mercoledì 29 febbraio 2012

LA MECCANICA DEL SORRISO NELL'INDUSTRIA PESANTE - spunti e riflessioni di un militante operaio




tratto da Casaggì Firenze
Pubblichiamo le riflessioni di un militante di Casaggì, da anni impegnato come metalmeccanico. Le sue riflessioni, che vogliamo estendere a tutti, dipingono senza fronzoli la realtà di una società che ha sacrificato ogni forma di dignità sull'altare della produttività e del profitto, dell'ipocrisia e dell'apparenza.


Lavorare come operaio specializzato in fabbrica oggi può, fortunatamente, rendere economicamente stabili e autosufficienti, se si è disposti ad un sacrificio fisico e spirituale. Fino a non pochi anni fa il lavoro di operaio nell’industria pesante non sempre era giustamente retribuito e non era adeguatamente tutelato, mentre adesso – a dispetto di quanto si dica - abbiamo fondi, assicurazioni, e tante altre scartoffie che si firmano al momento dell’assunzione e che ci promettono tutela fisica ed economica durante il periodo del contratto. Dico “abbiamo”, perchè io da qualche anno a oggi lavoro in fabbrica come metalmeccanico. Potrei esserci da 30 anni come da 3 mesi, potrei chiamarmi Paolo come potrei chiamarmi Stefano, ma questo non importa: oggi non voglio parlare di me.

Il lavoro in fabbrica, sia esso in officina, in fonderia, in catena di montaggio o alle lavorazioni meccaniche, richiede oggi meno praticità manuale di ieri, ma più conoscenza ed esperienza in un dato settore: da qui nasce la qualifica “operaio specializzato”. Un operaio specializzato, nel mio settore (quello dei macchinari che vanno avanti anche di notte o a Natale e non si fermano mai) porta a casa, straordinari alla mano, attorno ai 1500 euro netti al mese, che in tempo di crisi e di rivolte non sono pochi, almeno a prima vista. Se poi non si incorre nei rischi delle delocalizzazioni e delle conseguenti perdite del posto, si è ancora più fortunati.

La differenza che invece pochi conoscono tra l’operaio sotto-pagato di ieri e lo spensierato operaio specializzato di oggi è che mentre prima non vi erano computer o controlli robotizzati, oggi ci sono metodi di produzione calcolati e cronometrati, al punto che nella produzione di massa (per pezzi di piccola dimensione, quindi di rapida fabbricazione) sono calcolati anche i movimenti degli arti dell’operaio che carica in macchina i pezzi da lavorare e le operazioni da fare, cosi da far avere ai piani alti un costo approssimativo in relazione al tempo per la produzione di una determinata commessa. Una sorta di grande fratello applicato alla produttività e all’industria: un Moloch fatto di pressioni psicologiche e efficientismo su vasta scala. Il mito della concorrenzialità eretto a sistema, il degno accessorio della società del “produci, consuma e crepa”.

I piani alti, quelli che decidono il ritmo, raramente scendano in officina a constatare quanto spesso, a causa di una scarsa cura dei macchinari causata dalla necessità di risparmiare il tempo della manutenzione e continuare a produrre, gli operai sprechino il 30% della loro giornata per lubrificare degli ingranaggi ormai obsoleti, con buona pace dei tempi e dei record di velocità. Ma prima facciamo un passo indietro: andiamo a vedere che cosa succede quando i piani alti scendono giù, nello sporco dell’officina.

L’Asia ha conquistato gran parte della produzione metalmeccanica di tutto il mondo, ma fortunatamente le lavorazioni di alta precisione dove si richiede una manodopera specializzata (qualche volta anche laureata) vengono ancora svolte qui in italia. In questi settori, dato l’alto costo del prodotto finale, il cliente chiede spesso - oltre all’usuale certificazione del prodotto - di poter visionare ad occhio nudo il cuore dell’azienda, ossia l’officina stessa.

Ed è qui che l’operaio moderno dovrà svolgere il reale 50% del suo lavoro, quello che più conta: non si tratta più solo di caricare dei pesi, sbloccare ingranaggi o tagliare l’acciaio, ma si tratta “semplicemente” di sorridere. Ebbene sì, sorridere. L’operaio deve sorridere d’estate quando a causa della mancanza di un adeguato impianto di condizionamento (o semplicemente l’assenza di quest’ultimo) sente dire che qualcuno sviene (se poi questo disgraziato nello svenire cadesse in un macchinario non è dato poterlo pensare); deve sorridere quando è inverno e per il freddo gli si spaccano le mani sanguinanti; deve sorridere quando respira polvere di ferro e deve sorridere quando gli vengono messi i piedi in testa da imbranati incravattati. E questo perché l’operaio è un numero: una banale e semplice matricola sorridente. Oggi l’operaio è solo una matricola, un numero che può essere facilmente rimpiazzato, e di cui nessuno sentirà la mancanza. Un numero che non può contare più neanche su quella spontanea solidarietà che un tempo si creava in fabbrica, perché quelli che “tengono famiglia” hanno sempre qualcosa da perdere e nessuno è disposto ad alzare la testa.

L' operaio passa otto o nove ore al giorno tra i macchinari dell’azienda e grazie alla sua esperienza conosce e scopre i metodi migliori per velocizzare la produzione o per renderla più sicura, ma il suo parere non importa a nessuno, perché per quanto il suo metodo possa essere più efficace di altri, nessuno lo ascolterà e gli imbranati incravattati continueranno a ripudiare le sue proposte obbligandolo senza sforzo a usare i loro metodi, perchè un computer li classifica come i più rapidi.

L' operaio di oggi è quindi un sorridente schiavo, costretto da uno stipendio a chinare la testa e a non poter dire la sua. Costretto a usare metodi e ritmi catalogati da una macchina, costretto alla produttività più spersonalizzante e alla più cieca rinuncia alla propria dignità di uomo e di lavoratore. Poco importa che durante le sue ore lavorative abbia dato il massimo: gli operai migliori sono quelli disposti a farsi dilatare l’ano nel momento del bisogno, che sia il lavoro domenicale o il turno a Natale. Per i piani alti l’operaio è un burattino qualsiasi senza faccia o nome. Un burattino che sorride, preme bottoni e stringe bulloni, ancor meglio se muto e senza pretese. Forse è per questo che la maggior parte degli operai sono anche cacciatori: dopo essere stati schiacciati 6 giorni su 7 dal più forte, il settimo giorno vogliono poter esser loro a soffocare chi è senza voce e più debole di loro. Ma questa è una mia supposizione…

Alla fine, la fabbrica, è il perfetto specchio della società moderna: accecata dal nulla di un nuovo video-telefonino e assetata di un sorriso; poco importa se poi, dietro la maschera del sorriso, ci sia un orco o una fata. Quel che conta è apparire felici, mostrare tranquillità e ostentare gioia. L’operaio nella democrazia, come la democrazia nella dittatura del sorriso: poco importa saper mantenere la parola data o essere uomini d’onore; meglio essere assassini asserviti al sistema, ma col sorriso sulla faccia. Ancor meglio se poi, quella bella faccia, è rifatta dal chirurgo.