diritto alla sepoltura delle persone in quanto tali, a prescindere dall’opinione e dalla persona. Ora tutto è saltato.Capita, quando la politica è esautorata dai banchieri. È capitato negli anni ’90, capita oggi, capiterà sempre più spesso.
Ovviamente qualcuno potrebbe stupirsi che tutto questo avvenga oggi, nel 2013, quando il primo libro di revisionismo olocaustico (Le Mensonge d’Ulysse, di Paul Rassinier) risale al 1950 e quando Herbert Kappler, nel 1978, poteva essere non estradato dalla Germania dopo la rocambolesca fuga dall’Italia ed essere tranquillamente sepolto fra amici e parenti. Come accade, cioè, che più ci si allontana da quegli anni e più la vigilanza si fa pressante, ossessiva, poliziesca? La risposta è ovvia: perché c’è una crisi di legittimità.
Negli anni ’50 e ’60, per quanto i valori dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale fossero ritenuti sacri, il fascista faceva ancora parte del paesaggio antropologico naturale, senza che la cosa fosse sostanzialmente contestata. Nei film la camicia nera o il missino erano certo tromboni retorici e cialtroni patriottardi, ma in fondo ispiravano più simpatia che ripulsa. La stessa letteratura sull’Olocausto era per lo più affidata a riviste popolari che indugiavano sui particolari macabri, non diversamente da quanto oggi accade con il delitto di Avetrana. Ciò non impediva l’avvento di un genere cinematografico di dubbio gusto come il “nazisploitation”, con pellicole del calibro di “Ilsa, la belva delle SS” (1975). Oggi, per dire, anche un innocuo fumetto come “Sturmtruppen” avrebbe concrete difficoltà ad uscire, e non è una battuta.
Con il venir meno del legame sociale, con l’incapacità della classe politica di autolegittimarsi e con quella che Sergio Luzzatto ha definito “la crisi dell’antifascismo”, ciò che non è più spontaneo va imposto in modo poliziesco. Del resto è noto che inventare un’emergenza e un nemico alle porte è il modo migliore per serrare le fila e rinforzare il potere. Se tutto questo non esistesse, se con la morte di Priebke si chiudesse davvero la Seconda Guerra Mondiale, qualcuno dovrebbe cominciare a far politica, risolvere problemi, affrontare l’omicidio sociale della nazione. Se si tiene a mente questo e ci si immagina questi personaggi all’opera, si è quasi tentati di scusarli se nel frattempo cercano un diversivo.
 di Adriano Scianca (ilprimatonazionale.it)

venerdì 4 ottobre 2013

Torna l’accusa di filonazismo contro Jünger, Schmitt e Heidegger. Ma i tre pensatori non furono paladini della tirannide


Un recente intervento su Le Monde del filosofo francese Jean-Pierre Faye ha fatto riesplodere in Francia il dibattito sul rapporto tra intellettuali e nazismo. In particolare tre grandi pensatori del Novecento, irriducibili agli schemi progressisti, sono finiti sul banco degli imputati, replicando un “processo” che ciclicamente torna ad avere i più svariati pubblici ministeri: si tratta di Ernst Jünger, Carl Schmitt e Martin Heidegger. Scrittore visionario il primo, giurista il secondo, filosofo il terzo. Secondo Jean Pierre Faye il loro linguaggio avrebbe seminato il terreno sul quale sarebbe poi fiorita la retorica del nazionalsocialismo, con la sua carica di aggressività e violenza.
La parola “incriminata”, secondo Faye, è “decostruzione”. Usata da Heidegger nel 1955 sarebbe una sorta di embrionale preludio alla strategia dello sterminio. Una tesi che non convince per niente Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica ed ex ministro dei Beni culturali. Ornaghi, intervistato da Avvenire, spiega che individuare consonanze tra il pensiero dei tre e l’ideologia dominante è un gioco relativamente facile ma rappresenta un errore come sostenere “che lo Stato bolscevico proviene tutto dalla teoria di Marx”. Infatti, prosegue Ornaghi, “è molto difficile trovare un rapporto automatico o comunque deterministico tra i grandi pensatori e le ideologie, e quindi i regimi”.
Tra l’altro, nel caso di Jünger, è comprovata la sua ostilità al totalitarismo espressa nel romanzo Sulle scogliere di marmo(1939) e per il quale rischiò un processo per disfattismo bloccato per ordine di Hitler che intimò: “Lasciate Jünger tranquillo”. Nota è poi la reciproca diffidenza che si instaurò tra il regime nazista e Martin Heidegger, che già nel 1934 presentava le sue dimissioni da rettore dell’Università di Friburgo e veniva ripagato con una serrata vigilanza da parte degli apparati di sicurezza del Nsdap. Quanto a Carl Schmitt, contro di lui il partito nazista puntò l’indice accusatore nel 1937 con un rapporto riservato dell’ufficio diretto da Alfred Rosenberg che contestava la sua dottrina, troppo intrisa di “romanità”, criticava i suoi rapporti con la Chiesa cattolica e infine guardava con sospetto al suo presidenzialismo.
Si tratta di elementi già noti di un dibattito su intellettuali e nazismo che va avanti da mezzo secolo. Perché allora il tema torna? Perché in realtà i tre grandi pensatori di cui si è occupato Faye furono precisi e spietati interpreti della “crisi” e le tirannie del Novecento proprio in quella crisi misero radici e prosperarono. E tuttavia bisogna distinguere con onestà intellettuale tra la diagnosi della malattia e la scorciatoia intrapresa per curarla. E, per quanto riguarda la “diagnosi” (sia che si tratti della decadenza dell’Europa, di quella del diritto o dell’oscuramento dell’Essere) il trittico Jünger- Schmitt-Heidegger resta insuperato e ineludibile.
di Annalisa Terranova (secoloditalia.it)

martedì 1 ottobre 2013

Giampilieri,01 ottobre 2009

In ricordo delle vittime dell'alluvione di Giampilieri,che quattro anni fa,ci portò via 37 nostri fratelli.Tanto è stato fatto,ma ancora troppo c'è da fare.Una ferita ancora aperta che ha segnato profondamente la vita di un popolo.