mercoledì 5 giugno 2013

Caro Solinas, gli ultimi mohicani non sono pochi

Il patrimonio politico e culturale postfascista sembra disperso. Eppure è ancora attuale...


Al di là di quel che egli stesso pensa, Stenio Solinas ha molti compagni di solitudine e non solo tra gli scrittori degli anni Trenta.

A sentirsi ultimo dei mohicani, per citare il titolo del suo pamphlet in uscita, sono, o siamo, in tanti. Pochi rispetto al resto, tanti rispetto alla nostra solitudine.

Condividiamo i suoi giudizi e le sue amarezze, la lontananza con disgusto da questo presente, pur salvando ben poco di quel passato che ci vide giovani e che fu scandito in due epoche: l'epoca feroce che s'inaugurò alla fine degli anni Sessanta con il Sessantotto e che durò nel decennio seguente lungo gli anni di piombo, sanguigni e sanguinosi. E l'epoca leggera che cominciò col riflusso alla fine degli anni settanta e durò nel decennio successivo, consacrato agli yuppies e all'edonismo di massa. Poi avvenne da noi la seconda repubblica, quel concentrato di postmodernità, populismo televisivo e dissoluzione dei grandi racconti, in cui prevalse «l'estasi del presente» come la definisce Solinas, di cui fu re o reuccio Silvio Berlusconi. Un'epoca che strizzava l'occhio agli anni Sessanta, versione commedia all'italiana, e ai rampanti anni Ottanta, versione Drive in, Craxi e Reagan, ma si concentrava sul presente e sul privato, e si opponeva al settarismo giacobino o «comunista» della sinistra italiana con un sogno di felicità individuale di massa che poi non si realizzò. Nel triplice approdo la nave di Solinas si chiama generazione.
In queste tre epoche che abbiamo vissuto, da ragazzi, da giovani e da adulti, la destra è andata via via scemando, e forse il verbo scemare spiega meglio di ogni altro la parabola del suo leader. Ma insieme scomparve anche la risposta intellettuale e culturale a quella destra politica, passata dal piccolo nostalgismo impolitico-elettorale, al postfascismo fondato sull'Amnesia Nazionale, e poi dal berlusconismo opportunistico all'antiberlusconismo suicida. Mi riferisco alla Nuova Destra, di cui Solinas fu esponente di primo piano, che si perse nel caleidoscopio degli anni e la sua comunità partorì un arcipelago di solitudini.
Certo, l'epoca vista non solo da destra ma in generale, è segnata dal trionfo della tecnica e dell'economia sulla politica e sulla passione civile. I suoi leader furono legati all'economia: Solinas cita Berlusconi, Prodi e Monti, ma si potrebbero aggiungere anche Ciampi, Dini, Amato, Maccanico e altri.
Il viaggio sentimentale di Solinas tra Leopardi e Longanesi-Flaiano, è un vivace riassunto generale di quel che scriviamo ogni giorno sul Giornale e del disagio che viviamo noi che non fummo e non siamo liberali e moderati. Un disagio che diventa disprezzo rispetto al fallimento e al cinismo delle classi dominanti ma che si fa speculare quando affronta il cinismo volgare del «popolaccio». Solinas nasconde nel disgusto e nella malinconia un'indole romantica. Un romanticismo che non disdegnò di trescare col fascismo proprio perché amore proibito, storia vietata, scelta disperata. Il fascismo rappresentava «il più altrove» possibile nella storia d'Italia, anche se paradossalmente era l'autobiografia degli italiani (ma degli italiani in piedi, eretti o a volte solo in erezione). Proprio perché impossibile, impronunciabile, irrealizzabile e scandaloso, il sogno del fascismo catturò gli spiriti romantici come quello di Stenio. È bello sedersi dalla parte del torto e dei vinti.
Solinas ricorda le vittime neofasciste degli anni di piombo, ma ha l'onestà civile e morale di provare vergogna per alcune brutte storie che segnarono quel mondo, come lo stupro di Franca Rame.
Ha ragione Solinas a notare che il cosiddetto ventennio berlusconiano sia stato piuttosto il ventennio dominato dall'ossessione antiberlusconiana. Onesto è il suo bilancio di Berlusconi e di Grillo, che ne è la prosecuzione e la negazione al contempo con altri mezzi.
Alla fine, forse anche per Solinas, come per Nanni Moretti, si fa struggente il ricordo amaro e dolce dei nostri vent'anni, cantato da Bruno Lauzi in Ritornerai. Di quel cammino resterà un'impronta lieve sui sentieri dell'anima.
di Marcello Veneziani (ilGiornale.it)